Economia del settore agroalimentare:
Appunti del corso di Economia del Settore Agroalimentare tenuto dalla Docente Prof.ssa Anna Carbone presso l'Università della Tuscia
Dettagli appunto:
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Autore:
Valerio Morelli
[Visita la sua tesi: "L'interazione tra l'immagine di un brand sportivo e la notorietà dei singoli calciatori: il caso Real Madrid"]
- Università: Università degli Studi della Tuscia
- Facoltà: Economia
- Docente: Prof.ssa Anna Carbone
Indice dei contenuti:
- 1. La manodopera nel settore agricolo
- 2. Evoluzione storica del settore agricolo italiano dal Dopoguerra ad oggi
- 3. Aspetti strutturali dell’agricoltura italiana
- 4. Il marchio nel settore alimentare
- 5. Certificazioni e denominazioni d’origine
- 6. Certificazioni e denominazioni d’origine
- 7. Agricoltura, industria ed economia
- 8. Il ruolo dell’agricoltura all’interno dell’economia italiana
- 9. Differenze tra le denominazioni DOP e IGP
- 10. Teoria del commercio internazionale
- 11. Filiera agroalimentare
- 12. Evoluzione dell’agricoltura e dell’agribusiness
- 13. Creazione e adozione dell’innovazione nel settore agroalimentare
- 14. Filiera cerealicola
- 15. Piccole imprese del settore agroalimentare
- 16. Censimento generalo dell’agricoltura
- 17. La concorrenza nel settore agroalimentare
- 18. La concorrenza nel settore agroalimentare
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Economia del settore agroalimentare di Valerio Morelli Appunti del corso di Economia del Settore Agroalimentare tenuto dalla Docente Prof.ssa Anna Carbone presso l'Università della Tuscia Università: Università degli Studi della Tuscia Facoltà: Economia Docente: Prof.ssa Anna Carbone1. La manodopera nel settore agricolo La tabella mostra le diverse figure della manodopera impiegata nelle aziende agricole. Abbiamo due grandi gruppi: manodopera familiare e altra manodopera. Le prime righe sono occupate dai diversi ordinamenti produttivi, il secondo gruppo di righe distingue per dimensione economica delle aziende; guardando l’ultima riga del totale, si notano alcuni aspetti rilevanti. Ad esempio, il 52%, la metà abbondante di tutta la manodopera utilizzata nell’agricoltura italiana, è lavoro erogato dal conduttore, dall’imprenditore. Nel complesso, la manodopera familiare rappresenta l’85%, la stragrande maggioranza del lavoro erogato. Le altre figure familiari compaiono in proporzioni ridotte: 16% del coniuge, altri familiari più del 10% e parenti meno del 5%. Le altre colonne, che riguardano il ruolo della manodopera salariata, non familiare, distinta a sua volta in salariati fissi, ossia impiegati a tempo indeterminato, i quali contano davvero poco; 0.9% sono coloro che svolgono un ruolo dirigenziale, 3% sono operai, persone assunte a tempo indeterminato nelle aziende agricole, che si occupano di mansioni manuali. A tempo determinato, in particolare nella posizione degli operai, le cose cambiano; troviamo un quasi 10% del lavoro complessivamente erogato, perché i lavori in agricoltura, il fabbisogno di manodopera in agricoltura è molto a singhiozzo, il calendario dei lavori è mal distribuito nel corso dell’anno. Si verificano momenti di picco, ad esempio per le culture arboree, il momento della raccolta o potatura. Raccolta che è momento di picco anche per seminativi e ortive, momento di picco nell’assorbimento. Questo fa si che, in aziende piccole, dove nel corso dell’anno c’è esubero di manodopera disponibile, inutilizzata, poi in alcuni momenti, per alcuni giorni o settimane, c’è bisogno di prendere persone dall’esterno, poiché la disponibilità familiare non basta più. In altri casi, il problema della discrepanza tra domanda e offerta di manodopera aziendale, deriva dal tipo di mansione da svolgere. Se analizziamo, dettagliatamente, i diversi ordinamenti produttivi, l’incidenza della manodopera a tempo determinato, cambia a seconda del tipo di produzioni prevalenti. Ad esempio, è piuttosto bassa nell’ordinamento specializzato a seminativi, dove la raccolta è meccanizzata, c’è il terzista e non c’è assunzione di operai. Dato più forte nell’OTE dell’ortofloricoltura, nella frutticoltura, nell’olivicoltura, e poi si riabbassa nel caso degli allevamenti, dove gli stessi allevamenti hanno la % più alta della manodopera a tempo indeterminato, perché sono quelle produzioni per cui il fabbisogno di manodopera è elevato e costante per tutto l’anno. Nel leggere queste %, importante è la distorsione, derivante dalla qualità del lavoro erogato che, nel caso delle aziende familiari, porta ad una sovrastima, dove la % è calcolata sul numero di giornate lavorate, dichiarate al momento del censimento dal conduttore aziendale. Percentuale di aziende per l’impegno aziendale del conduttore. Da questa tabella emerge che, 1 imprenditore su 4 possiede un’altra attività, esterna all’azienda, il 25%. Nel caso delle dimensioni aziendali, la % di pluriattività è più alta nelle aziende piccole, e si riduce progressivamente man mano che aumentano le dimensioni delle aziende; laddove le dimensioni aziendali lo consentono, l’impegno dell’imprenditore si concentra in azienda. Se, invece, la relazione di capitali dell’impresa non permette di generare reddito sufficiente per la famiglia, strategia più frequente è la pluriattività. Se si scremasse il dato del 25%, da quelle imprese gestite da imprenditori anziani, l’incidenza sarebbe più elevata. Nel dettaglio degli ordinamenti produttivi, emergono alcune differenziazioni significative, ad esempio l’OTE a culture ortive o floricole ha un’incidenza della pluriattività più bassa rispetto alle altre, perché si tratta di ordinamenti produttivi che Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare richiedono più impegno in azienda, sia come erogazione quotidiana di manodopera, che come impegno gestionale. Al tempo stesso, sono anche ordinamenti produttivi che generano redditi maggiori, c’è minore spinta verso la ricerca di un’altra attività. Ci sono poi ordinamenti dove la pluriattività non incide di più. La prima colonna riguarda imprenditori agricoli full time, a tempo pieno, oppure che hanno un impegno in azienda prevalente. Quando l’imprenditore agricolo è pluriattivo, impegnato in un altro settore, l’attività extragricola tende quasi sempre ad essere prevalente come impegno. Attività extraziendale del conduttore part time Qui c’è il dato % di quello che fanno gli imprenditori agricoli pluriattivi, come attività al di fuori della loro azienda. Alcuni, il 16%, sono attivi in agricoltura, fuori dalla loro azienda, ma sempre nel settore primario. Più del 25% sono attivi nell’industria, e a seguire negli altri settori. RLS aziendale per impegno in azienda del conduttore. Si può vedere come si differenzia il dato medio, a parità di dimensioni aziendali, nel caso dell’attività a tempo pieno in azienda, o nel caso della pluriattività, con l’attività mista che riduce il reddito aziendale. Sull’asse delle ordinate, di questo grafico, ci sono dati % sull’incidenza di agricoltori con meno di 40 anni. La colonna blu riguarda l’agricoltura, quella gialla riguarda l’economia. Sull’asse delle ascisse, troviamo gli occupati in agricoltura in tutte le figure professionali. Nell’agricoltura italiana, con meno di 40 anni, abbiamo il 37/38%; negli