A ciò va poi aggiunto che la fattispecie delineata dalla norma va a
ricomprendere non solo il lavoro svolto per conto di un’Impresa ma anche
quello per un committente non imprenditore: ciò in quanto la disposizione di
cui al n. 3 dell’art. 409 deve coordinarsi con quella di cui al n.1, che si riferisce
appunto anche a rapporti “non inerenti all’esercizio di un’Impresa”
3
.
Tornando ai requisiti d’identificazione del rapporto si deve sottolineare come
quello della continuità va a sottintendere una prestazione che non si presenta in
forma occasionale o istantanea e quindi destinata a non ripetersi o a non
protrarsi nel tempo. A proposito della prestazione unica che si ripeta o si
protragga nel tempo, va però aggiunto come la giurisprudenza prevalente
ritenga che il requisito della continuità sia comunque presente nel caso in cui
ricorrano due condizioni: il ripetersi nel tempo e in maniera sufficientemente
ripetitiva e costante dei contratti di collaborazione e la connessione funzionale
tra le singole prestazioni che devono essere complessivamente coordinate,
concorrendo così a soddisfare un interesse duraturo del committente e più
ampio di quello derivante dal singolo adempimento.
Conseguentemente la continuità non viene intesa in senso meramente
cronologico ma interagisce con il requisito della coordinazione.
Esaminando alcune decisioni giurisprudenziali in proposito si può così rilevare
come sia stato ritenuto applicabile l’art. 409 n.3 Cpc, nel caso del rapporto di
collaborazione professionale ultratrentennale tra un avvocato ed un ente
previdenziale fondato su mandati generali ad lites rilasciati in base a
convenzioni susseguitesi nel tempo mentre, viceversa, se n’è esclusa
3
Pedrazzoli M. “Prestazione d’opera e para-subordinazione” Riv. It. Dir. Del Lav. 1984, I, 506;
Ballestrero M.V. “L’ambigua nozione di lavoro para-subordinato” Lav. Dir. 1987, 58.
l’applicabilità per il rapporto tra avvocato e cliente, ove i diversi incarichi
succedutisi nel tempo avevano acquisito rilevanza singolarmente.
Per il caso della prestazione unica che non si ripete ma si protrae nel tempo la
giurisprudenza non è invece sempre concorde nel ritenere applicabile l’art. 409
Cpc: al di là della durata cronologica della prestazione si è infatti sovente
ritenuto indispensabile che l’opera o il servizio si ripetano nel tempo e che cioè
il committente sia interessato a conseguire (e consegua), una pluralità di
risultati.
Sempre in tema di unica prestazione, una parte della giurisprudenza ha ritenuto
che possa essere riscontrabile il requisito della continuità anche quando la
prestazione richieda, non solo un’attività prolungata nel tempo ma anche
un’iterazione fra le parti dopo la conclusione del contratto, non limitata ai
momenti dell’accettazione dell’opera e del versamento del corrispettivo. In
particolare questa iterazione viene ravvisata nella destinazione esclusiva
dell’attività lavorativa al soddisfacimento di un interesse del committente, tale
da implicare, per quel periodo, una totale messa a disposizione delle energie
lavorative del prestatore, con conseguente perdita della sua posizione di libertà
e quindi con presumibile dipendenza economica da quel solo cliente.
Venendo al secondo requisito identificativo della collaborazione e cioè quello
della coordinazione, va detto come la dottrina sia unanime nell’identificarla
con un “collegamento funzionale” dell’attività del prestatore d’opera con
quella del destinatario della prestazione
4
.
Allo stesso tempo si è però voluto rimarcare come tale collegamento
funzionale, non dovesse trascendere in un obbligo per il prestatore d’opera di
4
Cfr Santoro Passarelli G. “Il lavoro “para-subordinato”” Milano, 1979a, 67; Ballestrero,
Opera cit., 62.
stare a disposizione del committente e nel potere di quest’ultimo di
determinazione delle modalità dell’esecuzione e la disciplina della prestazione:
in caso contrario è infatti evidente come si sarebbe varcato il confine con il
rapporto di lavoro subordinato
5
.
