APPROFONDIMENTI
Is There Anybody Out There?
Una domanda precisa alla ricerca dei confusi rapporti tra Legge, Trasgressione e Punizione (1).
A Milano ci sono una Università statale, un Tribunale e un Carcere.
Secondo l’ultimo censimento ISTAT del 2001, la città conta 1.256.211 presenze: e tra queste studenti con i loro ultimi esami da superare, professori con i loro ultimi studi da pubblicare, magistrati con i loro ultimi processi da celebrare e detenuti con le loro ultime pene da scontare.
Pochi mesi fa vicino a Milano hanno trovato un uomo all’interno di una scatola di legno: forse pensava che il mondo potesse essere racchiuso in quelle sue quattro mura, o che lui stesso potesse chiuderlo fuori da quella scatola.
E (forse così pensando) è morto.
Mi chiedo quante scatole ci siano in giro nelle case di Milano.
Ma in questa città capita, a volte, di incontrare studenti di giurisprudenza, professori, magistrati e detenuti riuniti tutti intorno ad un comune esigenza dell’uomo, e cioè quella di condividere i propri (sia pure, a volte, diversi) punti di vista.
Tali riunioni portano con sé un presupposto, condiviso da tutti i cittadini partecipanti: il confronto (e cioè uscire-dalle-proprie-mura) arricchisce. E rende liberi.
Il luogo di questo confronto è spesso all’interno del Carcere: questo non solo per la condizione di detenuto che caratterizza la maggior parte dei partecipanti, ma anche (e soprattutto) perché sono proprio quest’ultimi ad aver gettato la sfida.
Ci troviamo infatti di fronte a persone che, attraverso l’adesione al Gruppo della Trasgressione (abilmente animato dal Dott. Aparo, psicologo del Carcere, con il prezioso aiuto di alcuni suoi ex studenti e “rintracciabile” anche su internet all’indirizzo www.trasgressione.net) hanno fatto una scelta precisa: mettersi in gioco, capire qualcosa di più di loro stessi.
E che chiedono di confrontarsi in questo loro percorso, per evitare di rimanere sempre “rinchiusi” (non solo in carcere ma anche e soprattutto) in loro stessi.
Hanno fatto questa scelta(2) , come un tempo hanno scelto di commettere un reato (qualsiasi esso sia, questo al momento non è significativo): e poiché ogni scelta porta con sé un cambiamento, scegliendo stanno inevitabilmente (e inesorabilmente) cambiando.
Persone che, portando la disponibilità di condividere il frutto delle loro riflessioni al di fuori del carcere, chiedono a tutti noi conto di questa loro scelta, di questo loro percorso.
Giocando, paradossalmente, d’anticipo (per chi crede ancora che dovrebbe essere la società ad aprirsi al carcere, e non viceversa), chiedono sottovoce a “chi sta fuori” di uscire dai soliti luoghi comuni che identificano il detenuto con la pena da scontare (riportata tra parentesi, come in un articolo apparso su un noto quotidiano nazionale in merito alla “Prima” della Scala milanese vissuta sul grande schermo allestito a San Vittore).
E paradossalmente, per uscire dai nostri luoghi comuni, chiedono a tutti noi di entrare in carcere, che diviene così un luogo di massima apertura mentale.
Perché mi pare di aver visto molti più uomini liberi in queste riunioni che in altri posti…..
Qualcuno là fuori, ma certamente qualcosa dentro
“Siamo di fronte ad un campione non rappresentativo di detenuti”, non si stanca mai di ripetere il dott. Aparo, nelle occasioni in cui ha modo di illustrare il percorso che il Gruppo della Trasgressione sta compiendo in questi anni: e infatti stiamo parlando di poco più di una ventina di persone (contro una popolazione che oggi a San Vittore si attesta sulle 1300 unità circa), ma tuttavia non per questo tale esperienza merita di non essere presa in dovuta considerazione.