altri settori dell’economia italiana, l’incidenza è più elevata, poco sotto il 50%. In alcuni grandi paesi europei, nel complesso del sistema economico, ci sono più giovani di quanti non ce ne siano in agricoltura. C’è una differenza generale nella struttura demografica, tra un paese industrializzato e un paese meno ricco, con un’incidenza di popolazione giovane più elevata nei paesi meno industrializzati, rispetto a quelli ricchi in cui c’è una tendenza all’invecchiamento, perché s’allunga l’età media, si riducono i tassi di natalità. Dopodiché, c’è una specificità che riguarda il settore agricolo, che è la senilizzazione del settore, ossia l’invecchiamento della manodopera utilizzata nel settore agricolo, che dipende dalla selettività del processo dell’esodo agricolo, avvenuto con l’avvento dell’industrializzazione del paese, quando si sviluppano gli altri settori dell’economia, il settore industriale, dei servizi e c’è uno spostamento selettivo dei lavoratori dal settore primario agli altri settori, che riguarda lavoratori più giovani, i quali hanno più facilità a riconvertirsi dal punto di vista professionale, imparare a fare nuove cose, sono più facilitati nel spostarsi sul territorio dove c’è domanda di lavoro. Pertanto, nel settore primario tendono a rimanere persone adulte, più grandi d’età. Quindi, c’è un primo cambiamento della struttura demografica, che avviene in modo concentrato, in particolar modo in Italia, con uno svuotamento della manodopera più giovane. Col passare del tempo, la struttura demografica del settore resta squilibrata, perché giovani generazioni che s’affacciano al mondo del lavoro, vanno in via preferenziale verso gli altri settori. Inoltre, si riducono progressivamente nel tempo i giovani che entrano nel settore primario; una volta finito l’esodo vero e proprio, continua ad esserci un assottigliamento delle fila di giovani che, quando terminano gli studi e devono entrare nel mondo del lavoro, scelgono il settore primario, perché le occasioni d’occupazione sono minori, i redditi sono bassi, e quindi c’è una selezione anche in entrata. In Italia, dagli anni ’50 agli anni ’80, c’è stato un allungamento dell’età Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare scolare, un ritardo nell’entrata del mondo del lavoro che si è man mano esteso, spostando verso l’alto la piramide demografica degli occupati in agricoltura. La minore presenza di giovani è un fatto comune all’agricoltura dei principali paesi dell’UE. Tuttavia, c’è qualche differenziazione tra paese e paese. Ad esempio, un dato rilevante è la situazione del Portogallo, dove c’è un’incidenza di giovani in agricoltura bassissima, a differenza degli altri settori in cui la presenza di giovani è piuttosto elevata. Questo grafico, per il Portogallo, evidenzia una specificità dell’agricoltura. Portogallo che si comporta in maniera un po’ anomala, nel caso della distribuzione delle aziende agricole, per classi dimensionali, dove emerge una situazione di frammentazione drammatica, peggiore, rispetto all’Italia. In Olanda, invece, c’è una situazione opposta. Ci sono parecchi giovani nell’agricoltura, dove la situazione agricola non è molto diversa dagli altri settori dell’economia. Il grafico ci dice che, quando c’è una maglia aziendale più forte, l’agricoltura trattiene e/o attira più giovani; viceversa, laddove la maglia aziendale è più fragile, c’è minore presenza di giovani. Questo grafico riporta l’incidenza dei lavoratori anziani, molto anziani come lavoratori, in un’età (65 anni) in cui si va in pensione come lavoratori dipendenti. Le barre gialle, che riguardano l’intera economia, sono basse, ci sono pochi lavoratori occupati nei paesi europei. Qui è la situazione è completamente diversa. Il massimo è il 15% dei lavoratori agricoli in Portogallo. I lavoratori, sostanzialmente, sono pochi; ci sono liberi professionisti, imprenditori, lavoratori autonomi. Mentre, in agricoltura, ce ne sono sempre di più, in ogni paese. Si nota che, in alcuni paesi, c’è una presenza particolarmente forte, come Portogallo appunto, Grecia, Italia, Danimarca. Un primo motivo per cui, in agricoltura, la manodopera tende a restare attiva, anche molto in avanti negli anni, è lo stesso settore che, essendo una struttura d’impresa di tipo familiare, i lavoratori tendono ad andare in pensione, smettono l’attività, oppure vanno in pensione ma la proseguono nella loro impresa. In agricoltura c’è una specificità in più, che riguarda la commistione tra la vita professionale e la vita delle persone; la vita nell’azienda agricola, spesso, è la vita delle persone, in azienda c’è la residenza di queste persone. Qualora non ci fosse un familiare interessato a subentrare, in maniera attiva, non avviene successione. Come si valuta questo fenomeno? Fenomeno che presenta dei chiaroscuri: da una parte, se l’alternativa è l’abbandono totale dei terreni agricoli, è meglio che ci sia qualcuno, per quanto anziano, che si preoccupi ancora del governo dei terreni; dall’altra parte, la permanenza degli anziani in azienda tende a irrigidire ulteriormente il mercato fondiario già rigido, riducendo l’offerta di terreni. In Francia hanno fatto un esperimento, operante già da diversi anni, che è una Banca dei Terreni, una banca dati dei terreni disponibili o che lo saranno in un certo orizzonte temporale, terreni condotti da imprenditori agricoli anziani, che non hanno una successione interna alla famiglia, e nel giro di un tot numero di anni, non saranno più coltivati dall’imprenditore attuale. A fronte di questo, c’è una potenziale domanda di terreni, un’altra banca dati, domanda e offerta di terreni; da una parte ci sono giovani imprenditori agricoli, che magari hanno pochi terreni e vorrebbero ingrandirsi, oppure giovani aspiranti imprenditori agricoli. La domanda di terreni è specificata, segmentata, a seconda dell’ubicazione dei terreni, o di dove gli aspiranti vorrebbero avviare un’attività. Banca dati che svolge una funzione di mediazione tra imprenditori agricoli, potenziali uscenti e potenziali entranti, cerca di assortirli e di facilitare un’attività d’affiancamento nel tempo, ossia un’acquisizione di Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare competenze, dall’anziano in uscita al giovane in entrata. Questo grafico è sempre una ripartizione per diverse classi d’età: sotto 44 anni, tra i 45 e 64 anni e sopra i 65; riguarda solo i conduttori aziendali, gli imprenditori agricoli. In questo caso, si mostra come la situazione demografica, con riferimento ai conduttori aziendali, sia molto più esasperata, i lavoratori salariati tendono ad essere più giovani degli imprenditori. La situazione dell’invecchiamento del lavoro agricolo è dovuta proprio all’invecchiamento degli imprenditori stessi. Ulteriore fattore d’invecchiamento della manodopera, abbastanza recente, che iniziò ad esercitare in Italia i suoi effetti negli anni ’80, è una sorta di ritorno all’agricoltura. C’è stato un processo di inversione dei saldi demografici dei lavoratori agricoli, per cui dai 60 anni in su, ricominciavano ad esserci dei saldi attivi; questo perché, in quel periodo, c’erano pensionamenti anticipati come età, persone che andavano presto in pensione da altre occupazioni, e invece di non far nulla, iniziavano un’attività