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Nel capitolo 6 si espone il piano della ricerca, diviso in tre diverse fasi ognuna con il proprio
obiettivo ed una appropriata metodologia.
Nel capitolo 7 si applica il modello all’analisi del caso empirico, la multinazionale svedese
IKEA, che è da tempo impegnata in un’attenta revisione delle proprie prassi di Human
Resources Management.
Nel capitolo 8 si estende infine la ricerca al negozio IKEA di Sesto Fiorentino, prima filiale
italiana della multinazionale svedese ad applicare fin dallo start-up prassi di diversity
management.
Nel capitolo finale, dedicato alle conclusioni, si tracciano le linee riassuntive dei risultati e si
esplora il grado di esportabilità del diversity management in Italia.
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1. LE SFIDE DELLO HUMAN RESOURCES MANAGEMENT
In questo capitolo si analizzano i più recenti ed originali approcci allo Human Resources
Management, cercando di definire il contesto culturale entro cui si sviluppa il diversity
management.
Si è inizialmente rivolta l’ attenzione, con un rapido sguardo d’insieme, alle maggiori criticità
emerse in questi anni nell’ambito delle organizzazioni, il conformismo, la mancanza di
creatività, ed il bisogno di una più marcata valorizzazione del capitale umano.
Successivamente si descrivono alcuni tra i più efficaci approcci teorici che, in questi anni,
attraverso la messa in discussione dei più vetusti modelli di gestione del personale, hanno
tentato di imprimere un cambio di paradigma fondamentale rispetto ai pilastri dello Scientific
Management.
E’ la conoscenza degli individui che fanno parte delle organizzazioni, il nuovo totem invocato
dagli analisti per imporre un generale rinnovamento delle leve di gestione e sviluppo del
personale.
I nuovi balli rituali prendono il nome di knowledge management ed apprendimento
collaborativo.
La tecnologia fornisce il ritmo con cui condurre queste danze, ritmo così ben calibrato, da
permettere a volte la fusione di movimenti spesso assai eterogenei, in un possente rito
propiziatorio.
Le tribù che popolano le organizzazioni sono tuttavia sempre meno catalogabili, assai meno
riconoscibili di prima, sono diverse tra di loro ed impongono un generale ripensamento delle
strategie.
Nasce allora negli Stati Uniti un nuovo culto, il diversity management, legittima filiazione del
Knowledge Management.
La mission di questo capitolo è allora:
descrivere con chiarezza e sintesi le sfide che lo human resource management si trova
ad affrontare in questi anni;
analizzare in profondità quali sono gli approcci più importanti che le scienze
organizzative hanno proposto;
illustrare più chiaramente possibile il contesto organizzativo entro cui si sviluppa
l’approccio del Diversity Management.
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1.1 Evoluzione e disgregazione delle organizzazioni
Le scienze organizzative sembrano negli ultimi anni ripercorrere sempre più fedelmente le
vicende dell’arte visiva, che da un’iniziale attenzione nei confronti dell’armonia delle forme si è
via via andata concentrando su figure sempre più astratte, che non necessariamente tenessero
conto dei canoni imposti dalla realtà. Nello stesso modo, i grandi analisti delle organizzazioni
produttive abbandonano progressivamente i classici modelli geometrici come la piramide, e si
concentrano su forme sempre più complesse e di difficile comprensione. Come gli artisti del
Novecento, che assistevano ad una serie di incredibili mutamenti nel breve lasso di pochi
decenni, lo studioso dell’organizzazione si trova allora a riformulare continuamente la propria
prospettiva d’analisi, necessariamente e per sempre in fieri.