E riporta in primo piano l’eterno problema della pena e della sua finalità. Invocare il carcere a vita, o finanche la pena di morte con scritte nere su di un muro (come capitò, per fare solo un esempio tra quelli che mi hanno colpito negli ultimi anni, per il delitto di Novi Ligure), è una affermazione che non può essere liquidata nel brevissimo lasso di tempo necessario per emetterla. Occorre capire, prima di tutto, i motivi che stanno alla base di queste posizioni.
E forse prendere coscienza di una complessa problematica che, a differenza di come è stata da molti prospettata, non è nuova: essa deve essere necessariamente affrontata tenendo presente due fattori ineludibili.
Il primo riguarda la natura più intima di ciascun essere umano: essere mirabile, unico nella sua specie, chiamato alla perfezione ma per questo – in quanto libero - capace anche delle crudeltà più efferate. Arrestarsi davanti al fatto storico contingente, al barbaro assassinio di una persona, è atto necessario per il dovuto rispetto delle vittime e alle famiglie per sempre segnate dal dolore. Ma non basta per chi, in coscienza, vuole intraprendere percorsi alla ricerca di elementi utili ad una comprensione più profonda degli avvenimenti.
E il primo passo in questa direzione, a mio parere, è un passo indietro: diretto alla presa coscienza del male, dentro ciascuno di noi. Perché nessuno, credo, è immune da quella capacità di arrecare del male che – in un’ottica cristiana – viene chiamata peccato.
A questo punto molti preferiscono approdare sui comodi lidi della nozione di raptus, panacea tutta volta a spiegare una “assenza di legame tra volontà e male” a carico del soggetto agente.
Altri invece ritengono più opportuno ricercare la cause di questo male altrove, fuori-da-sé. Eppure cercare subito qualcosa “fuori” o “altrove” prima di chiedersi chi o cosa ci fosse “dentro”, convincere e convincersi della “straordinarietà” del male commesso mi sembra ancora una volta una facile (benché anche elegante) scorciatoia per evitare di affrontare il vero nodo della questione: quello della “normalità” della presenza del male, specchio – più o meno deformato o deformante - della nostra società (e del male in essa inevitabilmente presente).
Forse non è un caso che proprio il concetto di raptus sia da sempre un argomento trattato dal Gruppo della Trasgressione(3).
E mi ritorna alla mente una sequenza televisiva che immediatamente mi colpì, fin dai primi giorni dell’arresto di quei due giovani rei di Novi Ligure: quella del padre di Erika e di quel suo gesto della mano, che io interpretai quasi di stizza, rivolto alla telecamera (che ne riprendeva l’ingresso al cortile del carcere minorile Beccaria) come a dire “vieni più vicino”.
Ma occorre del coraggio per farsi più vicini in vicende del genere.
Punire, bene
La capacità di vedere e chiamare le cose con il loro nome potrebbe essere un primo risultato significativo in questa direzione.
A queste e a tante altre cose pensavo mentre scrivevo la mia tesi di laurea in psicologia giuridica (“Efficacia educativa delle misure cautelari minorili: indagine di controllo” ) (4) frutto di una minuziosa ed accurata disamina - presso il Tribunale per i Minorenni di Milano e il Centro per la Giustizia minorile ubicato al Beccaria - di tutte le misure cautelari disposte dal 1989 al 1995.
Sono passati molti anni da allora e mi sono accorto che non solo per i delitti commessi da minorenni ma, ancora oggi, per gli episodi più gravi viene invocata la necessità di una pena esemplare. E tuttavia ancora mi chiedo: esemplare per chi?
Per il reo o per la società? Per chi la deve scontare o per chi ritiene di poter allontanare da sé il problema con l’illusione di una risposta istituzionale capace di eliminarlo in radice?
Sono più o meno note a tutti le cd. fattispecie a cui il nostro codice penale attribuisce valenza di reato, al verificarsi delle quali – previa identificazione dell’autore che con dolo o colpa le pone in essere – è ricollegabile l’irrogazione di una sanzione da parte dell’Autorità Giudiziaria, all’esito di un regolare processo.
