APPROFONDIMENTI
Il mito del complotto ebraico
1. CHE COSA SONO I PROTOCOLLI DEI SAVI DI SION
I Protocolli dei savi di Sion, falso fatto redigere probabilmente tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo dalla polizia segreta zarista o da persone appartenenti al milieu dell’estrema destra russa, furono costruiti plagiando un testo (Dialogues aux Enfers) scritto nel 1864 da Maurice Joly contro Napoleone III e integrandolo con brani di letteratura dozzinale della subcultura e della pubblicistica russa e tedesca. Diventati in seguito un vero e proprio vademecum per nazisti e apprendisti antisemiti di tutto il mondo, iniziarono a essere considerati un documento originale comprovante il complotto ebraico internazionale grazie alla propaganda che ne fece Henry Ford nel corso degli anni venti. La storia della diffusione del testo è stata studiata a fondo: numerosi autori, per primi SEGEL (1924) e COHN (1967), hanno da tempo indicato le fonti che sono servite per raffazzonarlo alla meglio; ECO (1994) ha individuato la lunga trafila letteraria (franco-tedesca) delle fonti in Barruel, Simonini, Dumas, Sue, Goedsche e Joly; in Francia, nel 1989, TAGUIEFF pubblicava un testo in due volumi dove analizzava le tecniche argomentative e la storia degli effetti dei Protocolli, che riteneva più importante dell’accurata ricostruzione delle origini. Contestando questo assunto, che rischierebbe di legittimarne la fascinazione, due recenti libri di DE MICHELIS (2001 e 20042) ricostruiscono invece accuratamente la storia e la probabile versione originale dei Protocolli: l’origine è spostata agli inizi del Novecento e l’ambientazione parigina del plagio sostituita da quella russa.
2. LA MENTALITÀ COMPLOTTISTA.
Il mito del complotto ebraico continua ancora oggi a rappresentare un efficacissimo strumento di propaganda ideologica. Non solo nel mondo musulmano in funzione «antisionista» (dove esistono persino fiction televisive basate sul «complotto sionista»); anche in Occidente le teorie della cospirazione sembrano oggi fornire la chiave per spiegare tutti i mali del mondo. Il linguaggio dell’odio sfrutta e produce stereotipi e visioni deformi, sostituisce alla complessità spesso indecifrabile della realtà una super-realtà più coerente, più semplice, comprensibile senza fatica sulla base di una spiegazione monocausale e ossessiva: i sostiene così che il presidente Bush e la Cia sarebbero coinvolti nel crollo delle torri gemelle, che nessun aereo si sarebbe mai schiantato sul Pentagono e che lo sbarco sulla Luna non sarebbe altro che un’impostura o che la crisi finanziaria mondiale è stata provocata ad arte. Sullo sfondo, lo schema ricorrente è sempre quello del un complotto ebraico (o «sionista», se ci si vuole distinguere linguisticamente dagli antisemiti), che sarebbero coloro che tirano le fila.
Sulla base di questo modello paranoide il principio del sospetto, coadiuvato dalla manipolazione delle emozioni, si diffonde per contagio: non abbisogna di prove, anzi, l’assenza di prove a sostegno di una tesi (quando questa viene considerata tesi e non una «rivelazione» quasi iniziatica) o le eventuali argomentazioni a favore della tesi contraria non fanno che rafforzare un’attitudine, uno sguardo sul mondo che si autoalimenta a partire dal suo odio.
