7
Per quanto riguarda l’Italia, le prime Casse di Risparmio vennero istituite fin dal
1822 nei territori dell’Impero austro-ungarico, come emanazione dei locali Monti di
Pietà. A Milano nel 1823 venne fondata la Cassa di Risparmio delle Provincie
Lombarde dalla Commissione centrale di beneficenza
3
, su sollecitazione delle autorità
di governo. Nell’Italia centrale – Granducato di Toscana e Stato pontificio –
l’iniziativa fu invece assunta da associazioni di cittadini, mentre in quella meridionale
le Casse di Risparmio sorsero per derivazione dai monti frumentari (istituzioni
benefiche che anticipavano le sementi agli agricoltori più poveri) ed ebbero uno
sviluppo molto contenuto.
Il fatto che l’iniziativa per la costituzione delle Casse di Risparmio fosse partita
da diversi soggetti (Governi, Comuni, autorità ecclesiastiche, associazioni di cittadini)
determinò una pluralità di tipi istituzionali, tra i quali quello a struttura associativa e
quello a struttura di fondazione
4
; quest’ultima distinzione è tuttora applicabile alla
struttura delle fondazioni bancarie.
Le Casse di Risparmio erano regolate fondamentalmente dallo statuto, atto di
natura eminentemente privata, che determinava la struttura organizzativa nonché il
grado di autonomia patrimoniale e amministrativa. Lo statuto, grazie alla sua
flessibilità, consentì il tempestivo adattamento di ciascun istituto alla realtà economica
e sociale in cui operava.
Fin dall’inizio, la funzione principale che contraddistinse le Casse di Risparmio
fu la raccolta di denaro risparmiato tra le classi meno abbienti, che versavano piccoli
importi a scopo previdenziale e non avevano intenti speculativi. La funzione di
impiego dei depositi fu caratterizzata dalla necessità di garantire due risultati: la
sicurezza degli investimenti, mediante una gestione prudente del denaro raccolto, e un
3
La Commissione Centrale di Beneficenza era un’emanazione della Congregazione centrale istituita
dall’Amministrazione asburgica, durante la crisi economica del 1815-1818, con il compito di
organizzare e gestire un’attività filantropica a sostegno dei poveri e di promozione dell’economia
locale. Quando nel 1823 la Commissione concluse il suo mandato si pose il problema di come utilizzare
le risorse rimaste disponibili grazie agli oculati investimenti compiuti negli anni precedenti.
L’Amministrazione asburgica propose allora la costituzione della Cassa di Risparmio di Milano, sul
modello di quella di Vienna. Negli anni successivi, il successo di questa iniziativa è testimoniato
dall’espansione dell’attività in tutto il territorio lombardo, e sancito dall’assunzione del nome Cassa di
Risparmio delle Provincie Lombarde. Attualmente Commissione Centrale di Beneficenza è la
denominazione tuttora utilizzata per indicare l’organo di indirizzo della Fondazione CARIPLO.
4
Vedi MATTEUCCI N., L’origine storica delle casse di risparmio, in ROVERSI MONACO F. A. (a
cura di), Le fondazioni casse di risparmio, Rimini, Maggioli, 1998, p. 23 che distingue tra Casse a base
associativa , il cui consiglio di amministrazione è nominato dall’assemblea dei soci, e Casse a base
istituzionale, il cui consiglio è nominato dall’ente fondatore.
8
grado di redditività minima come forma di incentivo. Col successivo emergere di una
componente bancaria, le Casse di Risparmio seguirono schemi operativi distinti non
solo rispetto alle grandi banche private ma anche rispetto alle Banche Popolari, che
tendevano ad assumere rischi più alti, tanto che svolsero un ruolo di stabilizzatori del
sistema finanziario nei periodi di crisi economica
5
.
Il legislatore incontrò obiettive difficoltà nell’attribuire alle Casse di Risparmio
una qualificazione giuridica unitaria. Infatti, queste istituzioni costituivano una
categoria eterogenea, da un lato a causa della diversa origine che si rifletteva su una
differente organizzazione interna, dall’altro a causa di una maggiore accentuazione
dell’anima commerciale o di quella morale all’interno del singolo ente
6
.
Proprio il complesso problema della qualificazione giuridica delle Casse di
Risparmio e quello, conseguente, dell’individuazione dell’organo di vigilanza sulle
nuove istituzioni determinarono ripetuti e spesso contraddittori interventi normativi
oltre che numerosi pareri oscillanti espressi dal Consiglio di Stato.
La legge del Regno di Sardegna 31 dicembre 1851, n. 1312 bis le ricondusse alla
categoria delle opere pie, considerando esclusivamente la loro originaria funzione di
soccorso alle classi disagiate; coerentemente con questo indirizzo, il regolamento 18
agosto 1860, n. 4249 di esecuzione della legge 20 novembre 1859, n. 3779 sulle opere
pie, considerandole come tali, le assoggettò al controllo del Ministero dell’interno.