La legge “sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” (5) nei confronti di coloro che sono stati condannati per uno dei richiamati reati, si apre proprio con la piena adesione al noto principio costituzionale di cui all’ art. 27, comma 3, secondo il quale “le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Ma tutto questo, che inevitabilmente costituisce un punto di arrivo, si scontra con una prima difficoltà. Che paradossalmente pare essere dello stesso legislatore, o di tutti noi che leggiamo nella Costituzione “pene” e pensiamo invece solamente a “carcere” come unica “pena”.
Se ci poniamo poi per un attimo nell’ottica di chi la sconta, il discorso non può che ritornare, pur a distanza di anni dalla mia ricerca, alla efficacia della pena.
Che raramente la vicenda processuale, nella sua complessità difficilmente percepita dal reo, sia occasione di responsabilizzazione (volta ad un cambiamento) è emerso da autorevoli studi e ricerche: più spesso il reato e la conseguente entrata del reo nel cd. circuito penale costituisce invece l’ultimo atto di una serie di “occasioni responsabilizzanti” mancate(6) o di “tradimenti delle proprie aspirazioni ideali”(7) , nei confronti delle quali il sistema della giustizia penale, per come oggi è concepito e strutturato, poco può fare.
I tempi del giudizio sono sempre più lunghi anche perché le garanzie processuali, con gli ultimi interventi legislativi in materia di “giusto processo”, sono state sempre più ampliate, portando tuttavia con sé il rischio di una de-responsabilizzazione del reo, soggetto passivo troppo spesso ancorato all’invocata sopravvenienza della “giusta prescrizione”.
Alla luce di queste considerazioni, oggi non è convincente l’idea che il reo possa essere recuperato attraverso lo strumento penale e/o, una volta condannato, attraverso un periodo di permanenza carceraria direttamente proporzionale al male commesso.
Occorre allora qualcosa di più, o forse di diverso.
Pensando quantomeno ai detenuti che partecipano al Gruppo della Trasgressione (e a tanti altri, in carceri diversi, con la loro stessa voglia di “rimettersi in gioco”), mi sembra che il pensiero del criminologo Duccio Scatolero (con riferimento ai reati minorili ) (8) sulla necessità di scoprire, praticare, affermare una “nuova cultura della punizione” possa indicare quantomeno un percorso che meriterebbe di essere seriamente intrapreso in via generale: sembrerebbe dunque arrivato il tempo di incominciare a sostenere fortemente che in ambito penale la punizione deve essere un vero e proprio diritto del reo, perché questa contribuisce a dare dignità alla persona in crescita(9) , a patto però che tutti gli altri diritti che lo riguardano (e in primis quello di essere educato) siano egualmente rispettati e fatti rispettare.
Educare dunque prima della commissione del reato per non ri-educare (come vorrebbe ancora oggi il richiamato art. 27 comma 3 Cost) poi.
E, se del caso, offrire una reale e concreta possibilità di educazione anche durante il trattamento carcerario.
Uscendo da un altro luogo comune, che vede l’educazione un quid che ha come soggetto protagonista necessariamente un giovane.
La mia esperienza mi suggerisce invece che sia oggi imprescindibile la necessità (anche culturale) di recuperare il vero significato di educazione(10) per adattarlo a tutti coloro che hanno, in particolari momenti della loro vita, necessità che sia qualcun-altro-da-loro a “trarre fuori” (11) qualcosa di utile.
Punire, certo non a tutti i costi e anche in modi diversi (12) dal Carcere, ma punire, e punire bene, perché solo in questo modo (e cioè se la pena è percepita come giusta (13) e interviene in un lasso di tempo breve per essere psicologicamente ricollegata al fatto commesso) quella apparente contraddizione con le esigenze educative del reo viene meno: infatti la punizione è un mezzo irrinunciabile di ogni compito pedagogico, tanto quanto il premio e il perdono (che ugualmente devono essere comprensibili e il più possibile tempestivi).
