4
un’equazione nella forma x
n
+y
n
=z
n
non ha soluzioni per n>2. Fermat affermò, a
margine di un libro, di aver trovato la dimostrazione di questo teorema che, da
quel momento, porta il suo nome. Di questa però non fu mai trovata traccia e in
Singh (1997) viene ricostruita la vicenda che portò Wiles alla reale dimostrazione
del teorema di Fermat. Senza scendere nel dettaglio della vicenda, piuttosto
complessa, Singh mostra che una analogia tra due campi della matematica
piuttosto distanti tra loro (al punto da non avere nulla in comune: teoria dei
numeri e geometria differenziale) concorre alla soluzione del dilemma di Fermat:
«Il valore di questi ponti matematici è enorme. Essi permettono a matematici
che vivono su isole separate di scambiarsi idee e di esaminare gli uni le creazioni
degli altri. La matematica consiste di isole di conoscenza in un mare di
ignoranza. Ad esempio, c’è un’isola abitata dagli esperti di geometria che
studiano sagome e forme, e poi c’è l’isola della probabilità dove i matematici
discutono di rischio e caso. Esistono dozzine di queste isole, ognuna con un suo
linguaggio specifico, incomprensibile agli abitanti delle altre isole. […] La grande
potenzialità della congettura di Taniyama-Shimura
1
consisteva nel fatto che
avrebbe collegato due isole e permesso per la prima volta una comunicazione fra
di esse. Barry Mazur considera la congettura di Taniyama-Shimura uno
strumento di traduzione simile alla stele di Rosetta […]»
2
. In questo senso la
forza dell’analogia consiste in una sorta di dimostrazione parziale e per
induzione; la capacità di cogliere simmetrie tra due discipline diverse: «Alla fine,
grazie al cumulo di prove raccolte da Shimura, la sua teoria delle equazioni
ellittiche e delle forme modulari fu accettata in ambito più vasto»
3
e ancora:
«Nonostante il suo stato di ipotesi non dimostrata, la congettura di Taniyama-
1
La congettura in questione mira a stabilire una precisa relazione tra equazioni ellittiche (geometria
differenziale) e forme modulari (legate alla teoria dei numeri), mostrando che il calcolo delle
rispettive serie (indicate con E ed M) coincidono alla perfezione. Il valore di tale congettura consiste
proprio nel mettere in relazione due ‘mondi’ della matematica molto distanti tra loro.
2
Singh (1997), pp. 219-220.
3
Ibid., p. 217.
5
Shimura era ancora citata in centinaia di saggi di ricerca matematica in cui si
studiava che cosa sarebbe successo se essa fosse stata dimostrata»
4
.
Questo esempio per dire come, se è così difficile mostrare la certezza di
isomorfismi validi tra ‘mondi’ diversi nelle scienze esatte, possa esserlo a buon
titolo anche per teorie che tentano di istituire parallelismi tra elementi (i
concetti) sulla cui natura sappiamo ancora così poco. Mutuando dall’esempio
appena fatto parlerei, per Teoria-Teoria, di congettura più che di analogia;
possiamo congetturare che il mutamento concettuale individuale possa avere
mutatis mutandis le stesse regole che soggiacciono al cambio di paradigma che
vediamo nella storia della scienza e forse l’una cosa può gettare luce su
dinamiche che appartengono all’altra, ma rendere sistematico questo legame
può condurre a conclusioni sbagliate.
Esiste un modello per Teoria-Teoria? Il Modello Ibrido, di cui si parla nel terzo
capitolo, sembra configurarsi come una sorta di formalizzazione di Teoria-Teoria,
sebbene gli studiosi non facciano menzione dell’uno quando parlano dell’altra. Il
Modello Ibrido offre delle caratteristiche interessanti perché, in primo luogo,
recupera la nozione di similarità riabilitandola, dopo che la ‘storia’ ne aveva
negato lo statuto con Goodman (1972), al ruolo importante che le compete:
l’induzione di principi che convergono verso l’aspetto teorico della nostra
conoscenza. Il successo di questo modello è legato alla sua capacità di legare
elementi ‘contingenti’ – le caratteristiche – ad elementi ‘teorici’ – le ‘definizioni’ e
di mostrare come questi elementi, estremamente importanti, non siano
ri(con)ducibili l’uno all’altro.
4
Ibid., p. 222.