Successivamente all’unificazione nazionale e all’estensione del regolamento n. 4249
alle Casse di Risparmio dell’Italia centrale, costituite come società anonime, la
precedente soluzione sembrò inadeguata e con il regio decreto 21 aprile 1862, n. 592
si introdusse una distinzione tra le Casse di risparmio in base all’origine e all’attività
prevalente: quelle “mantenute da opere pie, od esercitate a precipuo fine di
beneficenza” vennero ricondotte alla vigilanza del Ministero dell’interno, mentre
quelle “d’indole diversa” (quindi, le casse assimilabili agli istituti di credito)
mantennero “la loro dipendenza dal Ministero di agricoltura, industria e commercio”
7
.
5
CLARICH M., Le Casse, cit., pp. 20-21.
6
Sulla duplice “anima” delle Casse di Risparmio vedi COSULICH M., Le casse di risparmio e le
fondazioni bancarie tra pubblico e privato, Milano, Giuffrè, 2002, p. 19. L’anima morale guidava
l’attività di raccolta del risparmio, con lo scopo di promuovere il senso di previdenza delle classi meno
abbienti, mentre l’anima commerciale guidava l’impiego dei capitali, che serviva alla remunerazione
dei depositi e all’accumulazione di capitali destinati a opere di beneficenza.
7
COSULICH M., Le casse di risparmio, cit., p. 33.
9
Tuttavia, rapidamente si affermò l’idea che le Casse di Risparmio dovessero
essere considerate come veri istituti di credito, riconosciuta dal regio decreto 26
giugno 1864, n. 1911 che le assoggettò tutte indistintamente alla vigilanza del
Ministero dell’agricoltura, industria e commercio. Anche le successive pronunce del
Consiglio di Stato riconobbero la mutata natura da opere pie a istituti di credito
8
.
Il nuovo codice di commercio, entrato in vigore il 1° gennaio 1883, abolendo
qualsiasi vigilanza governativa sulle banche, ripropose il problema della natura delle
Casse di Risparmio, poiché considerarle come istituti di credito significava escludere
il controllo da parte del Governo.
Così, il Consiglio di Stato mutò la propria giurisprudenza col parere del 1°
febbraio 1884, riaffermando l’applicazione della legislazione sulle Opere pie alle
Casse di Risparmio costituite esclusivamente a scopo di beneficenza. La Cassazione di
Roma, invece, privilegiò una terza via, ritenendo che le Casse di Risparmio fossero
enti morali sui generis, aventi scopo di previdenza e non commerciali, disciplinati
dall’art. 2 del codice civile. Tale interpretazione ebbe il merito di escludere
definitivamente l’applicazione della disciplina delle Opere pie, ma non risolse il
problema della natura pubblicistica o privatistica degli enti morali in generale e
dunque delle Casse di Risparmio in particolare.
Questo concetto (Casse come enti morali sui generis) fu assunto dalla prima
legge organica del 15 luglio 1888, n. 5546 “Riordinamento delle casse di risparmio”,
che le definì nel primo articolo come “istituti che si propongono di raccogliere i
depositi a titolo di risparmio e di trovare ad essi conveniente collocamento”. Inoltre,
l’art. 28, ai sensi del quale “nessun istituto che non sia regolato ai termini della
presente legge, può assumere il titolo di cassa di risparmio ancorché eserciti talune
delle operazioni da essa attribuite alle casse di risparmio” configurò compiutamente le
Casse di Risparmio come una categoria a sé stante, specificamente definita e
disciplinata
9
.
Il legislatore del 1888 riconobbe, in primo luogo, l’autonomia delle Casse di
Risparmio dagli istituti di beneficenza e la natura eminentemente bancaria dell’attività
svolta da questi istituti che avevano ormai raggiunto lo status di organismi finanziari.
8
Si vedano il parere del 29 luglio 1869 e il parere del 2 giugno 1876.
9
COSULICH M., Le casse di risparmio, cit., pp. 52-53.
10
A questo scopo, stabilì un sistema di controlli e sanzioni differente rispetto a
quello previsto dalla legge n. 6972 del 17 luglio 1890 sulle istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza e non trascurò di favorire lo sviluppo ulteriore della
componente bancaria con disposizioni che prevedevano strumenti per accrescerne la
solidità e la gestione dinamica
10
.
In secondo luogo, stabilì il conferimento della personalità giuridica alle Casse di
Risparmio e l’approvazione contestuale del primo statuto con decreto reale promosso
dal Ministro dell’agricoltura, industria e commercio, sentito il parere del Consiglio di
Stato. Si trattava dunque di un provvedimento discrezionale, in funzione della tutela
dei depositanti da eventuali iniziative ritenute non sicure.
L’acquisizione della personalità giuridica comportava la piena autonomia delle
Casse di Risparmio, sia di quelle “fondate da corpi morali o col loro concorso”
rispetto all’ente fondatore, sia di quelle “istituite da associazioni di persone”
11
.
In particolare, la stessa legge impose ai promotori delle casse a struttura di
fondazione l’obbligo di costituire un patrimonio separato e un’amministrazione
distinta da quella degli enti fondatori (art. 4); le Casse di Risparmio a struttura
associativa dovevano eliminare a loro volta la forma societaria (art. 31, comma 1, n.