La giurisprudenza, a proposito della coordinazione, va ad identificare la
connessione funzionale nella possibilità per il committente di stabilire per
grandi linee, il modo di esecuzione della prestazione del collaboratore.
Sempre a proposito della coordinazione, va infine aggiunto come la Cassazione
la rilevi nel caso esista un rapporto di esclusiva tra il collaboratore ed il
committente ma non vada peraltro ad escluderla aprioristicamente nei casi in
cui la prestazione sia svolta in regime di pluricommittenza come ad esempio
nel caso del procacciamento d’affari per conto di più soggetti.
Venendo poi al requisito che più spesso entra in gioco per decidere l’ambito
d’applicazione dell’art. 409 n 3 Cpc e cioè quello della natura prevalentemente
personale dell’opera, bisogna innanzitutto intenderla come prevalenza
dell’attività del prestatore d’opera rispetto sia all’apporto dei propri
collaboratori che all’utilizzazione di una struttura di tipo materiale e degli altri
fattori per l’esecuzione dell’obbligazione.
Conseguentemente è piuttosto agevole escludere dalla previsione dell’art. 409
n3 Cpc quei rapporti in cui l’attività del prestatore d’opera assume un carattere
imprenditoriale tale per cui si possa ritenere che egli si limiti ad organizzare e
dirigere i suoi collaboratori gestendo una vera e propria Impresa. Neanche
colui che ai sensi dell’art. 2083cc. si definisce piccolo imprenditore può farsi
rientrare nella previsione dell’art. 409 n3 Cpc, in quanto sempre secondo
5
Santoro Passarelli Opera cit.
quest’ultimo articolo, non è possibile considerare attività personale quella dei
componenti della famiglia del collaboratore.
Parallelamente la giurisprudenza ha escluso la sussistenza del requisito in
esame nel caso in cui la prestazione d’opera sia svolta in forma societaria. Ciò
anche nel caso in cui si tratti di società sfornite di personalità giuridica (società
di persone o società di fatto) ed anche quando vi sia la prevalenza dell’apporto
personale dei soci sull’entità del capitale investito: ciò perché “tali società, non
potendosi identificare con le persone fisiche dei soci, non sono in grado, per
definizione, di prestare un’opera prevalentemente personale”
6
.
Quando però si verte in materia di esplicazione di opera professionale, la
giurisprudenza mostra una maggiore propensione ad ammettere la prevalente
personalità della prestazione nel caso in cui essa sia realizzata in forma
associata. La Cassazione con sentenza del 22.12.78, n. 6167 non la esclude nel
caso del professionista associato con altri nella titolarità dello studio
professionale: ciò in quanto tale associazione non esclude la personalità della
prestazione della loro opera, trattandosi di forma di collaborazione
assolutamente distinta da quella di società; si ritiene anzi, come in questi casi il
requisito della prevalente personalità della prestazione debba presumersi fino a
prova contraria.
Come detto, l’art. 409 n.3 Cpc va ad assoggettare il particolare rapporto di
collaborazione coordinata e continuativa alle norme processuali del rito del
lavoro di cui alla legge n. 533/1973.
Va inoltre attribuito il merito alla L. 533/’73, di aver esteso anche ai lavoratori
a collaborazione coordinata e continuativa, la portata dell’art. 2113 c.c., il
6
Cass. 21.2.85 n. 2518
quale, facendo un espresso rinvio ai rapporti di cui all’art. 409 CpC, sancisce
anche per quest’ultimi l’invalidità di rinunce o transazioni su diritti
indisponibili derivanti da disposizioni inderogabili di legge e da contratti o
accordi economici collettivi. Prima della riforma dell’art. 409 CpC, l’art. 2113
c.c. si applicava quindi ai soli rapporti di lavoro subordinato, mentre con la L.
