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Riflessioni finali

 
La legge 15 e il decreto legislativo 150 del 2009 disegnano un nuovo ruolo del dirigente pubblico maggiormente responsabilizzato nella gestione del personale e nella valutazione dei dipendenti. Lo stesso dirigente è anche chiamato, in modo più esplicito e puntuale, a rispondere del proprio operato in relazione al raggiungimento di chiari obiettivi prefissati e, più in generale, al conseguimento di visibili e verificabili risultati.
 
La Riforma Brunetta sembra quindi rafforzare il sistema di valutazione dei dirigenti della PA, si tratta di un passaggio importante che rende più vincolante e più serio il sistema premiante, spesso confinato ad essere un aspetto del tutto irrilevante della gestione del sistema amministrativo e della misurazione delle performance. Prova ne è il fatto che anche i corrispettivi economici, relativi al merito e al raggiungimento degli obiettivi, sono diventati sempre più esigui, rispetto alla retribuzione complessiva. Con la creazione del nuovo sistema che ha tra i suoi perni la nascita di organismi indipendenti di valutazione dei dirigenti, è possibile imprimere una svolta alla centralità del merito rispetto alla posizione e agli avanzamenti automatici di carriera.

I punti di debolezza dell’esperienza di valutazione praticata nell’ultimo decennio nell’amministrazione centrale, pur se con le dovute distinzioni che caratterizzano ciascuna organizzazione, ha un comune denominatore, cioè l’esercizio di una valutazione routinaria e formale che nella sostanza incide molto poco nella dinamica gestionale degli enti. Il risultato sono valutazioni tutte schiacciate verso l’alto e retribuzione di risultato uguale per tutti, come se i dirigenti dell’amministrazione centrale fossero tutti dei best performers, un’ipotesi poco credibile.

Ciononostante rimangono aperte numerose questioni sulle chance di concreta applicazione di uno strumento così rigido, ed anche sulle restanti parti della riforma che si riferiscono agli strumenti di valutazione.
La teoria che ispira la riforma della seconda metà degli anni novanta è la seguente: le amministrazioni adottano un sistema gestionale di tipo direzionale, cioè per obiettivi e con sistemi di misurazione dei risultati (efficacia) e dei costi (efficienza); gli obiettivi vengono forniti dai vertici politici e poi si dettagliano a cascata; la realizzazione degli obiettivi spetta alla line e quindi la valutazione delle performance deve essere collocata al di fuori di essa, cioè nello staff del politico. È questa che valuta la dirigenza di vertice che poi, sempre a cascata, valuta la dirigenza di base.

Il disegno è molto geometrico, rigoroso, eppure è fallito. Perché? Il principale motivo è consistito nel fallimento della principale premessa teorica: la distinzione tra politica e amministrazione.

La riforma Brunetta, con la sottolineatura del tema della valutazione e delle performance, procede, anche se la mancanza di risorse economiche per dare sostanza ai risultati e il blocco della contrattazione rendono la sua attuazione debole e precaria, anche in considerazione del fatto che la riforma punta sul riconoscimento economico come leva fondamentale per premiare il merito e la performance; in altre parole, a mio parere, la riforma ha avuto un successo culturale, a cui non corrisponde necessariamente una analoga efficacia. Comunque a ben vedere nell'excursus normativo, tale riforma non è una novità, in quando riprende concetti e temi da tempo al centro del dibattito, ed anche già oggetto di norme di legge.

Sarebbe un errore pensare che quanto realizzato sia un punto di arrivo, c’è ancora un bel po’ di strada da percorrere. I modelli, gli strumenti e le tecniche sono fattori necessari ma non sufficienti per creare la “cultura della misurazione e del risultato”. Non bisogna trascurare la “cura” degli aspetti organizzativi. La vera sfida è l’utilizzo delle informazioni nell’organizzazione, non basta dunque conoscere i risultati, occorre imparare a gestirli, facendoli diventare componente essenziale dei meccanismi operativi delle decisioni.

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