In questa dinamica il ruolo del Giudice ma ancor prima delle altre figure (forze dell’ordine, Avvocato, Pubblico Ministero, operatori sociali fuori e dentro il carcere) è indispensabile per andare, senza falsi buonismi ma in un’ottica realmente volta al miglioramento dell’essere umano, al di là della maschera del cattivo (14) che ogni reo porta più o meno intenzionalmente.
Dove allora punire bene implica necessariamente un interrogarsi sul soggetto da punire, instaurando con esso una relazione (15) che continua anche dopo l’irrogazione della pena, nel momento in cui - tramite l’atto del punire - riusciamo finalmente a prenderci idealmente carico del suo esito e della sua efficacia.
In questo senso credo che la punizione possa acquistare anche significato dell’essere presente, laddove altri (la famiglia, la società, le istituzioni) non ci sono stati (16) . O ci sono stati ma in modo non del tutto soddisfacente, o parziale (17).
Per arrivare insieme a ritrovarsi felicemente stupiti che, in questa società, è ancora possibile cambiare il mondo iniziando da se stessi(18) .
(1) “C’è qualcuno là fuori?”, titolo liberamente tratto da una canzone dell’album The Wall dei Pink Floyd, 1979.
(2) ''Dove vogliono arrivare?'' «Chiariamo: questo non è un gruppo di redenzione - dice Aparo - I detenuti che ne fanno parte non chiedono il perdono, non tentano di giustificarsi, non cercano alibi né vie di fuga dalle proprie responsabilità. L’obiettivo non è salvare chi sta dentro, ma semmai chi sta fuori. Entrando negli svincoli di certe scelte sbagliate: nel punto esatto in cui la trasgressione prende la sua deriva tragica. Per capire come e quando certi sbagli siano più probabili. Il gruppo della trasgressione chiede alla società di dialogare con chi la trasgressione l’ha agita in modo, a volte, devastante per gli altri e per sè»”: S. Rossetti, “Detenuti e studenti. Insieme in carcere, per parlare di rabbia e dolore. E della paura di essere giovani” in Grazia del 16.6.2004
(3) “Per intanto, vi leggerei un breve scritto che ha prodotto un signore che ha ucciso la moglie. Non dico che ha avuto un raptus. Ha ucciso la moglie in una situazione… «A volte, nel corso della vita capita di non essere se stessi. Una forma di smarrimento momentaneo, una perdita dei valori intellettivi così fulmineo che la stessa persona, una volta trovata la lucidità dei pensieri non sa spiegarsi. Anzi, se lo spiega, ma resta incredula sul fatto che una simile azione si sia potuta verificare. Io posso affermare, per esperienza personale, che il raptus è un momento, un istante o se vogliamo una frazione di secondo in cui la mente perde il suo contatto con il reale normale e si avventura in una dimensione di tutt'altra portata. Ciò avviene, o almeno questo è il mio caso, perché a monte di questa perdita di contatto c'è stata una limatura, giorno dopo giorno e non so a quanto tempo e a quanti episodi attribuire questa limatura della coscienza e della integrità degli elementi positivi che mantengono in equilibrio il sistema nervoso…»”: A. Aparo, Atti del convegno “Il Raptus, un'assenza che ne compone molte altre” – Milano, 9 giugno 2001 in www.trasgressione.net/pages/raptus/atti_raptus.html.
(4) Era l’anno 1997 e mi ero posto l’obiettivo di verificare se le misure cautelari - così come sono specificatamente costruite nel processo penale minorile - riuscissero effettivamente ad offrire al minore una “possibilità di verifica di alternative di vita”. E l’alternativa di vita per eccellenza per chi ha commesso un reato è senza dubbio quella di non commetterne più un altro.