3. SCHEMI ARGOMENTATIVI.
Sulla base di una mentalità dominata dal principio del sospetto, l’ossessione del complotto finisce col rendere apparentemente accettabili evidenti errori di ragionamento come (cfr. BENZ 2009; PISANTY 2006): (1) l’inversione dell’onere della prova: «Dimostra tu che non c’è alcun complotto»; (2) il dilemma: «O ci sono delle prove del complotto, e quindi il complotto c’è, oppure non ci sono, e quindi, a maggior ragione, il complotto c’è comunque, perché gli ebrei sono capaci di nascondere qualsiasi prova»; (3) il rovesciamento (anche temporale) del rapporto causa-effetto: «In Russia, l’ostilità nei confronti degli ebrei nasce dal fatto che numerosi ebrei sono presenti nei partiti rivoluzionari, dai socialrivoluzionari ai bolscevichi e ai menscevichi» o (4) del rapporto vittima-carnefice; (5) l’uso ambiguo dei termini, che si trasforma in petitio principii: «Se i Protocolli come noi li conosciamo sono una contraffazione, deve esistere un documento originale, cioè i veri Protocolli, quindi il complotto c’è davvero»; (6) un elenco di fatti (rivoluzioni, crisi economiche, carestie ecc.) che dovrebbero mostrare ad abundantiam il complotto, passando dunque (7) dalla questione di provarne l’autenticità alla certezza apodittica che i Protocolli dicono la verità sul complotto e sono perciò anche autentici, perché dimostrati dagli eventi del mondo; (8) il ricorso all’argomento d’autorità (che può essere il Corano, una testimonianza, o un presunto esperto, magari lo stesso Hitler o la rivista antisemita «Civiltà cattolica», delle dicerie incontrollate e ripetute ad nauseam miranti a fare del nemico un essere disumano), unito eventualmente (9) all’argomento ad baculum (la minaccia), come nel caso del portinaio berlinese di cui parla BENZ (2009: cap. 2), il quale sostiene che in Egitto, una volta, gli ebrei avrebbero fatto sparire tutto lo zucchero: «Richiesto di fornire una giustificazione, si è mostrato offeso: mettere in dubbio la veridicità della sua affermazione sarebbe stato insultare lui e sua madre, autorità da cui proveniva l’aneddoto, visto che all’epoca il portinaio era ancora un bambino». (10) In generale, e al limite, il rifiuto di qualsiasi criterio scientifico, filologico o storiografico per stabilire la verità, sulla base dell’affermazione: «è un metodo inventato dagli ebrei» e quindi il riferimento a un eventuale sapere di tipo superiore.
A tutti i lettori sarà chiaro che, da un punto di vista rigoroso, è chi sostiene la tesi dell’esistenza di un complotto a dover trovare le prove di quanto afferma, e senza falsificare documenti e dichiarazioni (1). Inoltre, per far notare l’assurdità della pretesa dimostrazione in (2), si potrebbe rovesciare il dilemma, sostenendo che se la prova non c’è il complotto non esiste, mentre se invece c’è, ed è tra l’altro un falso, a maggior ragione il complotto non è altro che una fantasia paranoide. Per quanto riguarda il modello della «retorica della prevaricazione» (ECO 2006) presente in (3) va detto che storicamente è stata proprio l’ostilità antiebraica a spingere molti ebrei verso i movimenti rivoluzionari russi nella speranza di vedersi riconosciuti dei diritti, e non, come invece pretesero i nazisti e ancora pretendono le apologie dell’antisemitismo, la presenza ebraica nei movimenti rivoluzionari (dato di fatto reale) a provare il complotto (fantasia) provocando l’antisemitismo (causa reale della partecipazione ebraica ai movimenti rivoluzionari e non loro effetto). Quasi sempre, questo rovesciamento assume la forma di un presunto complotto ebraico (magari sotto la forma di boicottaggio o ostracismo) contro chi tenta di rivelare la verità. La legittima critica di un falso da parte di chi subisce i pregiudizi antisemiti diventa una persecuzione, anche contro il curatore dei Protocolli. Questa tecnica del reframing, presente anche in (4), confondendo i ruoli di vittima e di aggressore, e interpretando la reazione all’aggressione antisemita come un’azione offensiva, serve per rafforzare la credenza nell’ipotesi della cospirazione. Quest’ultima è poi posta al riparo dai tentativi di confutarla («è così e basta») con un circolo argomentativo: chi osa smontarla secondo le regole del metodo scientifico fa parte della cospirazione stessa (10).