L’information technology e il superamento del modello dell’ economia di scala tramite la
flessibilità strategico-gestionale hanno radicalmente mutato l’orizzonte, le imprese perdono
sempre di più una propria riconoscibile identità, obbligate come sono ad una costante
destrutturazione dei propri luoghi e tempi produttivi. Si diffondono allora fenomeni di
terziarizzazione delle attività ritenute non centrali e si formano progressivamente sempre più
unità produttive inscindibilmente legate ad altre, in piatte ragnatele dalla problematica
interpretazione. Come già intuito da Karl Weick le connessioni tra le parti all’ interno
dell’organizzazione si fanno sempre più lasche, permettono cioè una notevole autonomia tra le
singole componenti del sistema, e quanto più i legami sono laschi, tanto più i soggetti sono
portati a impegnarsi in uno sforzo di costruzione della realtà sociale: “…quindi una grande
quantità di lavoro, di facciata, di lavoro linguistico, di miti…”
Tale sforzo mitopoietico si traduce a livello manageriale, in una irrinunciabile tensione verso
dei valori fondativi che sappiano avvicinare i diversi nodi di queste reti: pratiche simboliche,
politiche di gestione delle risorse umane e vision dell’impresa coagulano allora in una compatta
ed omologante cultura d’azienda che appiattisce ulteriormente vitalità e creatività
dell’organizzazione.
Eppure mai come in questo periodo storico, contraddistinto dalla pervasività della tecnologia
e dalla continua ricerca dell’innovazione, diventa essenziale la fase ideativa più che quella
produttiva nel ciclo di vita di un impresa. In tutti i suoi singoli comparti, dai teams di R&S ai
settori meno appariscenti dovrebbe essere la produzione e la condivisione di idee innovative ad
essere premiata più che il conformismo a riti simbolici o l’attitudine al lavoro.
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In tale panorama, è il capitale umano ad esser necessariamente sempre più centrale, le
persone sono e diventeranno sempre più la risorsa più importante dell’impresa, perché unici
soggetti, fino a prova contraria, in grado di conoscere nel senso più completo del termine. Ed è
proprio questa unicità di conoscenze, di esperienze e di emozioni che dovrebbe essere
valorizzata adottando gli strumenti che di volta in volta la tecnologia ed il buon senso rendono
disponibili.
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1.2 Nuovi orizzonti; il Knowledge Management
In questo senso, dagli anni ‘90 in poi si verifica nell’ambito dello Human Resources
Management un graduale ripensamento delle politiche di gestione e sviluppo del personale. La
valorizzazione del capitale umano non era infatti mai stata l’ obiettivo primario per le imprese
orientate ai risultati, ed occorreva invece ripensare a come si diffondono le competenze
coerentemente con quanto richiesto dal nuovo paradigma del Knowledge Management.
Secondo questo approccio la conoscenza non va considerata unicamente come il possesso di
dati ed informazioni quantificabili, è infatti molto più cruciale in sede di miglioramento
qualitativo dell’organizzazione, considerare anche una dimensione cognitiva più soggettiva,
fatta di schemi mentali, emozioni, sensazioni, permeata insomma dalla nostra immagine della
vita. Knowledge Management significa allora “identificare gestire e valorizzare cosa
l’organizzazione sa o potrebbe sapere, abilità ed esperienze delle persone, archivi e documenti
delle biblioteche relazione con clienti e fornitori e altri materiali archiviati in database elettrici
2
”.
Questo fondamentale processo di interazione tra conoscenza tacita, quella più personale e
nascosta e conoscenza esplicita, il sapere codificato nelle procedure standard, è stata
efficacemente descritta da Nonaka e Takeuchi
3
come una spirale in grado di trasformare
un’azienda in una vera e propria learning organization in grado di combinare incessantemente
know-how individuale ed inter-organizzativo.
La gestione e la formazione delle risorse umane diventa una fase sempre più complessa
dunque, da un lato si trova a fornire competenze omogenee per rincorrere paradigmi
organizzativi sempre più destrutturati, dall’altro deve, come scienza relativamente nuova,
continuamente negare se stessa ed essere aperta a istantanei mutamenti di prospettiva.
Alla centralità della formazione era d’altronde dedicato il libro bianco pubblicato alla fine del
1995 dalla Commissione Europea, dal titolo emblematico Insegnare ad apprendere: verso la
società della conoscenza, che poneva all’attenzione dei paesi europei cinque grandi obiettivi:
incoraggiare l’acquisizione di nuove conoscenze;
avvicinare la scuola all’imprese;
lottare contro l’esclusione;
promuovere la conoscenza di tre lingue europee;
porre su un piano di parità gli investimenti materiali e gli investimenti nella formazione.