Nelle singole vicende processuali analizzate avevo cercato dunque di cogliere questi aspetti, che a mio parere assumevano un significato ancora più importante alla luce di una ulteriore considerazione: il processo di per sé, come strumento di accertamento della responsabilità a fronte di un sospetto di reato, ha i suoi tempi. Considerando così che spesso possono passare anche molti anni prima di arrivare a un esito processuale definitivo, la misura cautelare, intervenendo per sua natura nella fase immediatamente successiva alla presunta commissione del reato, rappresenta il provvedimento che maggiormente può portare con sé delle “speranze educative” nel senso sopra precisato.
Certamente il postulato di partenza (che potrei così riassumere: “non successiva commissione di un ulteriore reato = efficacia educativa della misura cautelare precedentemente disposta”, quantomeno a livello di indizio) era di per sé riduttivo, considerate le moltissime motivazioni che possono portare un minore a commettere un reato (indipendentemente dal fatto che in precedenza sia stato o meno applicato nei suoi confronti un provvedimento cautelare): tuttavia, pur nella consapevolezza che ogni minore ha una sua propria storia (non esauribile in una serie di dati numerici relativi al suo curriculum criminis) e un suo proprio carattere che di questa inevitabilmente porta i segni, ritenevo comunque che l’analisi condotta sull’efficacia dei provvedimenti di cui all’art. 19 e ss. in termini di “recidiva” potesse essere comunque indicativa – quantomeno a livello di semplice indizio - di una valenza educativa o meno del sistema cautelare minorile (così come autonomamente concepito dal legislatore del 1988) e più in generale del sistema sanzionatorio penale.
La tesi è consultabile in internet a partire dall’indirizzo www.tesionline.it/default/tesi.asp?idt=3673.
(5) Legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modifiche. Cfr. sul punto www.giustizia.it/cassazione/leggi/529.htm.
(6) Il discorso assume una fondamentale valenza per i delitti minorili, ma ritengo possa essere adattato alla maggior parte della realtà criminosa, in quanto la storia di un ragazzo che decide di delinquere è spesso “la storia di fallimenti succedutisi e sommatisi: il fallimento della Famiglia, incapace di far crescere ed educare; il fallimento del microcontesto ambientale (i parenti, la scuola ecc..) incapaci di recuperare e supplire le carenze genitoriali; il fallimento dei servizi incapaci di gestire o realizzare attività di sostegno o di recupero del ragazzo nel suo ambiente, perché oberati dalle molte competenze e dalle poche risorse territoriali; il fallimento degli istituti o similari, incapaci di ricreare il tessuto affettivo/emotivo/relazionale intorno al ragazzo allontanato dalla Famiglia e di valorizzare le risorse personali. Per non parlare di quando (e apro una parentesi) la storia del ragazzo, ragionando al di là dei problemi concreti, non ci obbliga a prendere atto del fallimento addirittura di una società e dei suoi valori, o meglio disvalori”. Così L. Gambuzzi, Atti delle Giornate nazionali di studio e di riflessione sull’applicazione del nuovo codice di Procedura Penale Minorile, Milano, 23-24 Ottobre 1992, p. 80.
(7) “C’è un modo di sbagliare che equivale a tradire le proprie aspettative ideali. Se, ponendomi per un attimo nella testa di chi commette reati, faccio una rapina, non necessariamente i soldi (provento della stessa) costituiscono il mio sogno iniziale. Spesso si trasgredisce perché, in una fase di confusione, si sbanda dal desiderio. Se io tradisco il mio sogno, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a recuperarlo, di qualcuno che non si limiti a punire ma aggiunga a questo intervento una indicazione per farmi “riprendere” il mio obiettivo iniziale. Mi domando allora se la legge e ancor prima la nostra società si possa permettere di pensare che chi commette reati sta realizzando esattamente il suo sogno, e che quindi il rapinatore agisca unicamente per impossessarsi dei soldi del rapinato”: A. Aparo, incontro tra detenuti, studenti, professori e magistrati del 26.2.2005.