In riferimento a (5), occorre osservare che con documento «contraffatto» non va intesa una «copia» dell’originale (come per un quadro di Rembrandt), bensì un falso che viene spacciato per il fedele resoconto di una riunione dei cospiratori (che tra l’altro non ha mai avuto luogo). Del resto su questo stesso livello potrebbe muoversi la distinzione operata per esempio da Preziosi nella prima edizione italiana dei Protocolli (1921), che scartava come superfluo il problema dell’autenticità sostituendolo con quello della veridicità (attraverso la tecnica nota come dissociazione). Il problema, come osserva PISANTY (2006) è che le due questioni sono invece legate: prima di decidere se un documento dice la verità bisogna sapere se è autentico. Se le fonti da cui proviene sono faziose, inattendibili, se il documento è il frutto di un plagio e le sue fonti sono dei romanzi, cioè opere di fantasia, allora anche la veridicità del suo contenuto ne risulta indebolita. È proprio perché la documentazione dell’autenticità dei Protocolli non esiste, che Preziosi si concentra sulla loro presunta veridicità, pretendendo di provarla sulla base degli eventi storici successivi alla presunta redazione del testo, che allora rimanda al caso esaminato in (6). Su di una stessa linea si muove Julius Evola nella sua introduzione all’edizione del 1938, riuscendo addirittura a cambiare il significato del termine «autenticità» (tecnica della ridefinizione). La sua proposta di utilizzare un procedimento induttivo presuppone in realtà già l’esistenza del complotto sulla base della natura ebraica, cioè l’«ebraismo internazionale» (cfr. PISANTY 2006).
Resterebbe ancora da dimostrare la connessione causale tra ebrei e disastri (6), che invece viene presupposta e rafforzata da un elenco che proverebbe, a partire dagli effetti, una causa in un certo senso presupponendola (in linea di principio infinito, l’elenco mira piuttosto a orientare sistematicamente l’attenzione verso i nomi ebraici, rafforzando così l’atteggiamento paranoico). In termini tecnici questo procedimento sarebbe una petitio principii o una «fallacia dell’affermazione del conseguente» (se il complotto ci fosse, certi eventi ne deriverebbero, ma tali eventi possono anche avere altre cause, quindi sulla base di tali eventi non si può logicamente affermare che il complotto esiste).
Il lettore avveduto si renderà subito conto che in (8) e (9), più che con argomenti, abbiamo a che fare con mosse (basate sulla tecnica del pathos) miranti a impedire la discussione e la valutazione razionale degli eventi. Si sfrutta qui la funzione performativa del linguaggio, che lo rende un’azione compiuta per spingere qualcuno a fare o non fare, credere o non credere qualcosa. Per fare questo è possibile usare in modo particolare il tono della voce, scegliere dei termini carichi da un punto di vista emotivo, parlare per allusioni ecc. A questo serve anche per esempio la citazione di un brano dal Mein Kampf di Hitler nella già citata edizione italiana del 1938: esso svolge evidentemente la duplice funzione di appello all’«esperto» e di ripetizione di una diceria. Rivolgendosi a chi già crede nell’esistenza di un complotto ebraico ne rafforza così la credenza, anche se non può su queste basi provare la veridicità dell’informazione né l’autenticità del testo.
Infine (10), e quest’ultimo punto li riassume tutti, il ragionamento logico e il metodo scientifico dello storico (o dell’investigatore) manifestano purtroppo seri limiti, perché non sono efficaci nei confronti di chi non ha nessuna intenzione di applicarli, cioè di sostenere l’onere della prova. Quando poi essi vengono scartati come invenzione di coloro che sarebbero all’origine del complotto, qualsiasi base per una discussione ragionevole con chi sostiene l’esistenza di un complotto diventa impossibile. Con ciò siamo tornati al problema iniziale.
4 UN CRITERIO PER DISCRIMINARE ARGOMENTAZIONE E MANIPOLAZIONE.
Da quanto precede abbiamo visto che chi mira a dimostrare la veridicità dei Protocolli dà per scontata l’esistenza della cospirazione. Se a costoro si fa notare che, sulla base di criteri scientifici il loro ragionamento non tiene (ma i più acuti, come Evola, anticipano l’obiezione), essi scartano gli stessi principi del ragionamento scientifico in quanto parte della cospirazione ebraica (la «mentalità pseudo-scientifica» sarebbe cioè viziata all’origine). Con questo si capisce non solo che una discussione è diventata impossibile ma anche che essa non è nemmeno desiderata, in quanto lo scopo è rafforzare la convinzione di chi già si trova dalla parte degli antisemiti.