6
Capitolo 1. Concetti, definizioni e prototipi
Introduzione
Lo scopo di questo primo capito è quello di esporre alcune teorie importanti che
riguardano i concetti e di far emergere, per esse, i principali punti di forza e le
principali critiche cui sono soggette. Va precisato che per “teoria” qui intendiamo
la seconda definizione, in qualche modo intuitiva, che ne offrono Abbagnano e
Fornero (1998), ovvero: “[…] condizione ipotetica ideale nella quale abbiano
adempimento norme o regole che, nella realtà, vengono solo imperfettamente o
parzialmente seguite.” Le teorie di cui parleremo, inoltre, sono sostanzialmente
psicologiche, sebbene facciano parte di quella scienza interdisciplinare che
chiamiamo normalmente Cognitivismo.
Le teorie sui concetti vertono in primo luogo su cosa i concetti siano e, in
secondo luogo, tentano di fornire spiegazioni su come un essere umano li usa o li
acquisisce: da questo punto di vista le teorie hanno una funzione sia descrittiva
che normativa. Prendiamo, per esempio, una teoria scientifica: la teoria della
relatività di Einstein. Se ne leggiamo l’esposizione divulgativa in Einstein (1996)
notiamo subito che questi due aspetti sono complementari: ad aspetti
definizionali, e quindi normativi (per esempio “il significato fisico delle
proposizioni geometriche”), si accostano quelli descrittivi (per esempio “come si
comportano regoli e orologi in movimento”). La descrizione dei fenomeni è uno
dei modi (forse il principale) per tentare di rintracciare delle regolarità che
l’aspetto normativo della teoria deve spiegare.
Vorrei fare un piccolo inciso: l’accostamento con la Fisica non è casuale; le teorie
scientifiche, come vedremo nel prosieguo, costituiscono un buon esempio, non
solo per la metodologia di ricerca, ma anche, secondo un punto di vista del tutto
personale, per l’ “oggetto” indagato. Mi spiego meglio: dai tempi di Democrito le
7
teorie sulla struttura della materia hanno subito notevoli mutamenti e, con
l’avvento degli ultimi due secoli, siamo pervenuti ad una definizione dei
costituenti piuttosto soddisfacente; si sono scoperte nuove particelle che ne
costituiscono i “mattoni”. La teoria quindi costituisce una spiegazione utilizzabile
che, se non altro, ci permette di offrire spiegazioni sul comportamento della
materia (si pensi, per esempio, al fenomeno del “passaggio di corrente elettrica”)
e ci permette di fare predizioni (pensare che in date circostante assisteremo al
passaggio di cariche elettriche di un certo tipo), ecc. L’indagine sui costituenti
ultimi della materia però si è affinata al punto che è possibile solo osservare,
mediante strumentazioni sofisticate, gli effetti di questi elementi; per esempio,
mediante la costruzione di camere a nebbia e di camere a bolle si è resa
possibile l’osservazione degli effetti delle particelle nucleari. Osservare un effetto
però, senza che ci sia data la possibilità di affermare con certezza che l’oggetto
in questione (nella fattispecie, le particelle nucleari) siano definibili secondo
criteri determinati, che hanno un riscontro ‘tangibile’ nel mondo reale, dà luogo a
delle ipotesi, a delle congetture che trovano la loro naturale collocazione nelle
teorie. Non è un caso che, nella storia della scienza, queste teorie sulla natura
delle particelle nucleari si siano sovrapposte: le particelle nucleari hanno una
natura ondulatoria o corpuscolare? I fisici usano le due diverse teorie in funzione
delle ‘dimensioni’ del problema, proprio come se utilizzassero due microscopi con
un differente livello di dettaglio; se il problema da affrontare coinvolge grandezze
atomiche, allora è possibile considerare le particelle subatomiche alla stregua di
piccoli ‘corpi’ che interagiscono tra di loro come possono fare le palle da biliardo
su di un tavolo – e, di conseguenza, la meccanica classica è uno strumento
sufficiente a spiegare interazioni e quant’altro. Se invece le dimensioni coinvolte
sono di ordini inferiori, allora è possibile pensare tali particelle come ‘onde’ nello
spazio.
8
Personalmente credo che avere a che fare con i concetti sia, in questo senso,
paragonabile all’avere a che fare con le particelle nucleari: sappiamo che
esistono, ne vediamo gli effetti, sappiamo fornirne delle descrizioni, ma, come
per le particelle nucleari, nessuno può dire di averli realmente ‘visti’. Questo può
forse, almeno in parte, spiegare il motivo per cui per i concetti vi siano molte
teorie; ognuna con una sua peculiarità, con una sua validità e con i suoi punti
deboli.