di agricoltori, o essendo di estrazione agricola come famiglia, ossia poteva essere un ritorno all’agricoltura di persone che, da giovani, erano uscite dal settore primario, oppure persone che non avevano mai fatto gli agricoltori, ad esempio smettono di lavorare, lasciano la città, vanno a vivere in campagna e iniziano una loro attività produttiva. L’incidenza forte di agricoltori anziani ha, tradizionalmente, delle conseguenze negative, perché i giovani sono meglio istruiti, più propensi al rischio, hanno un orizzonte di vita maggiore davanti a loro, tendono ad essere imprenditori più dinamici. Alcuni studiosi rappresentano questo fenomeno, raccontandolo come circolo virtuoso, dove nelle aziende più grandi, meglio dotate, si tende a restare giovani, perché se si è figlio di agricoltore, che ha un’azienda con buone prospettive di reddito, è probabile che si decida di rimanere attivi in agricoltura; a sua volta, la presenza di giovane agricoltore darà un contributo positivo alla redditività dell’azienda, possibilità di investire capitali, ecc. Nelle aziende minori, invece, che sono meno produttive, meno redditizie, c’è maggiore probabilità di non avere un successore, di restare abbandonate. NUOVO ARGOMENTO. Valutazione della misura di sostegno all’ingresso di giovani agricoltori, che l’UE ha incluso nell’ambito della PAC. È una misura di tipo strutturale, che è un aiuto a fondo perduto, per giovani che intendono iniziare un’attività in agricoltura, e per favorirne l’insediamento. È un tentativo di valutare se questa misura è stata efficace o meno; la tesi che si sostiene è che, questa misura non poteva avere nessuna efficacia per come era costruita, rilevandosi come iniqua. Non essendo riuscita a generare nuove imprese condotte da giovani, è stata considerata come regalo di 30mila € a giovani che erano già insediati in aziende agricole, oppure a giovani che non sarebbero mai stati imprenditori agricoli ma avevano un familiare coinvolto in tale settore. Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare 2. Evoluzione storica del settore agricolo italiano dal Dopoguerra ad oggi I cambiamenti che hanno investito il nostro Paese, in quest’arco di circa 60 anni, sono stati impetuosi e molto profondi. Il processo di industrializzazione e di modernizzazione della società italiana è avvenuto nell’arco di 20/30 anni. Se guardiamo agli altri paesi europei, come Inghilterra, Francia e Germania, questo processo ha interessato un secolo e anche più. C’è stata una concentrazione di fenomeni estremamente rilevante. Era un’Italia dove la popolazione era, in grandissima parte, rurale, non urbanizzata, una popolazione che estraeva il suo sostentamento dal settore primario, soprattutto dall’agricoltura; una popolazione largamente sott’occupata che, nei contesti rurali, non riusciva ad impiegare la propria capacità lavorativa. Si trattava di una popolazione non istruita, l’analfabetismo molto diffuso, una popolazione non alimentata sufficientemente, mal nutrita sia in termini quantitativi, come livello aggregato di assunzione calorica, che in termini di composizione della dieta. Un’Italia diversa, lontana, rispetto all’Italia che conosciamo oggi. Le aziende agricole, nell’Italia a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono in minima parte integrate nel mercato, definite come realtà ancora pre mercantili, realtà economiche di autoconsumo; in quegli anni c’è il latifondo, la mezzadria, ci sono tante famiglie rurali che sono legate in quanto famiglia alla terra che lavorano, specie al Sud, ma anche in Toscana e alcune aree dell’Italia settentrionale come il Veneto. I rapporti sociali erano arcaici, quasi medievali, in termini economico – sociali; la famiglia contadina era legata al fondo, se si nasceva figlio di contadini, si lavorava poi in quell’azienda, non si era chiamati a fare individualmente una propria scelta. Con il latifondista c’era un rapporto di tipo signorile, un rapporto che in alcuni casi non era molto distante dalle gerarchie sociali di tipo medievale. Il fatto che le aziende agricole erano chiuse in se stesse, poiché realtà di autoconsumo, aveva dei risvolti rilevanti non solo sul piano sociale, ma anche sul piano tecnologico e delle scelte produttive. In quel periodo il mercato era perlopiù locale, i trasporti non erano sviluppati, s’avevano piccoli mercati marginali locali dal punto di vista geografico. La maggior parte della produzione serviva per il consumo familiare, per la sopravvivenza della famiglia, il che significa che, il tipo di produzioni che venivano attivate dall’agricoltore, quello che in agricoltura si chiama l’ordinamento produttivo, le aziende agricole sono aziende multi prodotto. Nel caso di aziende di autoconsumo, l’esigenza di produrre tante cose è molto forte; l’azienda che produce per autoconsumo deve attivare tutti i processi produttivi che danno luogo a tutti gli alimenti di cui la famiglia ha bisogno nel corso dell’anno. È un’azienda dove le dimensioni dei singoli processi produttivi sono minuscole, perché devono corrispondere al fabbisogno alimentare di un nucleo di persone che difficilmente supera le 15/20 unità. Processi produttivi, quindi, molto frammentati, parcellizzati. Il vantaggio più importante di tutti dell’esistenza del mercato è che il mercato attiva degli scambi, e gli scambi permettono la specializzazione, consentono a ogni soggetto presente nel mercato di produrre solo la cosa per la quale è più produttivo, che gli riesce meglio, perché i fattori della produzione di cui dispone sono più adatti a produrre una certa cosa, e tutti gli altri beni di cui ha necessità per vivere li ottiene attraverso il meccanismo dello scambio. Quest’altri Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare beni saranno prodotti da soggetti che, a loro volta, sono specializzati nella produzione di ognuna di queste cose, sono più efficienti, più produttivi, c’è quindi un vantaggio complessivo di tutti coloro che partecipano allo scambio. Questo è il nocciolo duro dell’ideologia liberista, ma anche la parte più forte sulla quale c’è meno disaccordo. Per quanto riguarda l’azienda agricola italiana del Dopoguerra, possiamo vedere come la necessità di produrre tante cose per soddisfare i bisogni alimentari della famiglia, parcellizza i processi produttivi e fa si che, presso qualsiasi zona italiana ci trovassimo, si producesse in quell’azienda un po’ di ogni cosa. In Piemonte, ad esempio, si trovavano delle piccole limonaie, protette contro i muri, i vasi coi limoni l’inverno venivano portati al chiuso, perché non c’erano mercati tali da far arrivare i limoni calabresi o siciliani anche in Piemonte; allo stesso modo, un po’ di latte necessario per i figli dell’agricoltore, nelle zone collinari interne dell’Italia meridionale, dove le condizioni ambientali non sono invocate per produrre latte in modo efficiente, si ricavava dalla singola vacca nella stalla che serviva a produrre quel po’ di latte che altrimenti non sarebbe stato disponibile. Si parla, quindi, di aziende agricole estremamente despecializzate, con tanti processi produttivi, ognuno attivato a livello infimi; queste aziende, chiuse dal lato degli sbocchi delle proprie produzioni, erano anche chiuse dal lato dell’acquisizione dei fattori produttivi. Non vi erano mercati per i beni finali, nemmeno per i fattori della produzione, la tecnologia che s’adottava nell’aziende era semplice, mezzi tecnici pochi e quasi tutti autoprodotti, la semente era un po’ del raccolto dell’anno precedente trattenuto per attivare la semina l’anno successivo, il concime era il letame dell’unica vacca che serviva per produrre latte e letame per concimare i campi, la forza lavoro era familiare come manodopera, la forza meccanica che era bestiame e attrezzi semplici prodotti in azienda o reperibili dal fabbro o falegname del paese. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, negli anni successivi, l’economia italiana all’inizio lentamente, e a seguire a ritmi sempre più incalzanti, comincia a crescere moltissimo. Rapidamente vengono costruite infrastrutture, soprattutto per via dell’intervento pubblico, s’iniziano a costruire tante strade, potenziare le ferrovie, il sistema dei trasporti pubblici si potenzia molto, nascono le prime grandi industrie, prima nel triangolo industriale Lombardia – Piemonte – Liguria, qualcosa al Sud quelle che saranno chiamate cattedrali nel deserto. Le industrie sottraggono braccia all’agricoltura, una parte consistente dei lavoratori agricoli si sposta dal settore primario all’industria, spostamento che riguarda inizialmente gli uomini e non le donne, implica uno spostamento di popolazione dal Sud al Nord, dalle campagne alla città, quindi il fenomeno di inurbamento è dilagante, e selettivo per genere ed età, perché i primi che vanno a lavorare nella nascente industria sono maschi giovani, mentre nelle campagne rimangono soprattutto donne anziane. In quegli anni, l’agricoltura è un settore definito come serbatoio di manodopera, proprio perché non riusciva a dare impiego a tutte le persone che vivevano nei contesti rurali, intrappolate in agricoltura, da l’assenza di alternative, nonostante il verificarsi delle grandi ondate emigratorie dell’Italia tra la fine dell’800 e inizi 900, di italiani che non riuscivano ad essere occupati in agricoltura e non avevano reddito. Italiani che si erano recati verso l’America latina, l’America del Nord. Nel ventennio fascista erano state bloccate le emigrazioni, ma subito dopo la guerra ripartono verso la Germania, la Francia. In questo periodo, Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare sono 10 mln e più le persone che si spostano. Processo dirompente che ha una serie di risvolti interessanti da un punto di vista del settore agricolo. Non c’è più coincidenza geografica tra la produzione agricola e il consumo, perché se milioni di persone s’allontanano dalle campagne per andare in città, si crea una netta separazione tra il momento della produzione e quello del consumo; si generano i mercati, l’esigenza di spostare merci, produrre per il mercato. Inoltre, l’industria nascente di quegli anni è industria meccanica e chimica, si inizia a creare un mercato di mezzi tecnici, di fattori produttivi per l’agricoltura, la quale si apre al mercato nel giro di pochi anni, sia dal lato dei fattori della produzione sia dal lato dei beni che genera. Lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto accompagna questo processo, perché mezzi tecnici e beni possono spostarsi lungo il paese. Questa apertura fa aumentare moltissimo la produzione, perché l’acquisizione dei mezzi tecnici dall’esterno introduce progresso tecnico che rende l’agricoltura più produttiva, aumenta la produzione e la produttività. L’apertura al mercato sul lato dei beni rende possibile la specializzazione dell’aziende che, producendo per il mercato e iniziando ad esistere mercati più sviluppati, ci si può permettere di non produrre qualcosa, definire produzioni per le quali le diverse aree sono più richiamate, diversi terreni sono più produttivi, la cultura che si è stratificata nel tempo rende le persone più abili a produrre. Specializzazione che fa aumentare la produttività del lavoro e della terra; produttività del lavoro aumenta perché da un lato c’è molta manodopera che esce, produttività che è il rapporto tra il prodotto e il fattore produttivo, espressa in quantità o in valore. Si parla di produttività globale quando al numeratore sono contabilizzati i fattori produttivi e si può misurare solo in valore. La produttività parziale, invece, può essere espressa anche in quantità, come la produttività del lavoro o della terra, definita come rapporto tra una certa quantità di prodotto ottenuto e il numero delle ore di lavoro necessarie per ottenerlo. La produzione aumenta perché aumenta moltissimo la produttività. In particolar modo aumenta la produttività del lavoro e della terra, per via della meccanizzazione, dove i mezzi meccanici sono sostituti del lavoro, e per via dell’utilizzazione massiccia di input chimici, sementi geneticamente migliorati e selezionati, migliori rotazioni agronomiche inserite e processo di specializzazione selettiva, per cui i terreni sono utilizzati per produrre ciò che sono più invocati a produrre. Durante questo periodo, si riduce la quantità di lavoro utilizzata, perché ci sono milioni di lavoratori che passano dal settore primario all’industria e servizi, ma erano lavoratori sott’occupati, il cui contributo marginale era ridottissimo all’ottenimento della produzione, e si riduce anche la terra usata in agricoltura, poiché i processi di industrializzazione e di urbanizzazione rubano terra all’agricoltura, perché utilizzano terreno ed esprimono domanda di terra, cioè la terra di pianura più vicina alle infrastrutture, alla viabilità. C’è competizione, che inizia in quegli anni e c’è tutt’oggi, tra l’agricoltura e gli altri settori nell’uso della terra. Effetti competizione fondamentali in un paese come l’Italia, che è un paese strutturalmente povero di terra e di terreni agricoli: carente di terra perché è un paese piccolo, densamente popolato, e povero di terreni agricoli perché è un paese montuoso e collinare, dove una parte rilevante di questi terreni che sono pochi non è soggetta ad essere coltivata, utilizzata in agricoltura o lo è parzialmente con livelli di produttività ridotti. Nella competizione per l’uso della terra, i settori non agricoli come l’industria, servizi e Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare usi urbani, vincono rispetto all’agricoltura, in questa competizione per accaparrarsi questa risorsa scarsa, perché sono più produttivi e remunerano meglio questa risorsa scarsa. Ogni fattore produttivo si muove da un uso all’altro, in base al livello di remunerazione, e settori che rendono più produttivo quel fattore sono settori che lo utilizzeranno intensamente. I lavoratori si spostavano dall’agricoltura all’industria, perché i salari che ottenevano in agricoltura erano inferiori ai salari ottenuti in altri settori, livello d’impiego e di produttività erano più bassi. Lavoro e terra si sono spostati massicciamente dal settore primario a usi non agricoli. Con la crescita del reddito, i consumi alimentari sono migliorati moltissimo; il problema della fame è diventato ricordo del passato. Aumenta l’assunzione di calorie, migliora e cambia la dieta, perché non solo è cambiata la composizione in termini di categorie di alimenti. Nelle società rurali del Dopoguerra, la base della dieta era data da cereali, e prodotti zootecnici, ma anche