(8) D. Scatolero, Atti delle Giornate..., cit., p. 136: ”Non è però cosa da poco, perché occorre in questo caso affrontare fantasmi e miti che non sono né malleabili, né fragili. Affermare ad esempio, qui, oggi, che il sistema giudiziario non è per definizione un contesto di educazione è, a dir poco, una bestemmia, e dire che altre devono essere le sedi dell’educazione e diverse sono invece le ragioni per l’agire del sistema giudiziario, provoca l’effetto di un masso che cade fra preziosi cristalli. Eppure io penso che solo quando riusciremo a liberarci di questo masso educativo che ci trasciniamo dietro da tempo, potremmo incominciare anche a parlare d’altro, cioè a parlare di una punizione giudiziaria e sociale che comunque potrebbe essere ridotta a un semplice gesto tra i tanti, non totalizzante e quindi ridotta e trasformata in messaggio che è anche educativo, ma non solo, messaggio che con la sua chiarezza, credibilità ed adeguatezza al contesto, dà dignità al soggetto e lo aiuta a crescere”.
(9) “C’è anche questo di bello nella legge della giungla: la punizione salda ogni conto e non lascia rancori”: R. Kipling, Il libro della Giungla.
(10) La parola italiana educazione è un termine colto, che riprende l’accusativo educationem del sostantivo latino educatio. Quest’ultimo deriva dal verbo educare, che a sua volta proviene da educere (e - ducere) dal valore originario di “trarre fuori, far uscire”. Con il tempo il verbo educere aveva acquistato anche il significato più ampio di “tirar su, far crescere, allevare”, con particolare riferimento agli esseri umani nella loro infanzia: anche educare aveva lo stesso significato, con riferimento tuttavia al far crescere in senso etico-morale.
(11) In questo la figura dell’educatore trova la più piena ispirazione nel dialogo Teeteto (cfr. in particolare: 149 a-151 d) dove Platone presenta un aspetto originale e giustamente famoso del pensiero di Socrate: il compito del filosofo non sarebbe quello di insegnare, ma quello di applicare la maieutica, l’arte dell’ostetrica, per aiutare colui che ascolta a “partorire” la verità che già possiede dentro di sé. Si riporta un passaggio significativo del dialogo: “Socrate – Oh, mio piacevole amico! e tu non hai sentito dire che io sono figliuolo d’una molto brava e vigorosa levatrice, di Fenàrete? Teeteto – Questo sí, l’ho sentito dire. Socrate – E che io esercito la stessa arte l’hai sentito dire? Teeteto – No, mai! […] Socrate – Ora, la mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la piú grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se fantasma e menzogna partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale. Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile ... di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sí gli altri, ma non manifesto mai io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque, in me, tutt’altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appariscano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio glielo permetta, straordinario profitto: come veggono essi medesimi e gli altri. Ed è chiaro che da me non hanno imparato nulla, bensí proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e generato; ma d’averli aiutati a generare, questo sí, il merito spetta al dio e a me”.
(12) E’ emersa, nel più recente dibattito dottrinale a fronte della imprescindibile necessità di “inventare” nuove forme di sanzioni penali (espressione di un diverso modo di concepire la funzione delle stesse), la necessità di introdurre misure cd. riparatorie di per sé potenzialmente ricche di valenze educative nei confronti dell’autore del reato, in quanto effettivamente responsabilizzanti: infatti “la misura riparatoria corrisponde ad un principio educativo elementare per cui
Si pensi, prendendo spunto dalle significative esperienze in numerosi paesi europei, alla riparazione materiale dei danni del reato, alle prestazioni di lavoro a favore della vittima o a favore della comunità (a seconda del tipo di reato) o ancora alla cd. “mediazione” tra vittima e autore del reato destinata a sfociare anch’essa in atti volontari di riparazione, ma non necessariamente materiali: tutte queste misure “rinunciano a concentrare l’attenzione sul reato, quale comportamento astrattamente illegale facendo scivolare in secondo piano l’astratta qualificazione giuridica del fatto a differenza di quanto avviene nel modello retributivo”, così come “rinunciano a concentrare l’attenzione sulla personalità antisociale del delinquente“ a differenza dell’approccio riabilitativo. “In ultima analisi queste misure prospettano e presuppongono una autorità pubblica, uno stato responsabilizzante e non uno stato che reprime o che assiste”. Condivisibili sono le conclusioni del richiamato autore secondo cui si tratterebbe “di una sfida che si deve accogliere non solo per il mondo della giustizia minorile ma per l’ordinamento penale nel suo complesso. Al mondo della giustizia minorile si offre l’occasione per superare la schizofrenia tra indulgenza generalizzata e l’esemplarità della prigione per i più derelitti (nomadi, tossicodipendenti e stranieri); all’ordinamento in generale si offre la possibilità di riflettere sulla sua struttura tanto lacerata nella ricerca di un equilibrio tra le parti processuali quanto disattenta alle esigenze elementari della vittima dei reati”.