Dividiamo, per praticità espositiva, le teorie principali sui concetti secondo gruppi
differenti: esse differiscono per aspetti importanti e tali suddivisioni, lungi
dall’essere esaustive, hanno uno scopo chiaramente pragmatico e di definizione.
9
§ 1. La Teoria Classica dei Concetti
Quella classica è, se vogliamo, la teoria “storica” sui concetti il cui tratto
distintivo più importante consiste nel pensarli come elementi che possono essere
definiti. Questo significa che i concetti, per essere ritenuti tali, devono poter
soddisfare condizioni necessarie e sufficienti per la loro applicazione. “Applicare”
un concetto significa sostanzialmente indicare un processo psicologico nel quale
un oggetto viene fatto ricadere sotto un concetto. È necessario inoltre spiegare
cosa si intende precisamente con condizioni necessarie e sufficienti: “La
condizione necessaria per realizzare x è quella che, se non viene soddisfatta, non
dà luogo alla realizzazione di x. Per esempio, condizione necessaria perché
un’auto funzioni è che vi sia carburante. […] La condizione sufficiente per
realizzare x è quella che, se viene soddisfatta, comporta la sua realizzazione. Per
esempio, la condizione sufficiente per la morte di una persona è che qualcuno ne
trapassi il cuore. […] Dato un evento, la condizione necessaria e sufficiente per il
suo realizzarsi è quella in assenza della quale l’evento non si realizzerebbe e in
presenza della quale si realizza immediatamente. Per esempio, condizione
necessaria e sufficiente per avere un caffè da un distributore automatico (non
rotto!) è l’inserimento del numero corretto di monete; ovvero, se non s’inserisce
il numero corretto di monete non si ottiene caffè, ma appena sono inserite il
caffè è servito.”
1
Prendiamo, per esempio, il concetto di “telefono”: in accordo con la Teoria
Classica possiamo pensarlo come una rappresentazione mentale in cui vengono
specificate delle condizioni necessarie e sufficienti per indicare tutti gli oggetti
che ricadono sotto questo concetto: così “telefono” deve possedere una serie di
caratteristiche come “dotato di altoparlanti per ricevere e trasmettere”, “dotato
1
Boniolo G., Vidali P. (1999), p. 507.
10
della possibilità di connettersi, secondo qualche protocollo di comunicazione, ad
una rete telefonica” ecc.
Queste componenti specificano condizioni che l’oggetto deve soddisfare affinché
ci sia data la possibilità di chiamarlo con quel nome (e magari di poterlo usare
come tale) e sono quelle che si definiscono come condizioni necessarie. Queste
caratteristiche poi devono presentarsi insieme, in modo da poter dire che sono
(congiuntamente) sufficienti per la definizione del concetto: l’assenza di anche
una sola di queste significa, per riprendere il paragone di Boniolo e Vidali (1999),
non aver inserito monetine sufficienti nella macchinetta del caffè.
§ 1.1 Punti di forza della Teoria Classica dei concetti
Non tutti i concetti hanno però delle definizioni semplici come “telefono” o
“scapolo”, anzi, possiamo senz’altro affermare che la maggior parte dei concetti
che normalmente usiamo sono rappresentazioni piuttosto complesse. La
strategia con la quale la Teoria Classica riesce a rendere conto della complessità
concettuale consiste nel tentare di ridurre i concetti complessi a concetti più
semplici, mediante una sorta di “scomposizione del significato”: i concetti
complessi vengono scomposti in elementi costituenti che sono quindi definiti
secondo i criteri delle condizioni necessarie e sufficienti. Questo meccanismo
della “scomposizione” spiegherebbe anche come le persone siano in grado di
acquisire i concetti. Una parte di questo processo potrebbe essere visualizzata
attraverso l’uso di simboli come “+” e “–“, interpretati come assenza o presenza
della caratteristica cui sono posti davanti. Facciamo un esempio, prendendo una
parola come ‘fratello’; essa «comprende più stadi dove i componenti semantici
possono essere sommati alla rappresentazione iniziale. In una prima fase la
rappresentazione consiste in solo due componenti: “+maschio” e “-adulto”. In
11
uno stadio seguente “-adulto” viene sostituito da “±adulto” […], e viene aggiunto
“+reciproco”»
2
. L’aggiunta del simbolo “±” è chiara: possiamo benissimo avere
fratelli adulti o meno; la caratterizzazione con “+reciproco” è ugualmente
importante perché ci permette di distinguere questo termine «da parole simili,
come “ragazzo” »
3
.