2 Davenport & Prusak, (2000), Working Knowledge, Harvard Business School Press, p.23
3
Nonaka & Takeuchi, (1997), The Knowledge creating company, Guerini,, Milano.,
12
Di questi punti l’ultimo diventa cruciale, dal momento che gli investimenti in formazione, in
apprendimento, ed in conoscenza non sono mai stati fra gli obiettivi prioritari per le imprese,
naturalmente più orientate ai risultati, ai prodotti, ai servizi. D’altra parte, le aziende sono
prevalentemente valutate sui risultati gestionali, sul ROI, sul ROS, sul ROE, sui dividendi
distribuiti, sul patrimonio, che fra l’altro non può contabilizzare il valore immateriale della
conoscenza posseduta. Certamente non si è investito nell’ignoranza ma neppure in modo chiaro
e diretto sulla conoscenza, che in questi anni destabilizzati da una competitività sempre più
dura, sembra esser diventata un vantaggio strategico di grande importanza.
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1.2.1 L’apprendimento collaborativo
Una maggiore attenzione nei confronti della formazione e più in generale dei modi con cui
gli individui apprendono, ha spinto il management a focalizzarsi su quegli strumenti della
politica delle risorse umane che consentono la messa in discussione alla radice delle
tradizionali forme organizzative e della stessa struttura verticale e funzionale dell’impresa. Uno
di questi strumenti sembra esser diventato la creazione di gruppi di lavoro ad ogni livello
organizzativo come sistema di delega, integrazione, innovazione e gestione dei processi. Il
team emerge come nuova modalità di lavoro che arricchisce il lavoro individuale, permeandolo
di quella interdisciplinarietà professionale che è il segno distintivo della composizione dei
gruppi, e che è così cruciale nelle organizzazioni più complesse.
Il team basandosi su di una maggiore cooperazione tra individui permette poi un più efficace
scambio di quella conoscenza che abbiamo definito tacita: “una comune esperienza lavorativa
crea infatti una cultura, un linguaggio e dei riti, così come delle consuetudini pratiche e delle
conoscenze tecniche
4
”.
Il gruppo favorisce dunque anche l’auto-apprendimento, e costituisce un ulteriore fattore di
competitività in virtù della maggiore flessibilità e deburocratizzazione del processo decisionale
che da sequenziale diventa simultaneo.
L’importanza del team, diventa allora cruciale alla luce degli studi sulle comunità di pratica, e
dei contesti di lavoro, visto che, come sostengono Lave e Wenger, “l’apprendere, il pensare e il
conoscere sono relazioni tra persone che agiscono nel e attraverso un mondo strutturato
socialmente e culturalmente
5
”.
Secondo questo approccio dunque la formazione e l’analisi delle dinamiche organizzative non
può essere decontestualizzato dalle pratiche quotidiane del lavoro, anzi l’apprendimento “non è
un processo specializzato che avviene solo in momenti e contesti specificamente dedicati, ma
un aspetto quotidiano e normale del funzionamento individuale. Questo significa considerare
che apprendiamo sempre, partecipando ad attività culturalmente e socialmente caratterizzate
6
”.
In questa ottica torna di grande attualità lo strumento dell’apprendistato che permette un
graduale inserimento dell’individuo all’interno del contesto di lavoro, ed un più semplice
apprendimento di quella che abbiamo definito conoscenza tacita, quell’insieme di emozioni,
sentimenti, credenze che compongono il know-how nascosto di ogni piccola comunità di lavoro.
4
Gherardi. S, “Apprendere nelle comunità di pratica e apprendere nei contesti tradizionali” in Butera F. La Rosa M. (1998),
Formazione, sviluppo organizzativo e gestione delle risorse umane, Milano, Franco Angeli.
5
Lave Wenger, Situated Learning Legitimate Peripheral Participation, Cambridge University press, 1991, Cambridge.
6
Zucchermaglio C., Vygotskij in azienda, Carocci, 2001, Milano. p.126