(13) Difficilmente la pena sarà accettata dal reo, ma non è questo l’importante: è invece fondamentale che le dinamiche del processo siano il più possibile da lui comprese, che gli sia data la possibilità effettiva di difendere le proprie ragioni e, da ultimo, che la pena inflitta sia adeguatamente motivata.
(14) “Dalla mia parete pende un lavoro giapponese, di legno / maschera di un cattivo demone, laccata d’oro. Con senso partecipe vedo / le vene gonfie dalla fronte mostrare / quanto sia faticoso essere cattivi”: B. Brecht, “La maschera del cattivo”, in Poesie e canzoni, Einaudi, Torino, 1964.
(15) “Tante cose spaventano di questo delicato tipo di gesto educativo. Ma forse è il presupposto stesso della azione punitiva a spaventare il punitore e cioè il fatto che per poter punire bene occorre avere una relazione vera e autentica col soggetto da punire, tale da permettere dopo la sanzione il realizzarsi della consolazione. C’è un attimo, prima della decisione punitiva, in cui questa necessità diventa assolutamente evidente: in quel momento, allora, si devono fare tanti conti insieme per accorgersi che quella condizione relazionale, lì magari, non è rispettata. Pochi sono i luoghi dove un’autentica consolazione è possibile e sono, non a caso, i luoghi dell’amore e della relazione affettiva: ed è solo lì, in definitiva, che la punizione è vera e giusta punizione”: D. Scatolero, “La questione punitiva” in “Punire Perché. L’esperienza punitiva in famiglia, a scuola, in istituto, in tribunale, in carcere: profili giuridici e psicologici” a cura di M. Cavallo, Franco Angeli Editore, 1993, p. 19.
(16) “E' noto che nell'immaginario soggettivo le figure genitoriali, con i loro comportamenti e i loro atteggiamenti, consentono ai figli di tessere la prima immagine soggettiva dell'autorità, quella che essi, nel prosieguo della vita, tenderanno a ritrovare in tutte le figure che la incarnano. E' altresì noto che i primi passi nella trasgressione delle regole costituiscono altrettanti tentativi di rivolgere ai genitori (alle prime autorità) delle domande finalizzate a recuperare la credibilità di un rapporto che ha già visto nascere i primi conflitti e ha subito le prime incrinature (vedi Winnicott). Se le cose vanno male, se queste prime provocazioni non trovano risposte rassicuranti, la fiducia nella capacità di ascolto e di contenimento dei genitori andrà diminuendo e, con essa, la fiducia nelle regole sociali. Inversamente, crescerà il rancore verso le norme e le figure normative, in quanto incapaci di garantire uno spazio nel quale esprimere la varietà delle istanze che agitano la persona nella fase della costituzione della sua identità psico-sociale. Con queste premesse, può accadere che l'adolescente cominci ad esportare le proprie trasgressioni al di là dell'ambito familiare, che egli cominci a commettere dei reati, i quali, comportando di solito dei vantaggi secondari più o meno tangibili, inducono il soggetto a dimenticare il senso elettivo delle sue prime trasgressioni. L'individuo comincia così a smarrire il senso del suo primo rancore verso le norme e, in buona fede, si convince che la ragione dei reati commessi possa essere ricondotta ai benefici economici e/o di acquisizione di potere che questi comportano. Ne conseguono, di solito, aule di tribunale, condanne e carcere. In prigione egli vive condizioni di frustrazione e di limitazione all'espressione delle sue risorse costruttive e trova spesso del personale penitenziario che, con il suo comportamento gli conferma la bontà dei suoi assunti sulla inadeguatezza della sua prima immagine dell'autorità e di tutte le figure che ne sono legittimi eredi. Il suo rancore verso le norme e le figure istituzionali viene alimentato, via via che egli sente disattesi i suoi bisogni e tradita la sua aspirazione residua a sentirsi compreso, così che la sua identità criminale, nella maggior parte dei casi, viene confermata”: A. Aparo, Sulla relazione tra Giudice e detenuto, in www.trasgressione.net/pages/trasgressione/int_teorici/giudice.html.