5). Inoltre, secondo l’art. 5, “ la qualità di socio è personale e intrasmissibile” anche
dopo che sia stato restituito il fondo di dotazione; in tal modo venne recisa la
corrispondenza tra appartenente all’assemblea in qualità di socio e proprietario di una
quota di capitale, così che l’assemblea si trasformò, da riunione dei proprietari del
capitale, in “luogo di confluenza degli interessi economici e sociali più rilevanti
nell’ambito della comunità in cui l’istituto è inserito”
12
.
Nel periodo intercorrente tra la legge del 1888 e la legge bancaria del 1936, lo
strumento legislativo fu utilizzato con la pretesa di “poter seguire gli andamenti
economici e finanziari con uno strumento rigido”
13
, anziché, da un lato, dettare una
disciplina per gli aspetti strutturali e organizzativi propri di ciascun tipo di istituti di
credito e, dall’altro, rimettere all’autonomia statutaria la determinazione degli aspetti
più particolareggiati e specifici dell’organizzazione interna di ciascun istituto.
10
Per approfondire questo aspetto si veda CLARICH M., Le Casse, cit., pp. 38-39.
11
COSULICH M., Le casse di risparmio, cit., p. 57.
12
CLARICH M., Le Casse, cit., p. 36.
13
CLARICH M., Le Casse, cit., p. 70.
11
I provvedimenti del 1926
14
disciplinarono, per la prima volta, organicamente il
settore del credito, rendendo applicabili anche alle Casse le norme sui controlli
governativi propri delle banche, senza peraltro intaccare la disciplina del 1888 che
presentava per molti aspetti maggiore completezza
15
. Piuttosto, fu la legge bancaria
del 1936
16
a ricomprendere le Casse di Risparmio nella categoria generale delle
aziende di credito (art. 5), anche a costo di urtare contro le resistenze opposte
dall’intero settore delle Casse che intendevano conservare gelosamente la loro
autonomia; furono abrogate le norme del T. U. del 25 aprile 1929, n. 967
incompatibili con quelle della nuova legge bancaria (art. 40, ultimo comma).
Richiede particolare attenzione il r.d.l. 10 febbraio 1927, n. 269, il quale
prevedeva un procedimento di fusione obbligatoria degli istituti di dimensioni minori
e imponeva il raggruppamento dei residui in Federazioni a livello provinciale o
interprovinciale
17
. Questa operazione di concentrazione consentì alle Casse di
Risparmio di sopravvivere alla crisi degli anni ’30 senza subire particolari
conseguenze.
Occorre accennare anche ad altri due provvedimenti emanati nello stesso periodo:
il r.d.l. 24 febbraio 1938 n. 204 e la legge 14 dicembre 1939, n. 1922. Il primo
riservava al Capo del Governo il potere di nominare il presidente e il vicepresidente,
sottraendolo alle assemblee dei soci e agli enti fondatori
18
; la seconda disponeva
l’incorporazione o la fusione obbligatoria delle Casse minori, senza peraltro sortire
particolari effetti data la drastica riduzione del numero di istituti già determinata dal
decreto del 1927.
Per quanto riguarda la qualificazione giuridica delle Casse di Risparmio, la legge
bancaria del 1936, sebbene si fosse impegnata in un’intensa opera di
“pubblicizzazione”, non si era preoccupata di affermarne espressamente la natura
pubblica, dato che su questa interpretazione la giurisprudenza era ormai concorde.
Appare perciò opportuno richiamare le principali decisioni della Corte di Cassazione,
nel periodo tra la legge del 1888 e la legge bancaria del 1936.
14
Si tratta del r.d.l. 7 settembre 1926 n. 1511 e del r.d.l. 6 novembre 1926 n. 1830.
15
CLARICH M., Le Casse, cit., p. 50.
16
Si tratta del r.d.l. 12 marzo 1936, n. 375, convertito in legge 7 marzo 1938, n. 141.
17
Sul numero delle Casse di Risparmio in quel periodo si veda SENIN A., voce “Cassa di Risparmio”,
in Enciclopedia del Diritto, VI, 1960, p. 430.
18
Questa disposizione venne abrogata da un referendum popolare svoltosi nel 1993.
12
In tre sentenze del 1904
19
era stata negata l’assimilazione delle Casse di
Risparmio a istituti di beneficenza, tesi in base alla quale alcune di esse pretendevano
l’applicabilità di agevolazioni fiscali
20
. Questa impostazione fu ripresa dalla Corte di
Cassazione in una sentenza del 1917
21
, nella quale si precisava che le Casse non
potevano essere considerate organi della pubblica amministrazione, ma persone
giuridiche pubbliche distinte; la stessa sentenza le definì “stabilimenti pubblici”,
rievocando in modo impreciso i francesi établissements publics, che sono organi della
pubblica amministrazione, anziché gli établissements d’utilitè publique (categoria che
nell’ordinamento francese è intesa come intermedia tra pubblico e privato e che non
trovò mai applicazione né nella dottrina né nella giurisprudenza italiana
22
). Infine,
nella sentenza del 10 maggio 1930, le Casse di Risparmio furono riconosciute come
enti pubblici in base al loro scopo, ossia perché perseguivano fini pubblici (nel senso
di statali). In particolare, nel novecento, sia il fine creditizio (raccolta del risparmio e
sostegno allo sviluppo economico del paese) sia il fine previdenziale (come
“assistenza preventiva diretta a impedire o diminuire la diffusione del pauperismo”
23
)
erano inclusi tra le funzioni dello Stato.