In modo analogo Katz (1972, p. 40) scrive: «il nome italiano
4
“sedia” può essere
scomposto in un insieme di concetti che possono essere rappresentati attraverso
marcatori semantici: “oggetto”, “fisico”, “non vivente”, “artificiale”
5
, “mobilio”,
“trasportabile”, “qualcosa con gambe”, “qualcosa con un fondo”, “qualcosa con
schienale”, “qualcosa con un sedile”, “sedile per uno”»
6
. Questo ci induce a
pensare che, per possedere il concetto di sedia, sia necessario avere esperienza
di tutti questi componenti e che, per inserire nella categoria delle sedie un
oggetto, devono essere soddisfatte tutte queste caratteristiche. In tal modo i
concetti sono qualcosa di ben tracciato, definibile e, se vogliamo, booleano: o un
certo oggetto rientra all’interno di una categoria perché soddisfa le
caratteristiche richieste per quella categoria oppure non vi rientra. Questo
aspetto – che possiamo chiamare “di verifica” – ha una ‘direzione’ che va
dall’oggetto alle caratteristiche (teoriche) di una certa categoria; la ‘direzione’
opposta che va dalle caratteristiche della categoria all’oggetto possiamo
chiamarla “giustificazione”. In altri termini possiamo dirci ‘giustificati’ a credere
(o pensare o sapere) che un certo oggetto x cade sotto un data categoria X se le
caratteristiche che definiscono quella categoria vengono soddisfatte dall’oggetto
che abbiamo di fronte.
2
Margolis e Laurence (1999), p. 11.
3
Ivi, p. 11.
4
Ovviamente “inglese”, nel testo originale.
5
Nel senso di: fatto dall’uomo.
6
Citato in Margolis e Laurence (1999), p. 11.
12
Questa impostazione ci permette di spiegare altri aspetti importanti come le
inferenze analitiche. La distinzione analitico/sintetico rimanda ad una tradizione
filosofica che affonda le sue radici nel pensiero medievale, ripresa in epoca
moderna da Leibniz. La forma canonica della distinzione analitico/sintetico si ha
però con Kant, che distingue i giudizi in base al loro contenuto: analitici se il
predicato del giudizio non aggiunge nulla alla conoscenza del soggetto (“tutti i
corpi sono estesi”); sintetici, quando il predicato incrementa la conoscenza del
soggetto, come avviene per i giudizi empirici (“questa rosa è rossa”).
Intuitivamente riscontriamo delle differenze tra la frase (1) e la (2) qui di
seguito:
(1) Giorgio è un uomo non sposato. Quindi Giorgio è un uomo.
(2) Giorgio è un sollevatore di pesi. Quindi Giorgio è un uomo.
La frase (1), ma non (2), è analitica, in senso kantiano, e questo garantisce la
conclusione in virtù delle premesse. Prendiamo adesso un altro esempio:
(3) Giorgio è scapolo. Quindi Giorgio è un uomo.
Quest’ultima frase potrebbe indurre qualche dubbio: assomiglia più alla (2) che
non alla (1), però, per quanto detto sino a questo momento, attraverso la
scomposizione del concetto “scapolo” – troveremo “uomo” – o, se si preferisce, i
suoi costituenti “maschio”, “adulto”. Analizzando (1) e (3) otterremo quindi lo
stesso risultato – una inferenza analitica – in virtù sia delle condizioni necessarie
e sufficienti di cui abbiamo discusso, che della possibilità di scomporre i concetti
negli elementi che li compongono. Vorrei far notare, inoltre, un elemento
importante della Teoria Classica: il meccanismo soggiacente che spiega
l’acquisizione concettuale è lo stesso che sta alla base della spiegazione delle
inferenze analitiche: di nuovo si tratta di “scomporre” concetti in elementi
costituenti più semplici e/o “comporre” tali elementi per tornare al concetto
complesso.