Al di là delle fallacie formali come il non sequitur, è allora possibile ricapitolare gli schemi argomentativi dei sostenitori della veridicità dei protocolli attraverso un confronto con le regole della discussione ragionevole proposte dalla teoria pragma-dialettica dell’argomentazione (EEMEREN E GROOTENDORST 2008). Come risulterà evidente, i dieci divieti sono semplicemente rovesciati in suggerimenti per le tecniche manipolatorie.
I – Regola generale d’uso del linguaggio – Non è consentito usare formulazioni insufficientemente chiare o talmente ambigue da creare confusione, né interpretare in modo deliberatamente tendenzioso le formulazioni dell’altra parte.
II – Regola della libertà – Non è consentito impedire alla controparte di avanzare o mettere in dubbio una tesi.
III – Regola dell’obbligo di difesa (dell’onere della prova) – Chi avanza una tesi non può rifiutarsi di difenderla qualora gli venga chiesto di farlo.
IV – Regola della premessa inespressa – Non è consentito attribuire alla controparte in modo surrettizio premesse implicite, né rifiutarsi di assumere l’onere della prova per premesse che si sono lasciate inespresse.
V – Regola della tesi – Non è consentito criticare una tesi che non sia stata realmente avanzata dalla controparte.
VI – Regola del punto di partenza – Non è consentito presentare qualcosa come punto di partenza condiviso, se non lo è, o negare che qualcosa sia un punto di partenza condiviso, se invece lo è.
VII – Regola della pertinenza – Non è consentito difendere una tesi attraverso qualcosa che non sia un argomento o attraverso un argomento che non sia pertinente per la tesi in questione.
VIII – Regola della validità – Un ragionamento presentato come formalmente conclusivo non può essere logicamente invalido.
IX – Regola dello schema argomentativo – Non è consentito considerare difese in modo conclusivo tramite argomentazioni tesi che non siano presentate come basate su di un ragionamento formalmente conclusivo, qualora la loro difesa non abbia luogo attraverso schemi argomentativi appropriati applicati in modo corretto.
X – Regola della conclusione – Non è consentito continuare a sostenere una tesi che non sia stata difesa in modo conclusivo o continuare a dubitare di una tesi che sia stata difesa in modo conclusivo.
6. IL ROVESCIAMENTO
Se prendiamo in considerazione i dieci divieti non come regole dialettiche (per condurre una discussione tra due interlocutori) bensì dal punto di vista della retorica (cioè delle tecniche e delle strategie miranti alla persuasione), la posizione di Perelman e Olbrechts-Tyteca, che nella loro Nuova retorica pongono l’effetto sull’uditorio al centro della loro definizione di retorica, può interagire in modo proficuo con quella della pragma-dialettica di Eemeren e Grootendorst. La violazione delle regole non è altro che la descrizione delle tecniche di manipolazione.
Gli antisemiti, e chi diffonde i Protocolli, usano formulazioni ambigue e allusive, e interpretano in modo tendenzioso le formulazioni dell’altra parte (commettendo, a rigore, la fallacia dell’uomo di paglia). Essi violano così la Regola generale d’uso del linguaggio.
Impediscono all’interlocutore di avanzare o mettere in dubbio la tesi dell’autenticità spostando la questione verso quella della veridicità e usando i rilievi critici come prova della verità del complotto: argomenti ad personam (o ad hominem prevaricanti), cioè veri attacchi personali, insinuazioni, accuse, ricorso a presunte autorità, sfruttamento delle dicerie (violazione della Regola della libertà).