Fino alle riforme degli anni novanta, la natura giuridica pubblica delle Casse di
Risparmio risultò pressoché incontroversa, tanto da essere indiscussa anche in
sentenze recenti
24
. In sostanza, le Casse presentavano la struttura tipica degli enti
pubblici economici, il cui regime giuridico è di diritto pubblico per quanto riguarda il
“soggetto”, vale a dire la qualificazione soggettiva, la costituzione dell’ente,
l’organizzazione e le norme statutarie; si applica, al contrario il diritto privato per tutto
ciò che riguarda l’attività dell’ente (gestione dell’azienda, attività creditizia svolta
verso i clienti, rapporti con i concorrenti, ecc…)
25
.
19
Due sentenze nella stessa data (11 marzo 1904), entrambe pubblicate in Giurisprudenza italiana,
1904, I, 1, col. 319 e Corte di Cassazione, 5 marzo 1904, pubblicata in Giurisprudenza italiana, 1904, I,
1, col. 605.
20
L’agevolazione fiscale consisteva nella riduzione della tassa di manomorta ai sensi dell’art. 3, comma
3 del regio decreto n. 2078 del 1874.
21
Corte di Cassazione, 13 gennaio 1917, in Giurisprudenza italiana, 1917, I, 1, col. 169.
22
MORBIDELLI G., Sulla natura degli enti conferenti a struttura associativa e sul grado di autonomia
costituzionalmente garantita agli stessi, in ROVERSI MONACO F. A., cit., p. 109.
23
Corte di Cassazione, sent. 5 marzo 1904.
24
Si veda per tutte Corte di Cassazione, sez. un., sentenza 17 agosto 1990, n. 8356.
25
BALDASSARRE A., Le casse di risparmio come “formazioni sociali” e società di credito private,
in ROVERSI MONACO F. A., cit., p. 79.
13
Per tornare alla storia delle Casse di Risparmio, esse ebbero il merito di sostenere
la ripresa economica italiana degli anni ’50 e ’60. Successivamente cominciò una fase
di decadenza e di negative influenze partitiche, che condusse a risultati spesso
disastrosi sia nell’erogazione dei crediti che nella formazione del management. Si
giunse perciò a parlare addirittura di una “foresta pietrificata”.
Va ricordato lo Statuto tipo, approvato dal CICR nel 1966, che costituiva un
modello guida proposto con lo scopo di rendere omogenei gli statuti delle singole
Casse di Risparmio, le quali, generalmente, si attennero a questo schema generale
senza apportare modifiche o soluzioni differenti
26
. E’ interessante notare che, a
proposito degli scopi delle Casse di Risparmio, lo Statuto tipo, oltre che riprendere
l’idea che dovessero “promuovere e raccogliere il risparmio dando ad esso
conveniente collocamento”, aggiunse che dovevano tendere “al massimo impulso
dello sviluppo economico e sociale della propria zona”. Emergeva così l’idea nuova
che le Casse di Risparmio potessero essere strumenti di politica economica del
Governo e delle Regioni
27
.
Negli anni ’80, sotto l’influenza decisiva della Comunità Europea, contraria ad
ogni forma di aiuti di Stato e volta a privilegiare un regime di piena concorrenza tra le
imprese e a realizzare una forte privatizzazione e liberalizzazione dell’economia, si
diffuse il convincimento circa la necessità di modificare il nostro apparato economico
e la Banca d’Italia si assunse il compito di suggerire la trasformazione delle banche
pubbliche in società per azioni di diritto privato.
A questo punto, occorre ricordare lo studio della Banca d’Italia del 1981, il c.d.
libro bianco
28
. Si tratta di un’elaborazione di un gruppo di studio costituito presso la
Banca d’Italia, che ha rappresentato il punto di partenza della successiva evoluzione.
In esso si prospettava la necessità di riorganizzare gli enti pubblici creditizi secondo
un modello più appropriato e più efficiente, proponendo la trasformazione secondo il
modello della società per azioni di tipo tedesco.
26
CLARICH M., Le Casse, cit., p. 118 ss.
27
PORZIO M., Le c.d. “fondazioni bancarie”: mostri o modello?, in Diritto della banca e del mercato
finanziario, 2001, 1, p. 5.
28
BANCA D’ITALIA, Ordinamenti degli enti pubblici creditizi. Analisi e prospettive, 1981, n. 1-2.
