APPROFONDIMENTI
Brucia la Francia e con lei l’utopia di una società multietnica
“Multietnica”, un termine che si vuole considerare tipico delle società moderne. I fatti che stanno avvenendo in Francia dimostrano, invece, che è ancora un’utopia.
Eppure la Francia è considerata un paese in cui l’integrazione di cittadini stranieri è avvenuta con successo, molto più che in altri paesi europei, quasi un modello di come sia possibile assimilare, all’interno di un contesto sociale moderno e strutturato, delle minoranze etniche.
Certo, anche là esistono zone problematiche, periferie dove il lavoro viene a mancare, famiglie che faticano ad arrivare alla fine del mese, delinquenza che trova terreno fertile offrendo, soprattutto ai giovani, un’alternativa alla miseria, un modo in apparenza facile e immediato di riscattarsi dal disagio in cui sono cresciuti, una vita migliore anche se al di fuori dalle leggi dello stato. Ma ben poco contano le leggi di uno stato per chi fatica a riconoscerlo come proprio.
Questo sentimento di estraneità ha radici profonde. I diritti sociali, l’uguaglianza, sono valori importanti, fondamentali, ma non bastano a spiegare quello che sta succedendo.
In ogni paese ci sono quartieri più poveri dove si annidano criminalità, perdita di fiducia nelle istituzioni, collera repressa che aspetta solo un’occasione per esplodere, non dappertutto però questa sfocia in proteste così cruente e distruttive come sta accadendo in Francia.
Sicuramente, in questo caso, la componente etnica ha un grosso peso nell’alimentare le motivazioni e la spinta emotiva che genera questi scontri. Come succede quando ci sono situazioni di disagio, le differenze si acuiscono e vengono percepite come cause scatenanti di reali o presunte ingiustizie subite, di mancate concessioni, di persecuzioni e sfruttamenti.
Si viene a creare una spaccatura fra i componenti di una minoranza e il resto della popolazione, le caratteristiche di ciascun gruppo (culturali o religiose) vengono esaltate ed esasperate dai suoi membri. A questo punto diventa inevitabile uno scontro che spesso, però, finisce per perdere di vista il problema reale che l’ha scatenato.
Diventa uno scontro di culture che non cerca uguaglianza ma vuole solo enfatizzare le differenze. Ogni azione, ogni gesto, ogni risposta ricevuta diventa un pretesto per nuovi scontri, nuove violenze, per arroccarsi sulle proprie posizioni che non si sa più nemmeno quali siano ma si sa per certo che devono essere opposte a quelle dell’altra parte.
Le periferie parigine in fiamme sono ben altro che un tentativo di attirare l’attenzione del governo sulle problematiche sociali che indubbiamente le affliggono. Sono piuttosto un atto di ribellione di una parte della popolazione che non si considera tale e vuole punire uno stato che la ospita ma dal quale non si sente considerata alla pari del resto della popolazione.
Non sono azioni volte a stimolare un dialogo o volte direttamente all’ottenimento di una qualche reale concessione, sono atti di violenza fine a sé stessa che mirano a disturbare una realtà nella quale si vive da emarginati.
Il profilo tipo di chi prende parte a questa guerriglia urbana si può delineare così: sono giovani, anche adolescenti, che si muovono per lo più spinti da un desiderio di emulazione, dalla voglia di mettersi in mostra, di vedere le proprie gesta in TV, di far parlare di sé. Non sono gruppi organizzati e non seguono un programma, cioè non compiono azioni volte ad un fine, anche se è plausibile pensare che nell’ombra si muovano figure occulte in grado di manovrare il malcontento e fomentare le violenze con l’ intenzione di ottenere dei benefici.
Non c’è ideologia politica e nemmeno di religione.
Mancano prospettive.
Si colpisce indistintamente tutto ciò che si riconosce come simbolo dello stato: edifici pubblici, scuole, uffici postali, autobus. Si colpisce col solo fine di mettere in atto un’azione eclatante, senza pensare che quei gesti danneggiano il proprio stesso quartiere, con i suoi abitanti, le scuole dove chi studia lo fa per costruirsi un futuro, le piccole industrie dove lavorano persone comuni.
Si da fuoco a tutto come se non ci fossero più alternative, è una violenza cieca che non sembra lasciare spazio alla speranza di un domani diverso.
Si bruciano i simboli di un meccanismo di integrazione che ha fallito nel suo intento.
E’ un quadro che rappresenta la disillusione ma anche la mancanza di qualcosa che non è solo materiale. Al di là delle spiegazioni socio-economiche che si è cercato di dare, manca a queste persone un’identità precisa, il senso di appartenenza ad un gruppo, il sentire che quello che li circonda è un patrimonio comune. Manca un valore condiviso da loro e dagli altri.
Nonostante la convinzione di vivere in un’epoca dominata da valori materiali, l’elemento di coesione di un gruppo, di un popolo, non può che essere un’idea, qualcosa di comune in cui credere, per cui sentire il desiderio, il bisogno, di essere uniti. Trovare questo elemento è la sfida che si deve vincere per poter dire di aver dato vita a gruppi eterogenei in grado di vivere in armonia.
Solo allora si avrà una società multietnica.