Aggirano l’onere della prova dell’autenticità, che viene presupposta sulla base della veridicità. In generale, rifiutano di utilizzare il metodo scientifico o storiografico, eventualmente fingendo di accettarlo per poi accusare chi lo usa di essere troppo legato a un metodo «tipico degli ebrei», che vengono ritenuti evidentemente l’incarnazione del metodo critico o dell’illuminismo.
Attribuiscono alla controparte (gli ebrei che sarebbero responsabili del complotto) premesse inespresse e rifiutano di mettere in discussione le loro. Spesso le premesse inespresse possono essere considerate addirittura la ripetizione della tesi (fallacia di petitio principii), ma non vengono riconosciute come tali.
Come già detto, gli attacchi degli antisemiti sono spesso portati contro un’interlocutore di comodo (uomo di paglia), ma sono più che altro attacchi personali, che quindi operano come diversivo, perché la tesi della controparte non viene nemmeno presa in considerazione, o scartata come superflua, o addirittura trasformata in prova per la propria tesi. Formulato in modo paradossale: se si asserisce che i Protocolli sono autentici e veridici, e se gli ebrei sostengono che così non è, la loro reazione, che viene descritta come «scomposta», viene interpretata come una prova del fatto che il testo è autentico e veridico, e che il complotto, quindi, c’è davvero.
Molte delle asserzioni che servono da base per rafforzare la credenza nell’autenticità e veridicità dei Protocolli, come per esempio la tesi della sovrarappresentazione degli ebrei in certe professioni, non fanno altro che evocare pregiudizi tradizionali (la cui origine si può spiegare in modo diverso, senza basarsi sulla petitio principii del complotto), che saranno condivisi dagli antisemiti, ma non dagli ebrei e dalle persone che pretendono si debba usare il metodo scientifico. Che cioè gli ebrei siano particolarmente sovrarappresentati nel partito comunista, o nelle banche ecc., non è accettato dalla controparte, ma attraverso allusioni, cenni e generalizzazioni abusive si opera come se lo sia (violazione della Regola del punto di partenza).
La violazione della Regola della pertinenza è palese in argomenti del tipo: non si tratta di dimostrare l’autenticità del documento, visto che basta dimostrarne la veridicità. Ma chi chiede di dimostrare che il testo è stato davvero scritto da un gruppo di cospiratori ebrei e non da qualche antisemita (per questa seconda ipotesi invece qualche prova ci sarebbe) chiede qualcosa che è preliminare alla richiesta delle prove del complotto ebraico (la questione della veridicità). Si tratta di due questioni eterogenee che vengono fuse insieme.
Siccome non siamo nell’ambito della logica formale, né dell’argomentazione corretta, non sorprenderà che, in assenza di una adesione al metodo scientifico, cada anche l’esigenza di rispettare le regole formali. Saranno cioè presenti fallacie come l’affermazione del conseguente (se c’è il complotto, allora c’è la rivoluzione russa, ma la rivoluzione russa c’è, dunque c’è il complotto) o la negazione dell’antecedente (se c’è una prova della falsità, allora il testo è un falso, ma la prova non c’è, dunque il testo è autentico), che può del resto anche essere interpretata come argomento ad ignorantiam (e quindi ricade sotto il punto 9).
Anche i criteri normalmente utilizzati per valutare le generalizzazioni e le connessioni causali (per esempio quelli di J.S. Mill) o i criteri per valutare le generalizzazioni statistiche non vengono accettati. In generale prevalgono tecniche basate sul pathos e sull’ethos. Gli schemi argomentativi (quindi non solo la logica formale) sono applicati in modo scorretto o manipolatorio.
Siccome gli antisemiti ritengono che le prove che confutano la tesi dell’autenticità (dei Protocolli) e quella della veridicità (del complotto) rappresentino solo conferme dell’autenticità e della veridicità, la Regola della conclusione viene sistematicamente violata o rovesciata: nega l’evidenza e continua a sostenere il falso.
Abbiamo così mostrato che i criteri di van Eemeren e Grootendorst, pensati per una discussione dialettica tra due interlocutori, possono fornire uno strumento per analizzare in modo sistematico le tecniche della manipolazione usate da chi diffonde i Protocolli.
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