(17) “A tutto ciò danno di solido un valido contributo il giudice che conduce l'inchiesta, quello che lo condanna e il magistrato che si occupa di lui durante l'espiazione della pena. Queste tre figure, infatti, si rapportano a lui per giudicare: prima la dinamica e l'entità del reato, poi il suo comportamento in carcere e, in particolare, quanto egli sia stato capace di rispettare le regole interne nel tempo già trascorso in carcere. Nel far questo, non v'é dubbio che il giudice inquirente, il presidente del tribunale, il magistrato di sorveglianza ottemperano al loro mandato istituzionale. Eppure, anche quando svolgono la loro funzione nel modo più accorto essi realizzano quella che potremmo definire una perversione. Non consideriamo perverso il comportamento di chi esaurisce le sue istanze erotiche nell'espletamento di rituali di varia natura, disattendendo il coronamento del rapporto genitale? La funzione che il giudice assolve verso il reo al momento del giudizio e, ancor più, verso il detenuto in espiazione della pena è solo una parte di quelle che ogni figlio si attende dai propri genitori. La pratica della valutazione e del giudizio, scisse dalla funzione di guida e di sostegno, non costituiscono soltanto una inopportuna parcellizzazione delle funzioni parentali, ma comportano -assai peggio- una sorta di tradimento delle attese di chi continua compulsivamente a cercare una figura in grado di rispondere alle sue rancorose provocazioni, senza lasciarsene frastornare. Il giudice è, nella mente del reo, la figura alla quale -in quanto erede di quelle parentali- egli rivolge le sue proteste e alla quale porta le sue provocazioni, invitandolo ad una prova di ascolto, di comprensione, -in definitiva- di amore e di attenzione verso la sua disordinata ricerca di dialogo. Anche il giudizio più corretto e puntuale, se non corroborato dalle altre funzioni connaturate alle figure parentali, diventa un esercizio parziale e pertanto perverso del ruolo che i genitori hanno verso i figli. Uno Stato che affidi al giudice il compito di svolgere una delle funzioni che i genitori hanno, senza affiancargli altre figure istituzionali che svolgano le altre funzioni e lasciando invece queste altre funzioni alla buona volontà estemporanea di assistenti sociali volontari, rischia fortemente di essere percepito dal condannato come un genitore mutilato, un padre che non ha la maturità di coniugare comunicazioni di tipo normativo con una disposizione ad amare un figlio che lo ha deluso, un figlio che vorrebbe crescere senza avere ancora tutti gli strumenti per procedere in autonomia”: A. Aparo, Sulla relazione tra Giudice e detenuto, cit.
(18) “Provo fastidio per essere contento di aver parlato del mio errore. Arrivai alla scuola che i ragazzi ridevano, me ne andai, che almeno i ragazzi nel cortile avevano i visi pensierosi”: così Fabio Licciardi nel suo scritto intitolato “La prima volta”, in www.trasgressione.net/pages/incontri/Carate/Fabio.html.