Forma dei provvedimenti del giudice e rimessione anticipata della causa al collegio: ordinanze e sentenze in generale
Il processo è una serie di atti posti in essere dalle parti e dal giudice.
Alcuni provvedimenti sono destinati ad avere un'efficacia che va al di là del processo in corso; altri invece, sono destinate a disciplinare solo lo svolgimento del procedimento ed hanno un'efficacia detta "ordinatoria" o "strumentale".
Il nostro codice dispone che tutti i provvedimenti con contenuto ordinatorio o strumentale rispetto alla statuizione finale sull'esistenza o inesistenza del diritto fatto valere in giudizio abbiano la forma dell'ordinanza.
Riserva invece la forma della sentenza agli provvedimenti con cui il giudice statuisce sull'esistenza o inesistenza del diritto fatto valere in giudizio dall'attore, ovvero dichiara di non poter statuire su di esso per motivi di rito, oltre a talune ipotesi da considerare come eccezionali.
L'art. 279(4) c.p.c. delinea il regime di efficacia e stabilità dei provvedimenti aventi forma di ordinanza i quali "comunque motivati, non possono mai pregiudicare la decisione della causa" e "salvo che la legge disponga altrimenti, e si sono modificabili e revocabili dallo stesso" giudice che li ha emanati, "e non sono soggetti ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze".
Le parti possono chiedere la revisione del provvedimento avente la forma di ordinanza solo con l'istanza di revoca o di modifica, non essendo applicabile la disciplina dei mezzi di impugnazione.
Vi sono poi delle ordinanze espressamente dichiarate non modificabili né revocabili dall'art. 177(3) c.p.c.
Si tratta di casi eccezionali: ordinanze pronunciate sull'accordo delle parti in materia della quale queste possono disporre (tuttavia revocabili dal giudice istruttore o dal collegio quando vi sia l'accordo di tutte le parti); ordinanze dichiarative non impugnabili ex lege; ordinanze per cui la legge prevede uno speciale mezzo di reclamo.
L’art. 178 c.p.c. ("controllo del collegio sulle ordinanze"), prevede che le parti, quando la causa rimessa al collegio, possono proporre tutte le questioni risolte dal giudice istruttore con ordinanza revocabile.
La forma della sentenza è in invece prevista dal nostro ordinamento come forma "per eccellenza" per la statuizione sull'esistenza o inesistenza del diritto fatto valere in giudizio.
L'art. 279 c.p.c. è la disposizione base per individuare i cinque casi in cui deve essere pronunciata sentenza.
Se ne ricava pertanto che la sentenza è la forma tipica ed eccezionale rispetto all'ordinanza che invece è forma generale dei provvedimenti del giudice.
La sentenza ha una disciplina diametralmente opposta a quella dell'ordinanza, in quanto è per definizione irrevocabile da parte del giudice che l'ha emanata e quindi le questioni risolte con tale provvedimento non possono più essere riesaminata dal giudice che le ha decise.
Essa ha, all'interno di quel grado di giudizio, una efficacia preclusiva strettamente collegata al regime dei rimedi esperibili contro le sentenze.
Queste, infatti, sono soggette ai soli mezzi di impugnazione in senso tecnico: l'appello, ricorso per Cassazione, revocazione, regolamento di competenza, opposizione di terzo.
Gli artt. 187, 188, 189 c.p.c. individuano i poteri del giudice istruttore per far passare il processo in fase decisoria; ad essi corrisponde l'art. 2792 c.p.c. per quanto concerne i poteri del collegio.
L'ipotesi più semplice (art. 188 c.p.c.) è il passaggio in fase decisoria a seguito del completamento della fase istruttoria.
Strettamente speculare l'ipotesi prevista dall'art. 1871 c.p.c. secondo cui, subito dopo la fase preparatoria, il giudice istruttore rimette la causa al collegio quando la ritiene matura per la decisione senza assunzione di mezzi di prova, in quanto o le parti non richiedono l'assunzione o il giudice ha ritenuto i mezzi di prova richiesti inammissibili o irrilevanti o le prove sono solo documentali o si tratta di controversia di puro diritto.
In entrambe queste ipotesi il collegio (o il giudice monocratico) definirà il giudizio decidendo totalmente il merito della causa.
A fronte di queste, il legislatore all'art. 1872-3 c.p.c. indica altre due ipotesi di rimessione della causa in fase decisoria.
Il secondo comma prevede tale possibilità qualora nel corso del processo insorga (e sia matura per la decisione) una questione preliminare di merito avente astratta idoneità a definire il giudizio e questa sia delibata dall'istruttore nel senso della sua concreta idoneità nel caso di specie.
Il terzo comma prevede, specularmente, la stessa disciplina rispetto a questioni di giurisdizione, competenza o altre pregiudiziali di rito astrattamente idonee a definire il giudizio. In
Questi casi, qualora il giudice in fase decisoria concordi con la delibazione dell'istruttore, chiuderà il processo con sentenza definitiva, di rito o di merito, di rigetto della domanda dell'attore; ove invece non concordi con la delibazione dell'istruttore, il legislatore ha ugualmente previsto che la questione sia risolta con sentenza, sentenza che però è qualificata come "non definitiva" in quanto inidonea a definire il giudizio che, pertanto, dovrà tornare in fase istruttoria per essere proseguito.
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Dettagli appunto:
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Autore:
Stefano Civitelli
[Visita la sua tesi: "Danni da mobbing e tutela della persona"]
- Università: Università degli Studi di Firenze
- Facoltà: Giurisprudenza
- Esame: Diritto processuale civile (modulo primo), a.a. 2007/2008.
- Titolo del libro: Lezioni di diritto processuale civile
- Autore del libro: Andrea Proto Pisani
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