frutta e ortaggi avevano un ruolo marginale; il consumo dei grassi vegetali e animali era ridotto, il vino era consumato in maniera ubiquitaria dalla popolazione, e svolgeva una funzione importante l’integrazione calorica. Tutto ciò cambia nel giro di pochi anni, perché le mansioni svolte dagli operai nell’industria non sono compatibili col tasso alcoolico elevato nel sangue, quindi i consumi di vino si riducono velocemente e aumentano i consumi di prodotti zootecnici, latte e derivati, carni e aumentano anche i prodotti ortofrutticoli. Quella era l’Italia del boom demografico, un paese molto giovane dove i rapporti tra le diverse classi d’età erano diverse da quelle di oggi, c’erano meno anziani e più bambini/ragazzi. L’incremento in termini assoluti della popolazione fa crescere i consumi alimentari e di queste categorie, che i bassi livelli del reddito comprimevano. Come il reddito inizia a crescere, c’è un cambiamento interno nei consumi alimentari tra queste diverse categorie di alimenti. L’eventuale trasformazione delle materie prime in alimenti pronti per il consumo, avviene in gran parte in azienda; il grano, ad esempio, viene portato al mulino per la farina, ma viene portato su base individuale, la farina si riporta in casa, così come pane e pasta. Stesso discorso vale anche per pelati e olio. La rudimentale trasformazione delle materie prime agricole per renderle alimenti avviene su base domestica. Con il svilupparsi dei mercati agricoli, si esternalizzano alcune funzioni al di fuori della famiglia, si sviluppa un’industria alimentare. Queste trasformazioni cambiano velocemente la posizione delle aziende agricole, da produttrici di beni che vengono auto consumati (niente mercato) a produttrici di beni che, in parte, vanno sul mercato e, in parte, vanno sul mercato finale, perché sono beni destinati direttamente al consumo e destinati anche ad un mercato intermedio, perché sono beni venduti all’industria, che li utilizza come materie prime per una successiva trasformazione e seguente immissione sul mercato. L’agricoltura cambia notevolmente i suoi interlocutori, acquisisce nuovi interlocutori a monte per il reperimento delle materie prime e fattori produttivi, e a valle per la vendita dei prodotti. Tutto l’agroalimentare italiano si apre agli scambi con l’estero. In quei tempi, le persone non attraversavano il confine e neppure i prodotti. Era stato un ventennio autarchico. Con lo sviluppo dell’industrializzazione e dell’integrazione europea, che sfocia nella costruzione di un vero e proprio mercato unico, l’Italia s’integra in un sistema di scambi molto intenso, che è un dato fondamentale per l’agricoltura. Il dato della scarsità dei terreni che caratterizza l’agricoltura italiana è un dato importante da un punto di vista macroeconomico, dove crescita del reddito e boom demografico fanno Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare crescere moltissimo i consumi alimentari, perché l’Italia è un paese strutturalmente deficitario di beni agroalimentari, e inizia ad importare alimenti finali e materie prime agricole dal resto del mondo. Si sviluppano sia scambi in entrata, l’Italia è paese importatore di beni agroalimentari, che scambi in uscita, perché l’Italia è soprattutto esportatore di prodotti trasformati dell’industria alimentare. Uno dei pilastri costruttivi iniziali della CE è stata la Politica Agricola Comune (PAC), la prima e fino a tempi recenti la più importante sfera di azione della CE e poi dell’UE, più importante in termini sia di bilancio che di apparato normativo. La PAC ha sostenuto, incentivato e protetto, a partire dai primissimi anni della sua operatività, le produzioni continentali, in particolar modo cereali e zootecnia bovina da latte e da carne. L’integrazione è stata un po’ contraddittoria, perché incentivando queste produzioni, per le quali l’Italia non è particolarmente evocata, a differenza di Francia, Germania e parte del Regno Unito, ha creato una distorsione nella specializzazione produttiva dei paesi, e quindi anche dell’Italia che, per condizioni ambientali naturali, sarebbe stata più invocata a produrre ortofrutta, olio, vino, le produzione mediterranee. Una parte rilevante delle risorse agricole del Paese è stata dirottata, sotto l’azione di questi incentivi stabiliti all’interno della PAC, a produrre altre produzioni. Altro dato strutturale importante dell’Italia è che, pur essendo molto piccolo il Paese, è un Paese con condizioni produttive per l’agricoltura e condizioni ambientali, climatiche e pedologiche, molto differenziato. L’Italia ha una peculiarità dettata una varietà di ambienti, con avocazione produttiva diversa. Fino a metà degli anni ’70, la gestione del settore agricolo è stata unitaria, in quanto non esistevano le regioni, istituite nel ’72. Questa è una fase nella quale, il governo da parte del settore pubblico di questi processi, è stato molto centralizzato, seppur la Cassa del Mezzogiorno operava nel settore industriale e per la costruzione di acquedotti, alcune opere per il settore primario, gestite con una ripartizione territoriale a larga scala. Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare 3. Aspetti strutturali dell’agricoltura italiana Altro aspetto strutturale dell’agricoltura italiana è rappresentato dalle dimensioni delle unità produttive , delle aziende agricole. Storicamente, la struttura delle aziende agricole in Italia è estremamente frammentata, in unità di piccolissime dimensioni. Queste dimensioni molto piccole, che sono il carattere dominante della stragrande maggioranza delle aziende agricole italiane, hanno un numero ridotto di aziende molto grandi; negli anni ’50 il latifondo caratterizzava ampissime regioni dell’Italia meridionale e non solo. Si trattava di uniche proprietà e decine di migliaia di ettari di terreno, grandi come province. Un ettaro di terreno sono 10 mila m2, un quadrato di 100 mt di lato. Proprietà quindi enormi gestite in maniera estensiva, con investimenti minimali, che sfruttavano in termini unitari piccole rendite che, moltiplicate per decine di migliaia di volte, diventavano rendite consistenti per i proprietari latifondisti, e rappresentavano da una prospettiva economica generale un uso inefficiente di queste risorse. Tanto meno accettabile in un contesto dove la proprietà contadina era talmente frammentata, il numero di bocce da sfamare in ogni piccolissima azienda era elevato da generare situazioni di fame vera e propria. Questa situazione aveva scatenato delle situazioni esplosive, si verificarono contrasti politici, sociali violentissimi come i moti di Reggio Calabria. Fu messo in piedi un progetto di riforma fondiaria, partito inizialmente come progetto ambizioso, doveva riguardare milioni di ettari di terreno fino a rappresentare una % dei terreni coltivati molto rilevante. Questo progetto che era spinto da alcune forze politiche, era fortemente osteggiato dai referenti politici dei proprietari terrieri; ci furono forze di spinte di controspinte significative, tanto che alla fine la legge sulla riforma fondiaria fu approvata nell’50 ma monca, tanto che gli stessi tecnici e politici che vi avevano lavorato restarono delusi, perché solo un milione di ettari di terreno fu coinvolto da questo progetto di riforma agraria, completo