14
L’intero settore delle Casse di Risparmio si dimostrò disponibile a tale
trasformazione. Essa venne avviata tramite modifiche statutarie
29
che prevedevano la
costituzione, accanto al fondo istituzionale, di un fondo di partecipazione e di un
fondo di risparmio, oppure, in alcuni casi, di un fondo di risparmio partecipativo, nei
quali far affluire gli apporti esterni realizzati tramite emissione di quote di
partecipazione, di quote di risparmio e di quote di risparmio partecipativo
30
. Gli
apporti esterni miravano alla ricapitalizzazione e all’ingresso di nuove energie
imprenditoriali nell’ente.
Mentre le banche pubbliche seguivano la strada del riassetto statutario, nel
febbraio del 1988 venne pubblicato il secondo libro bianco della Banca d’Italia
31
, che,
da un lato, confermava la necessità dell’adozione del modello della società per azioni
in mano pubblica
32
, mentre, dall’altro si contrapponeva alla prima memoria per quanto
riguardava il punto fondamentale dello scorporo fra l’ente pubblico e l’impresa
bancaria.
Infatti, la prima memoria non aveva accolto l’ipotesi della “separazione per
ciascun ente pubblico tra controllo e impresa, da realizzare affidando la titolarità
dell’impresa bancaria a una società per azioni il cui capitale sia controllato da una
holding pubblica”. Nella memoria si legge che questa soluzione “si presenta
artificiosa, perché lo sdoppiamento di ogni banca pubblica in una holding pubblica più
una società per azioni creerebbe soggetti o privi di un ruolo specifico o suscettibili di
determinare decisioni distorsive circa l’allocazione del credito, in quanto prese al di
fuori dell’impresa bancaria.”
33
.
29
Si veda sul punto MERUSI F., Trasformazioni della banca pubblica, Bologna, il Mulino, 1985, p. 86
ss. In particolare, l’autore ritiene possibile la realizzazione della riforma col solo strumento statutario.
Infatti, lo Statuto tipo approvato dal CICR nel 1966 non poteva essere considerato un ostacolo, dato che
quest’ultimo era liberamente derogabile da parte dei destinatari, avendo soltanto valore di suggerimento
“autorevole” di uno degli organi che sarebbero intervenuti nel procedimento di formazione. Inoltre, lo
statuto delle Casse, in quanto atto complesso con natura di regolamento statale, poteva modificare
anche quanto previsto nel regolamento generale sulle Casse (r.d. 5 febbraio 1935, n. 225). I due
regolamenti erano equiordinati nell’ambito della gerarchia delle fonti.
30
Per la distinzione tra quote di partecipazione, quote di risparmio e quote di risparmio partecipativo si
veda MERUSI F., Trasformazioni, cit., pp. 109-116.
31
BANCA D’ITALIA, Ordinamento degli enti pubblici creditizi. L’adozione del modello della società
per azioni, Roma, 1988.
32
Su questo aspetto si veda BELLI F., e MAZZINI F., voce “Fondazioni Bancarie”, in Digesto disc.
priv., sez. comm., Aggiornamento, Torino, I, 2000, p. 305.
33
BANCA D’ITALIA, Ordinamenti, cit., p. 11.
15
Invece, dopo appena sette anni, venne riproposta quella stessa soluzione: lo
scorporo dell’azienda bancaria tramite conferimento in società per azioni venne
prospettato sia per gli enti a struttura di fondazione sia per quelli a struttura
associativa, che avrebbero potuto optare altrimenti per la trasformazione diretta
dell’ente in società per azioni.
La medesima impostazione suggerita dalla Banca d’Italia venne adottata nella
normativa di lì a pochissimo susseguente.
1.2 L’evoluzione del fenomeno e gli interventi legislativi.
L’obiettivo principale della legge delega 30 luglio 1990, n. 218 recante
“Disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione patrimoniale degli istituti di
credito di diritto pubblico” (c.d. legge Amato) e del decreto legislativo 20 novembre
1990, n. 356 recante “Disposizioni per la ristrutturazione e per la disciplina del gruppo
creditizio” consisteva nel consentire la ristrutturazione delle banche pubbliche
mediante l’adozione del modello societario. Accanto a questa finalità prioritaria, si era
inteso perseguire altri obiettivi, non meno importanti, quali la ricapitalizzazione e la
crescita dimensionale degli enti creditizi, favorendo le aggregazioni e le fusioni, e la
vigilanza sui gruppi creditizi.
La c.d. legge Amato ha promosso la trasformazione degli enti creditizi pubblici in
“società per azioni operanti nel settore del credito” (art. 1, comma 1, l. n. 218/1990),
scegliendo la via del conferimento dell’azienda bancaria, mediante “scorporo” dal
precedente ente unitario, ad una o più società per azioni, già esistenti o appositamente
costituite anche con atto unilaterale
34
; contemporaneamente, l’ente conferente
acquistava, se non necessariamente la totalità del pacchetto azionario, almeno la
maggioranza di controllo che non avrebbe dovuto cedere
35
e col reddito prodotto dal
34
Cfr. art. 1, comma 2, l. 218/90.