13
Un altro elemento importante della Teoria Classica, che possiamo considerare
come una specie di conseguenza di quanto detto sino a questo momento,
riguarda la “possibilità semantica” dei concetti: «quando qualcuno acquisisce il
concetto di “passerotto” inevitabilmente compie l’operazione cruciale di
comprendere un concetto che si riferisce a tutti i passerotti, e quando egli
compie una inferenza da “passerotto” a “è un uccello”, oppure “è un animale”,
egli traccia una inferenza a proposito dei passerotti»
7
. Questo possibilità del
riferimento semantico mostra, in primo luogo, che le condizioni necessarie e
sufficienti hanno un “legame” con il mondo: un oggetto (il passerotto) può
“cadere” sotto un certo concetto (l’uccello) se si verificano certe condizioni e
sono soddisfatte certe proprietà; il riconoscimento delle proprietà definitorie
dell’oggetto garantiscono l’appartenenza a quel dato concetto e, in tal modo,
l’oggetto acquista il suo ‘significato’. Un significato che garantisce, come abbiamo
visto, una serie di proprietà inferenziali: avere di fronte un passerotto significa
già sapere di trovarci di fronte ad un uccello e ad un animale. In secondo luogo,
ci permette di dire che, per esempio, il concetto “unicorno” ha una estensione
nulla perché sappiamo (a meno di tangibili prove contrarie) che gli unicorni sono
frutto della mitologia. Dire che un concetto ha “estensione nulla” significa
semplicemente che non vi sono nella realtà esempi di unicorni e non che il
concetto non ha significato.
7
Margolis e Laurence (1999), p. 13.
14
§ 1.2 Critiche alla Teoria Classica dei concetti: prima parte
L’obiezione più celebre – forse in assoluto – alla Teoria Classica consiste nella
‘definizione’ (o meglio: in una impossibilità della stessa, secondo i dettami della
Teoria Classica) del concetto di “gioco” fornita da Wittgenstein (1953): egli, dopo
aver messo in evidenza i diversi tipi di giochi, arriva alla conclusione che il
concetto sotto cui è possibile riunirli è, in realtà, una specie di “rete” che lega,
senza gerarchie, le diverse istanze: ogni esempio di gioco costituisce, in qualche
modo, una “somiglianza di famiglia” con gli altri; la famiglia diviene qui la
metafora di cui Wittgenstein si serve per indicare che è possibile rintracciare
delle caratteristiche condivise tra i membri che vi appartengono, pur rimanendo,
ogni elemento che la compone, diverso.
Secondo questo punto di vista non è possibile definire i concetti, semplicemente
perché molti di essi non ammettono una definizione in termini di condizioni
necessarie e sufficienti. Burge critica la Teoria Classica, pur trovandosi in accordo
con molti aspetti in essa descritti. Valutando almeno due aspetti importanti in
dettaglio possiamo dire che egli:
1. identifica principi di relazione tra concetti, contenuti del pensiero e
attitudini proposizionali: «i concetti sono dei sottocomponenti del
pensiero»
8
e questo, in altre parole, significa che le persone per dire di
‘avere’ un concetto devono essere in grado di avere dei pensieri che
‘contengano’ il concetto; concetti quindi devono essere elementi comuni e
condivisi da un punto di vista intersoggettivo, mentre devono essere
elementi costanti in un soggetto.
8
Burge (1993), p. 309.
15
Inoltre devono essere in grado di caratterizzare schemi inferenziali di tipo
razionale; l’esempio che lo stesso Burge fa è il seguente: il pensiero (a)
che tutti i cani sono animali e che (b) Fido è un cane ci permette di
comprendere la capacità delle persone di inferire, in accordo con schemi
deduttivi ovvi, che (c) Fido è un animale. Come terzo aspetto di questi
principi di relazione i concetti costituiscono modi con i quali un soggetto
pensa cose, proprietà, relazioni, ecc.: il concetto di qualcosa, in questo
senso è un modo di pensare a quella cosa;
2. identifica funzioni referenziali dei concetti: i concetti, infatti, in quanto
contenuti del pensiero, sono rappresentazionali o intenzionali; essi
possono applicarsi anche ad oggetti non concreti, ma la loro funzione
rimane, in ogni caso, quella di conferire senso. Anche qui forse un
esempio aiuterà a chiarire la questione: «gli “unicorni” sono unicorni se ci
riferiamo ad essi; altrimenti, più semplicemente stiamo chiamando le
cose con il nome sbagliato»
9
.