come disegno a livello teorico, in quanto aveva un piano di espropri, tutte le proprietà al di sopra di un certo numero di ettari che era stringente come soglia, perché le proprietà sopra i 300 ettari, poi variava da zona a zona, ma l’ordine di grandezza era qualche centinaio. Quindi, da decine di migliaia di ettari a poche centinaia, ai proprietari originari restava ben poco. Altra fase è il riordino fondiario, con la creazione degli appezzamenti, le sistemazioni agrarie, viabilità e infrastrutture delle abitazioni, questi appoderamenti che devono essere assegnati. Altro limite forte fu la volontà politica che prevalse di massimizzare il consenso politico di tale operazione, massimizzare la platea dei beneficiari, gli assegnatari; i terreni espropriati erano pochi, i beneficiari erano il maggior numero possibile per creare consenso, il risultato fu che la nuova proprietà contadina creata era di dimensioni piccolissime. I terreni, inoltre, furono assegnati anche a famiglie di artigiani, che si erano inurbate, e ricevettero questo “regalo” di appezzamento di terra, a prezzo di non aiutare la formazione di questo nucleo di aziende agricole meglio dotate, più competitive. Questo elemento strutturale di forte debolezza preesisteva, si è confermato e non era un risultato scontato, in quanto si è parlato di un esodo agricolo massiccio, c’erano speranze che questi grandi cambiamenti strutturali avrebbero potuto ingrandire la maglia aziendale, ma così non è stato. C’è stato esodo rurale, spostamento di popolazione dalle campagne alle città; esodo agricolo, spostamenti di lavoratori precedentemente occupati nel settore primario e poi si sono recati in altri settori (industria e servizi); mentre la proprietà contadina è rimasta immutata: nonostante piccoli movimenti marginali, non si è spostata significativamente. Non è scontato che una famiglia si sposta da un luogo all’altro, prima si Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare muove il maschio giovane, poi nel giro di tot anni la famiglia si sradica dal luogo d’origine e si sposta, magari passa una generazione e consolida la nuova localizzazione geografica, ma l’azienda resta di proprietà della famiglia. Perché questo accade? Primo elemento è che la proprietà terriera è un elemento patrimoniale importante per la famiglia, una riserva di valore; al di là dell’efficienza del suo utilizzo, ha un suo valore in quanto tale, sta lì e in un paese dove l’offerta di terra è poca rispetto alla domanda, la terra è quel bene che tende a mantenere il suo valore. Seconda ragione è che l’Italia è stato un paese caratterizzato da tassi di inflazione notevoli, specie negli anni ‘70/’80. Quando l’inflazione è elevata, la terra diventa un bene rifugio, rafforzando la tendenza a non alienare la terra, bensì ne ha aumentato la domanda. Altro elemento che ha rafforzato questa tendenza alla relativa immobilità del mercato fondiario in Italia, è stato il tipo di governo del territorio che ha caratterizzato il nostro Paese, cresciuto in maniera tumultuosa anche nell’urbanizzazione, in un modo spesso e volentieri privo di regolamentazione, con piani urbanistici assenti, conoscevano varianti che venivano modificate, tenute provvisorie. Questo vuol dire che, e in alcuni casi tutt’ora è valido, chi aveva un appezzamento di terreno in una zona che potrebbe divenire suscettibile di essere trasformata in edificabile, lo tiene fermo lì quel terreno anche se non lo coltiva quasi o lo coltiva a livelli minimali. In quegli anni, tale tendenza all’immobilità era rafforzata anche dalla rigidità del mercato degli affitti; c’erano poche compravendite di terreni agricoli, ma anche gli affitti dei terreni erano molto più scarsi di quanto avveniva nella maggior parte degli altri paesi europei, e ciò era dovuto soprattutto alla legislazione che regolamentava gli affitti dei terreni agricoli, una legislazione garantista per l’affittuario. Se un proprietario terriero cedeva in affitto dei terreni ad un agricoltore, con lo status di coltivatore diretto, era molto difficile che alla scadenza del contratto, se voleva rientrare in possesso del terreno, mentre l’affittuario voleva tenerlo lui in affitto, era difficile per il proprietario riprendersi questi terreni. Ciò ha fatto si che, il mercato degli affitti è stato scarsamente attivo, perlomeno quello degli affitti legali; per lunghi anni, si è creato una sorta di mercato parallelo informale, di affitti di brevissimo periodo, e in quel caso garantiva poco l’affittuario, scoraggiandolo dal fare investimenti sui terreni presi in affitto, terreni usati per produrre poche culture foraggiere per il bestiame, ma non erano terreni sui quali si facevano investimenti in culture arboree, che sono produzioni con orizzonte temporale lungo. Il vincolo dimensionale, quindi, delle aziende agricole , dato dalla disponibilità di terreno, è stato estremamente rigido e permanente nel corso del tempo. Questo non significa, però, che gli assetti organizzativi, il modo di funzionare dell’agricoltura italiana non abbia trovato qualche escamotage per superare questo ostacolo. Altro cambiamento degli anni ‘50/’60 fu la scolarizzazione di massa, l’istruzione universale rivolta a tutti con l’obbligo dell’istruzione, primaria e poi crescente negli anni a seguire; ciò ha fatto si che, i giovani che s’affacciavano sul mercato del lavoro nell’70/’80, anche in agricoltura erano giovani diversi da questi che erano stati agricoltori o operai nell’50/’60. Se questa prima fase individuata negli anni ’50/’60, di questi cambiamenti forti del boom industriale, demografico, del grande esodo, della crescita vivace del PIL che ha modificato i redditi e i modi di consumare delle persone, ha visto imprese del settore pubblico nel campo delle infrastrutture significativo, l’apertura al mercato internazionale, gradualmente a partire dagli anni ’70 e fortemente negli anni ’80, si sono verificati cambiamenti meno evidenti nei numeri aggregati dell’economia, cambiamenti organizzativi molto importanti. Parte di questa seconda fase riguarda anche i primi anni ’90, con un momento di svolta Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare nella fine della prima Repubblica, quando ci sono stati cambiamenti sia nella posizione internazionale dell’ Italia con la politica valutaria degli anni ’90, che provocò momenti di rottura importanti per la posizione del Paese; a livello internazionale, ci fu un’accelerazione nei processi di globalizzazione. Negli anni ‘70/’80, quella che era indicata come la specificità del mondo contadino, la sua peculiarità e fattore d’isolamento viene a cadere per una serie di ragioni, prima fra tutte l’istruzione. Parliamo di persone che hanno una capacità di comprensione del mondo e di apprendimento di funzioni accresciuti rispetto a prima. Anche bambini e ragazzi che vivono in campagna frequentano le scuole, imparano a leggere e scrivere, sono giovani meno diversi dai giovani che crescono in contesti urbani, di quanto non era avvenuto nelle generazioni precedenti. Ciò accade non solo per la presenza di scuole nelle campagne, ma anche perché il mondo delle campagne è diventato un mondo meno lontano dalla città, di quanto non era prima. Da un lato le città sono cresciute, con periferie molto ramificate, la rete stradale è