35
Nell’art. 2, comma 1, lett. d), l. n. 218/1990 si prevede che il Governo è delegato ad emanare norme
dirette a “introdurre una disciplina volta a garantire la permanenza del controllo diretto o indiretto di
enti pubblici sulla maggioranza delle azioni con diritto di voto nell’assemblea ordinaria delle società
per azioni di cui all’articolo 1”.
16
pacchetto azionario avrebbe dovuto perseguire i fini d’interesse pubblico e di utilità
sociale indicati dalla norma stessa
36
.
In origine, gli enti creditizi pubblici esercitavano in via principale un’attività
bancaria e in via del tutto residuale devolvevano un’esigua parte degli utili in attività
di beneficenza. In seguito alla c.d. legge Amato, le due funzioni suddette sono state
attribuite distintamente a due soggetti, la società conferitaria e l’ente conferente: la
prima presenta forti legami con le Casse di Risparmio originarie, tanto da succedere
nei rapporti giuridici preesistenti delle Casse (art. 16, comma 1, d. lgs. n. 356/1990) e
poter mantenere la stessa denominazione; il secondo è un soggetto giuridico
sostanzialmente diverso dalla preesistente Cassa di Risparmio, della quale conserva
esclusivamente la proprietà del pacchetto azionario
37
. Inoltre, quasi a conferma del
loro carattere residuale, questi nuovi soggetti vengono definiti semplicemente con la
locuzione “enti che hanno effettuato i conferimenti” (art. 2, comma 1, lett. c), l. n.
218/1990) o “enti conferenti” nel d. lgs. n. 356/1990, identificando l’essenza degli enti
nel conferimento che ne ha determinato la nascita. La denominazione “fondazioni
bancarie”, affermatasi prima a livello statutario e dottrinale, sarà utilizzata per la
prima volta a livello legislativo, del tutto incidentalmente, nel 1995
38
.
Sembra opportuna anche un’ulteriore considerazione riguardo alla modalità da
seguire, indicata agli enti pubblici creditizi, per la ristrutturazione in forma di società
per azioni. Teoricamente, la soluzione più congrua avrebbe potuto essere quella
successivamente adottata dal decreto legge 11 luglio 1992, n. 333 (convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359), il quale prevedeva la trasformazione
diretta di alcuni enti pubblici economici (IRI, ENEL, ENI, INA) in società per azioni,
con attribuzione della partecipazione azionaria al Ministero del tesoro. Nel caso degli
36
Cfr. art. 12, comma 1, lett. a), d. lgs. n. 356/1990 che individua anche alcuni settori di operatività (la
ricerca scientifica, l’istruzione, l’arte e la sanità) a cui si aggiungevano le originarie finalità di
assistenza e di tutela delle categorie sociali più deboli. Si tratta di un aspetto interessante perché
costituisce un primo riferimento all’operatività erogativa degli enti, indirizzando la loro attività verso
specifici settori.
37
Si veda SCHLESINGER P., Le c.d. “fondazioni bancarie”, in Banca, borsa e titoli di credito, 1995,
I, p. 422, il quale sostiene che il nuovo ente sia sorto ex nihilo per mera volontà del legislatore. “Si è
ritenuto, difatti, di poter creare con un colpo di bacchetta magica un ente di nuova formazione, benché
nulla preesistesse e favorisse un siffatto disegno: non una categoria di soggetti da proteggere, non
interessi peculiari da perseguire, non una struttura in atto, non una tradizione da conservare, non una
dirigenza sperimentata da utilizzare, nulla, assolutamente nulla”.
38
Si veda l’art. 47 quater, comma 1, d. l. 23 febbraio 1995, n. 41, “Misure urgenti per il risanamento
della finanza pubblica e per l’occupazione nelle aree depresse”. COSULICH M., Le casse di risparmio,
cit., p. 119.
17
enti pubblici creditizi, viceversa, è sembrato più opportuno non consentire la
trasformazione diretta delle Casse di Risparmio in società per azioni, in quanto
caratterizzate da un fondo di dotazione a composizione non associativa. In base alla
disciplina dettata dal d. lgs. n. 356/1990, i meccanismi della trasformazione diretta
potevano operare solo per gli enti con un fondo di dotazione a composizione
associativa, in quanto l’esistenza di un capitale diviso in quote consentiva di
individuare agevolmente i soggetti cui attribuire le azioni della nuova società,
convertendo le quote del capitale sociale in corrispondenti quote azionarie
39
.
Del resto, l’operazione di trasformazione non fu imposta come obbligatoria
40
, ma
lasciata alla volontaria adesione degli enti, sia pure accompagnata da notevoli
incentivi fiscali (art. 7, l. n. 218/1990) e dalla garanzia che gli enti conferenti
avrebbero continuato ad esercitare il controllo sulle aziende bancarie conferitarie.
Infatti, la legge delega prevedeva che il decreto delegato avrebbe dovuto “introdurre
una disciplina volta a garantire la permanenza del controllo diretto o indiretto di enti
pubblici sulla maggioranza delle azioni” (art. 2, comma 1, lett. d), l. n. 218/1990). In
conformità alla delega, il decreto legislativo stabiliva che “nelle società bancarie
risultanti dalle operazioni di cui all’art. 1, la maggioranza delle azioni con diritto di
voto nell’assemblea ordinaria deve appartenere ad enti pubblici o società finanziarie o
bancarie nelle quali la maggioranza delle azioni con diritto di voto nell’assemblea
ordinaria appartenga ad uno o più enti pubblici” (art. 19, comma 1, d. lgs. n.