Nel punto 1 in particolare possiamo osservare una caratteristica importante: i
concetti devono poter essere ‘condivisi’ e proprio questo sembra minare la
concreta possibilità di definizione – intesa sempre secondo i criteri delle
condizioni necessarie e sufficienti, volte ad individuare le condizioni reali di
applicazione di un termine. Una definizione siffatta non necessariamente è
conosciuta, o conoscibile, da qualcuno che possiede il concetto. La condivisione
intersoggettiva di cui parla Burge, da questo punto di vista, mette in evidenza il
fatto che certe definizioni che applichiamo quotidianamente a concetti o a termini
del linguaggio, possono tranquillamente rivelarsi false e questo dimostra, una
volta di più, che le definizioni non possono esaurire il significato di un termine o
il suo concetto associato.
9
Ibid., p. 310.
16
Se è possibile possedere un concetto senza necessariamente conoscerne la
definizione – la sua estensione – in termini di condizioni necessarie e sufficienti,
abbiamo poche speranze sul fatto che essi possano realmente essere delle
definizioni. Forse lo studioso che sembra avere meno dubbi su questo aspetto è
Jerry Fodor, che se nel 1980 scriveva ‘contro’ le definizioni (vedi Fodor et alii,
1980), nel 1998 parla decisamente di ‘morte’ delle definizioni (vedi Fodor, 1998).
L’argomentazione di Fodor si inserisce all’interno di una posizione precisa: egli è
infatti il ‘caposcuola’ di una teoria chiamata Atomismo Concettuale. Senza
scendere nel dettaglio possiamo affermare che l’Atomismo postula una completa
assenza di struttura concettuale a favore di una relazione nomica e causale tra i
concetti (/parole) e il mondo. Per Fodor una relazione causale è una connessione
nomica tra i concetti e le proprietà che i suoi ‘esempi’ esprimono. Per esempio, il
contenuto del concetto ‘felino’, non è dato dalla sua relazione con altri concetti
come ‘animale’, ‘zanne’, ecc. quanto piuttosto ‘felino’ esprime la proprietà felino,
in parte per il fatto che vi una legge causale che lega la proprietà di essere un
felino con il concetto ‘felino’. Già questo presupposto evidenzia la netta
contrapposizione con la Teoria Classica: la legiformità ricercata da Fodor si
contrappone alla possibilità di specificazione di condizioni necessarie e sufficienti
ricercate nelle caratteristiche dell’oggetto in questione. Mi si passino i termini: è
come se la Teoria Classica costruisse i propri concetti in modo “esogeno” –
ovvero determinando i significati mediante qualcosa che è ‘esterno’ ai concetti
stessi (le definizioni) – mentre l’Atomismo li volesse costruire in modo
“endogeno” – ovvero secondo criteri di causalità che fanno essere i concetti ciò
che sono, in virtù di proprietà che sembrano essere intrinseche al concetto
stesso. Inoltre, secondo Fodor (1998), seppure a prima vista le definizioni
sembrino soddisfare una serie di requisiti ontologici necessari ai concetti, esse
non sono candidate ad essere (i significati) dei concetti perché, come mostrato in
precedenza, molti dei nostri concetti non hanno definizioni – in termini di
17
condizioni necessarie e sufficienti. Inoltre, se riduciamo i concetti a definizioni,
non siamo più in grado di comprendere fino a che punto le nostre capacità
inferenziali – che non si riducono alle inferenze analitiche – abbiano un ruolo per
la definizione e la comprensione concettuale: oltre ad esservi concetti che
mancano di definizioni, possiamo avere concetti che ci permettono inferenze su
altri concetti; inferenze induttive (e quindi non solo analitiche) che riguardano –
come nell’esempio della definizione di ‘gioco’ in Wittgenstein (1953) – solo
elementi minimi di una possibile definizione (per esempio: gioco è tutto ciò che
vorrebbe essere divertente
10
).
Non sembra il caso di dilungarci oltre su questo versante; le osservazioni di
Fodor (1998) sono convincenti e costituiscono una seconda batteria di argomenti
per mostrare come la via definizionale ai concetti – sia essa sostenuta da una
teoria piuttosto che da un’altra – non sia perseguibile.
10
Il condizionale mi sembra d’obbligo per indicare una situazione teorica: se avessi detto “gioco è
tutto ciò che è divertente”, l’obiezione più semplice potrebbe essere: sto giocando ma non mi sto
divertendo, quindi significa che non sto giocando?