cresciuta enormemente avvicinando le campagne alle città, il sistema dei trasporti è molto più sviluppato, in tutte le famiglie in quel periodo inizia ad esserci l’automobile o un mezzo a due ruote. La scolarizzazione degli adolescenti e l’acquisizione di un mezzo per muoversi, autonomo, ha creato questa nuova figura sociale, divenuta poi economica di consumatori, ma prima di tutto sociale e sono gli adolescenti. Quando non c’è obbligo scolastico, disponibilità economiche, si esce dall’infanzia e si entra nel mondo degli adulti, perché si va a lavorare e avvolte anche prima. Verso la fine degli anni ’60 si sviluppa il movimento della Beat Generation; già c’erano gli studenti di liceo, ma erano delle èlite. I liceali, prima della Seconda Guerra Mondiale, erano come sono oggi i dottorandi di ricerca, le èlite del paese. Nel giro di poco più di un decennio, c’è la scuola di massa, l’istruzione superiore per i giovani, si crea questa nuova classe sociale. Progressivamente, quindi, viene a cadere la diversità culturale, uno status di inferiorità culturale. Negli anni ’70 si crea una commistione molto forte nelle attività produttive; per cercare di aggirare il vincolo dimensionale delle aziende agricole che, essendo piccole, non riuscivano a generare un volume di reddito sufficiente per corrispondere ai fabbisogni della famiglia, molte famiglie agricole iniziano a diversificare le proprie attività. Per cui, alcuni membri della famiglia restano attivi in agricoltura, altri cercano lavoro fuori dall’azienda agricola, dal settore agricolo. Questa pluriattività prende la forma di un partime del conduttore stesso dell’azienda. Pluriattività che prende forme diverse nelle diverse parti dell’Italia, sia perché il tipo di sviluppo extra agricolo è molto diverso nelle diverse parti del Paese, le possibilità occupazionali nei settori non agricoli sono differenti nelle diverse aree. Nel Lazio, ad esempio, una vasta area intorno a Roma, che prende porzioni della regione non irrilevanti, è caratterizzata da una forma di pluriattività, nella quale all’agricoltura s’affiancano attività terziarie, specie nella PA e anche nel commercio. Nel Nord – Est del Paese, nelle zone caratterizzate da uno sviluppo industriale diffuso, come i distretti industriali, modelli di sviluppo a piccola e piccolissima industrializzazione diffusa sul territorio che caratterizza il Nord – Est – Centro (NEC), la dorsale adriatica dal Veneto fino a Umbria, Toscana e Puglia. La nascita dei distretti è stata messa in contrapposizione con la prima fase di grande crisi dell’industria fordista, verticalmente integrata. I primi processi di esternalizzazione delle funzioni delle grandi industrie, hanno dato luogo a nuclei di piccole imprese che nascevano come subappaltatrici delle grandi imprese, e si sono sviluppate secondo loro logiche autonome. Queste imprese del modello distrettuale, secondo alcuni economisti, hanno tratto linfa dalle capacità imprenditoriali che si erano Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare sviluppate in agricoltura nelle imprese mezzadrili, diffuse in Toscana, Umbria, Marche e piccola parte in Emilia Romagna. La mezzadria (share cropping) è quell’impresa dove gli imprenditori sono due: c’è un proprietario terriero che nell’impresa mette la terra e una parte dei capitali fondiari, che servono ad acquisire il bestiame, la stalla; il mezzadro concorre all’impresa col lavoro suo e della famiglia e coi mezzi tecnici. Il mezzadro non è un lavoratore alle dipendenze del proprietario terriero, ma è a tutti gli effetti un imprenditore, ovvero alcune scelte imprenditoriali sulla conduzione dell’impresa, le prendono di comune accordo, ed entrambi s’accollano il rischio d’impresa. Ognuno riceve, alla fine del ciclo produttivo, una certa quota della produzione, il che vuol dire che il mezzadro, non essendo semplice lavoratore, è una figura capace di prendere decisioni, guardare al mercato se una parte della produzione va al mercato, farsi due conti, valutare il rischio di diverse alternative. Poiché molte piccole imprese industriali della zona dei distretti dell’industrializzazione diffusa, nascono come piccolissimi laboratori artigianali in capannoni, spazi presenti nell’impresa agricola della famiglia, la capacità imprenditoriale presente in modo diffuso sul territorio, in tali zone, è ricondotta alla diffusione della mezzadria. In agricoltura, la diffusione degli assorbimenti di manodopera, da parte dei processi produttivi, sono molto disformi nel tempo, perché i processi produttivi agricoli sono caratterizzati da momenti di punta dei lavori nei campi; questo vale meno nelle aziende di indirizzo zootecnico, perché gli animali hanno la necessità di accudimento costanti nel tempo. I processi produttivi di tipo culturale sono incostanti: c’è il momento del raccolto che richiede quantità di manodopera enormi, ci sono momenti della potatura per quanto concerne le culture arboree, per quelle erbacee il momento dell’aratura e della semina. Ci sono anche lunghi intervalli di tempo nei quali non c’è granché da fare, e la manodopera familiare è lì che potrebbe lavorare e invece resta perlopiù inoccupata. Le famiglie mezzadrili di quella zona cominciano a prendere i primi telai, si sviluppano queste imprese familiari che sono attive in agricoltura e cominciano, anche, a svolgere qualche attività nei settori dell’industria manifatturiera, nella ceramica, sfruttando figure di lavoratori che sono ai margini del mercato del lavoro, come gli anziani e le donne che, al di fuori della famiglia, non troverebbero impiego. Sono imprese competitive, perché utilizzano manodopera familiare in momenti in cui è disoccupata, e s’accontenta anche di una remunerazione bassa perché ha un costo opportunità molto basso. In molte regioni meridionali, la pluriattività prendeva la forma di una doppia attività che, avvolte, era una doppia attività sempre del settore agricolo, l’agricoltore lavorava nella sua azienda, di dimensioni piccole; il problema della frammentazione aziendale, in alcune regioni del Sud, come Campania, Calabria e anche in alcune aree del Lazio, assume dei caratteri ancora più accentuati rispetto al dato medio nazionale. Le dimensioni aziendali, quindi, erano tali da rendere necessario integrare il reddito derivante dall’azienda con altre fonti, però non c’era uno sviluppo extra agricolo tale da offrire opportunità di lavoro in altri settori. Gli agricoltori lavoravano come braccianti agricoli per altre aziende, spesso spostandosi per qualche mese l’anno; avvolte questa pluriattività assumeva anche il carattere di una migrazione temporanea all’interno dell’annata agraria. In altri casi, assumeva la forma di un’alternativa di lavoro precario e temporaneo nel settore dell’edilizia. Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare Spesso gli agricoltori partime delle aree più povere, più marginali del Sud Italia, erano anche stagionali nel settore dell’edilizia. Questo fenomeno della pluriattività ha diversi ordini di conseguenze sull’agricoltura. Questa pluriattività, inizialmente era considerata come fenomeno transitorio, cioè si riteneva che la pluriattività era diventata una nuova forma più graduale di esodo agricolo, si pensava che era l’anticamera alla fuoriuscita del settore perché, siccome le opportunità di lavoro in altri settori erano meno esplosive, gli agricoltori che intendevano uscire dal settore primario, passavano un periodo intermedio in cui sondavano le possibilità d’impiego e di reddito negli altri settori, e poi avrebbero lasciato. Ma così non è stato, e ciò è vero in Italia e negli altri paesi europei. La pluriattività ha assunto il carattere di un fenomeno permanente. Il dato strutturale che il nostro è un paese piccolo, gioca un ruolo anche in tal caso, perché se il paese è piccolo, gli spostamenti da un luogo all’altro per le diverse attività, sono piccoli; per una famiglia, è fattibile risiedere in un luogo, magari la sede aziendale dove si svolge una parte dell’attività, e poi spostarsi nel piccolo comune vicino o nella città di medio/grandi dimensioni più vicine, per svolgere un impiego ministeriale, un’attività nel settore del commercio che si gestisce in più persone, ecc. Conseguenze sull’agricoltura. Si ha una conseguenza in termini di scelte produttive, perché ci sono alcuni tipi di produzioni che lasciano del tempo libero dalle attività agricole, consentono di svolgere anche altre attività al di fuori dell’azienda; altre produzioni no, non danno tale possibilità, perché richiedono continuità ed entità d’impegno che non si può fare altro. Solo alcuni tipi d’aziende permettono questa doppia attività, e questo è vero all’inizio della storia, quando l’agricoltore valuta se può fare qualcos’altro, ed è vero in senso dinamico, che gli ordinamenti produttivi possono e vengono trasformati nel corso del tempo, se l’agricoltore inizia un’altra attività all’esterno. La pluriattività ha comportato, in molti casi, una estensivizzazione degli ordinamenti produttivi, cioè la selezione di quei processi che consentono la doppia attività. Questa è stata la ragione per cui, fino a tempi recenti, la pluriattività è stata vista con diffidenza, con aperto atteggiamento di critica, da parte di coloro che consideravano la pluriattività, una causa di perdita di produttività del settore. Se queste aziende fossero condotte a tempo pieno, con canoni di professionalità, potrebbero fare molto di più, invece sono estensivizzate perché l’agricoltore si è messo a fare altro. A livello aggregato di paese, questo è un fenomeno negativo che va ostacolato, magari con una normativa che può disincentivare questa forma di scelta. Tale ragionamento ha un errore che è la scelta dell’alternativa. Ogni scelta razionale deve essere frutto del confronto tra le diverse alternative, tra costi e benefici associati ad ogni alternativa; l’errore è che l’alternativa considerata, quella dell’agricoltura a tempo pieno professionale, non è l’alternativa realistica di molte aziende. L’alternativa realistica sarebbe stato l’abbandono totale di quei terreni, perché l’attività extra agricola di questi agricoltori pluriattivi diventa, quasi sempre, l’attività economicamente più importante. La pluriattività ha avuto altri due ruoli importanti, rispetto all’attività agricola. I redditi extra agricoli sono stati spesso fonte di finanziamento per le attività agricole, investimenti fatti per cambiamenti all’interno dell’azienda agricola, grazie a risparmi familiari realizzati con l’attività extra agricola. Le capacità professionali, la conoscenza del mondo, sviluppata dall’agricoltore nell’attività extra agricola, è stata travasata nella sua attività di agricoltore, accrescendo le sue capacità imprenditoriali. Capacità, ad esempio, di trovare sbocchi e canali commerciali per le produzioni, la sua capacità di capire cosa il mercato chiedeva in quella fase, un certo canale o cliente. Anche la capacità professionale dell’imprenditore ha giovato di questa commistione di attività. Verso la fine degli anni ’80, ci troviamo di Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare fronte a situazioni di pluriattività che sono in ingresso in agricoltura, cioè di occupati in altri settori o giovani pensionati di altri settori, che sono entrati in agricoltura, hanno diversificato in agricoltura provenendo da altri settori, una pluriattività dove il farmacista, il medico, il costruttore, il pubblicitario, s’innamora della campagna, dell’agricoltura, o l’imprenditore industriale che, per esigenze d’immagine o per diversificare il proprio portafoglio di attività in un settore spesso anticiclico, con caratteristiche che possono complementare attività in altri settori, inizia un’attività in agricoltura. Un tipo di pluriattività che apporta all’agricoltura competenze, capitali e reti di relazioni più ampie. In alcuni casi, si è trattato di un ritorno all’agricoltura, di quei giovani che erano usciti negli anni dell’esodo, e hanno mantenuto un senso di radicamento, di attaccamento alla terra. Questo è un aspetto che, tornando al discorso dell’immobilità fondiaria italiana, è importante; una motivazione extraeconomica alla scarsa mobilità fondiaria in Italia è proprio l’attaccamento alla terra, perché la terra sono le proprie radici, la propria identità e alla terra è legato lo status familiare, ci sono ragioni di prestigio sociale legate alla proprietà terriera che fanno si che, l’azienda di famiglia non si vende anche se non viene coltivata, utilizzata, se ci si va una volta all’anno. Situazioni di questo tipo hanno dato luogo a un ritorno decenni dopo, persone avanti nella propria vita lavorativa o che vanno in pensione relativamente giovani, e sono tornate all’ agricoltura, iniziando attività aperte o riaperte di aziende agricole. Ciò è stato reso possibile da un cambiamento rilevante del posto occupato dall’agricoltura e dalla campagna, nell’immaginario collettivo, nel modo che si è diffuso nella società di considerare l’agricoltura. Negli anni dell’industrializzazione, a ritmi forzati, l’agricoltura era considerata come una serie di accezioni negative, perché l’agricoltura era il settore della povertà, della fame, dell’ignoranza, dei rapporti sociali arcaici. Gli agricoltori si vergognavano di essere agricoltori, e i cittadini li consideravano come villani, cafoni, ignoranti, affamati. L’agricoltura era anche il luogo dell’arretratezza tecnologica. Con il passaggio dalla prima alla seconda fase, il modo di guardare all’agricoltura è già cambiato, e non è un caso che, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, c’è il boom delle iscrizioni nelle facoltà di Agraria in Italia; all’agricoltura si ricomincia a guardare con interesse, sbiadisce questa negatività, perché cambia la distanza culturale, geografica, la vita nelle città diventa più difficile, congestionata, c’è l’inquinamento, rapporti sociali anonimi, disumani. L’agricoltura non è più quel contesto di povertà ed arretratezza, inizia un cambiamento di prospettiva che si fa più forte negli anni ’90 fino alla fase che viviamo oggi, in cui c’è una riscoperta del settore primario, si esalta la campagna perché è un buon mondo antico che neanche si conosce bene, nascono le fattorie didattiche in quanto ci si accorge che i bambini nati e vissuti nelle città, non hanno mai visto una gallina, una pecora, il grano, una mela attaccata all’albero. C’è una grande rinascita d’interesse per il mondo agricolo e rurale. Valerio Morelli Sezione Appunti Economia del settore agroalimentare
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