356/1990) e che soltanto il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministero del tesoro
e sentita la Banca d’Italia, avrebbe potuto autorizzare un trasferimento di azioni tale
da determinare la perdita del controllo sulla società bancaria (art. 21, comma 1, d. lgs.
n. 356/1990).
Nel complesso, si può affermare che la c.d. legge Amato abbia costituito un punto
di svolta fondamentale nell’evoluzione degli assetti del sistema bancario italiano,
perché ha determinato la fine dell’ente pubblico creditizio e ha portato alla diffusione
dello strumento societario, che avrebbe consentito, in fasi successive, l’avvio di
39
Soltanto la Banca Nazionale del Lavoro, unica ad avere struttura associativa, ha potuto procedere ad
una trasformazione diretta in una spa controllata dal Ministero del tesoro. Bisogna anche ricordare che
le Casse a base associativa non avevano più da molto tempo un fondo di dotazione a composizione
associativa, in quanto l’art. 5 della legge n. 5546 del 1888 aveva svincolato l’appartenenza
all’assemblea dalla proprietà di una quota di capitale. Vedi supra p. 5.
40
L’art. 1, comma 1, l. n. 218/1990 prevede che “gli enti creditizi pubblici … possono effettuare
trasformazioni … da cui … risultino comunque società per azioni operanti nel settore del credito”.
18
aggregazioni e fusioni. Bisogna però rilevare che, mentre sono state realizzate le
finalità prioritarie in campo bancario e finanziario, non è stata colta l’occasione per
definire chiaramente natura, obiettivi e modalità operative delle fondazioni, le quali
svolgevano un ruolo di assoluta importanza, quali detentori di partecipazioni bancarie
e soggetti attivi nel controllo di una parte del sistema bancario
41
.
Di pochi anni successive sono due disposizioni normative finalizzate al passaggio
dalla privatizzazione formale alla privatizzazione sostanziale
42
: l’art. 43 del d. l. 14
dicembre 1992, n. 481, attuativo della direttiva comunitaria n. 646 del 1989 e l’art. 7
del d. l. 31 maggio 1994, n. 332, convertito dalla legge 30 luglio 1994, n. 474.
La prima aggiungeva un comma all’art. 21 del decreto legislativo n. 356, ai sensi
del quale il Ministro del tesoro poteva impartire direttive, “previa deliberazione del
Consiglio dei ministri”, per il trasferimento di azioni che comportasse “la perdita della
partecipazione maggioritaria diretta o indiretta di enti pubblici nelle società bancarie”.
La nuova norma non trovò alcuna applicazione perché il Ministero non adottò alcun
atto sulla base dell’ultimo comma dell’art. 21.
La stessa idea della necessità di una privatizzazione sostanziale delle società
bancarie conferitarie venne ribadita dal decreto legge 31 maggio 1994, n. 332 “Norme
per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli
enti pubblici in società per azioni”. Nell’art. 1, comma 7, si prevedeva che il Ministro
del tesoro stabilisse, con proprio decreto, “criteri e procedure per la dismissione delle
partecipazioni degli enti conferenti, tenendo presenti le norme vigenti in materia di
dismissione delle partecipazioni dello Stato”.
In tal modo, però, si delineavano nell’ordinamento tre diversi procedimenti per la
dismissione della partecipazione azionaria di maggioranza nell’azienda bancaria:
quello dell’art. 21, comma 1 che disciplinava una deroga al principio della
permanenza del controllo fissato dall’art. 19
43
; quello dell’art. 21, comma 3 che
41
BOTTIGLIA R., Le fondazioni bancarie: missione, ruolo istituzionale e partecipazione agli assetti
proprietari del sistema creditizio, Padova, Cedam, 2003, pp. 57-59.
42
Per privatizzazione formale si intende “l’adozione di una forma giuridica di carattere privatistico
(specificamente: il tipo societario della società per azioni) in luogo di una di origine e stampo
pubblicistici (ad esempio: azienda autonoma; ente pubblico economico).” Per privatizzazione
sostanziale, invece, si intende “il passaggio della proprietà (o del controllo) di imprese o di settori di
imprese da un soggetto pubblico a soggetti privati”. Per maggiori approfondimenti, si veda JAEGER P.
G., e DENOZZA F., Appunti di diritto commerciale, Milano, Giuffrè, 1997, I, p. 74 ss.
43
Vedi supra p. 12.
19
tracciava una sorta di eccezione all’eccezione
44
; quello introdotto dall’art.1, comma 7,
d. l. n. 332 del 1994. Peraltro dei tre procedimenti che, durante la provvisoria vigenza
del decreto legge, coesistevano, soltanto il primo poteva essere attuato
immediatamente, dato che gli altri due richiedevano l’adozione di appositi atti
ministeriali, rispettivamente nella forma della direttiva e del decreto.
La legge di conversione (legge 30 luglio 1994, n. 474) risolse il problema della
compatibilità dell’art. 1, comma 7 con le altre due procedure di dismissione, tramite la
loro abrogazione. L’art. 1, comma 7–bis abrogava appunto l’art. 13, commi 4 e 5, sui
controlli sulla cessione della partecipazione di maggioranza e sull’acquisto di
partecipazioni di maggioranza diverse da quelle originarie, e gli artt. 19, 20, e 21,
dedicati alla permanenza del controllo in mano pubblica, alla omessa distribuzione
delle azioni in mano pubblica e all’autorizzazione in deroga alle dismissioni.
Inoltre, fu aggiunto il comma 7–ter, ai sensi del quale erano previste agevolazioni
fiscali, qualora il trasferimento delle azioni fosse deliberato dall’ente. Questa
disposizione sembra sancire la piena autonomia dell’ente conferente nello scegliere di
cedere la partecipazione di controllo. Una conferma in questo senso può anche
ricavarsi dall’inciso, inserito in sede di conversione in legge al comma 7 dell’art. 1,
secondo cui le dismissioni sono “deliberate dagli enti conferenti”, e dalla mancata
abrogazione dell’art. 13, comma 1
45
, in base al quale può escludersi che il Ministro del
tesoro possa imporre la dismissione
46
.
In questo quadro complesso, s’inserisce la direttiva del Ministro del tesoro
emanata il 18 novembre 1994
47
, conosciuta come “direttiva Dini”, la quale ha
scardinato i principi della c.d. legge Amato.
Innanzitutto, l’art. 10, comma 1 della direttiva stabiliva che gli enti conferenti
dovessero “restare estranei alla gestione della società conferitaria e delle società ed
enti che con essa compongono il gruppo creditizio”; la legge n. 218/1990 prevedeva
44
BELLI F., e MAZZINI F., voce “Fondazioni Bancarie”, cit., p. 313.
45
L’art. 13, comma 1, d. lgs. 356/90 stabilisce che “l’acquisto o la cessione di azioni delle società
conferitarie deve avvenire in conformità a delibere del consiglio di amministrazione, o di altro organo
equivalente, sentito il collegio sindacale, o altro organo equivalente”.
46
COSULICH M., Le casse di risparmio, cit., p. 140.
47
La direttiva Dini è intitolata.“Criteri e procedure per la dismissione delle partecipazioni deliberate
dagli enti conferenti di cui all’art. 11 del d. lgs. 20 novembre 1990, n. 356, nonché per la
diversificazione del rischio degli investimenti effettuati dagli enti conferenti”.
20
esattamente il contrario, dato che l’oggetto dell’attività degli enti conferenti doveva
essere proprio la gestione di partecipazioni bancarie e finanziarie.
In secondo luogo, la direttiva non ha dettato direttamente tempi e modi per la
dismissione obbligatoria delle partecipazioni bancarie, bensì ha prescritto una
diversificazione degli investimenti, che avrebbe dovuto comportare la perdita della
partecipazione di maggioranza nella società conferitaria. Infatti, l’art. 2, comma 2
della direttiva Dini stabiliva che gli enti conferenti, entro un quinquennio,
diversificassero l’attivo, in modo tale che la copertura delle spese inerenti al
perseguimento degli scopi statutari fosse assicurata in misura superiore al cinquanta
per cento con proventi diversi da quelli derivanti dalla partecipazione di controllo,
oppure in alternativa, che non più del cinquanta per cento del patrimonio risultasse
investito in azioni della società conferitaria.
Inoltre, la premessa della direttiva conteneva l’affermazione che occorreva che
gli enti conferenti riducessero progressivamente la partecipazione detenuta nella
società conferitaria. Tuttavia, ciò non è sufficiente per interpretare l’art. 2, comma 2
nel senso di imporre agli enti conferenti la dismissione, perché altrimenti dovrebbe
considerarsi illegittimo per contrasto con norme legislative
48
. Questa ipotesi è anche
suffragata dalla gradualità temporale (cinque anni)
49
– che tiene conto della
complessità delle operazioni di dismissione e delle prevedibili resistenze degli enti - e
dalla mancanza di sanzioni o di norme, che regolino il caso in cui gli enti conferenti
non adempiano alla direttiva nei tempi previsti.
I
a
a
p
l
s
c
48
La configurabilità di un obbligo di dismissione era stata esclusa dall’art. 1, commi 7 e 7 –ter,della
legge n. 474 del 1994. Si veda supra p. 14 e COSULICH M., Le casse di risparmio, cit., pp. 142-146.
49
Si veda BOTTIGLIA R., Le fondazioni bancarie, cit., p. 79. Secondo l’autore, il lungo periodo
previsto per l’attuazione della direttiva ha creato le premesse per un atteggiamento dilatorio delle
fondazioni, le quali ipotizzavano il possibile rinnovo dei benefici fiscali, come era già avvenuto per i
benefici disposti dalla l. n. 218 del 1990.