533/’73 vi è stata un’estensione della norma, anche ai rapporti di lavoro para-
subordinato.
Per ciò che riguarda le norme sostanziali del lavoro subordinato, è
fondamentale rimarcare come la giurisprudenza prevalente tenda ad escluderne
l’applicabilità: in particolare si può sottolineare il costante orientamento della
Corte di Cassazione teso ad escludere l’applicabilità dell’art. 36 Cost., dell’art
2 L. n. 604/’66 sulla forma scritta del licenziamento, della L. n. 230/’62 sui
limiti ai rapporti a termine.
Un ulteriore riferimento normativo che può contribuire a dare una
contestualizzazione giuridica al rapporto di collaborazione coordinata e
continuativa viene fornita dal legislatore con il Testo Unico delle imposte sui
redditi del 1986 (Dpr 917/86). Esso all’art. 49 va ad assoggettare ai redditi di
lavoro autonomo anche quei redditi “derivanti dagli uffici di amministratore,
sindaco o revisore di società,….e da altri rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa” andando poi subito dopo a precisare che “si
considerano tali i rapporti aventi per oggetto la prestazione di attività, non
rientranti nell’oggetto dell’arte o professione esercitata dal contribuente….
che pur avendo contenuto intrinsecamente artistico o professionale sono svolte
senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel
quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi
organizzati e con retribuzione periodica prestabilita”.
Si deve però subito aggiungere che tale disposizione è stata radicalmente
modificata con il collegato fiscale alla Legge Finanziaria 2000 (art.34 Legge n.
488/’99), il quale, come vedremo, va fra l’altro ad eliminare dalla nozione di
rapporto di collaborazione coordinata e continuativa la necessità di un
“contenuto intrinsecamente artistico o professionale” della prestazione.
Cap. 1.2- Distinzioni giurisprudenziali fra lavoro
autonomo, subordinato e para-subordinato.
L’aumento, quasi esponenziale, che negli ultimi anni è avvenuto nel nostro
Paese del numero di rapporti di lavoro in forma di collaborazione coordinata e
continuativa può essere spiegato in relazione a due fenomeni,
contemporaneamente incidenti sul mercato del lavoro.
Da un lato, il notevole cambiamento e l’evoluzione della struttura economico
produttiva, come si vedrà nei prossimi paragrafi, ha creato nuove professioni e
stravolto le modalità d’esecuzione di quelle più tradizionali, realizzando così
un segmento del mondo del lavoro per lo più ad alto contenuto professionale
7
e
caratterizzato da modalità della prestazione lavorativa molto vicine
all’autonomia.
Dall’altro lato c’è poi il fenomeno del cosiddetto lavoro “dipendente
mascherato” e cioè del frequentissimo utilizzo da parte datoriale, del contratto
7
Butera F., Donati E., Cesaria R., I lavoratori della conoscenza, Milano, F. Angeli, 1997
di collaborazione per inquadrare l’attività di lavoratori che, nei fatti, sono
vincolati a modalità della prestazione in tutto riferibili al lavoro subordinato.
Un abuso che ha consentito e consente tutt'oggi a migliaia di datori di lavoro di
eludere tutta la normativa e gli oneri del lavoro subordinato, “approdando” ad
un regime di deregolamentazione del rapporto qual è oggi quello delle
collaborazioni coordinate e continuative. Un fenomeno, quello della falsa para-
subordinazione tutt’altro che residuale in Italia
8
e che ha una sua proliferazione
a fronte anche della mancanza di una chiara normativa che definisca con criteri
oggettivi e quindi d’immediata percettibilità, i confini tra lavoro subordinato e
para-subordinato. A seguito della diffusione di tale abuso, com’è facilmente
intuibile, è così cresciuta un’imponente vertenzialità avente ad oggetto la
natura del rapporto di lavoro e la richiesta per via giudiziale, del lavoratore, di
riconoscimento della subordinazione e conseguentemente, delle varie spettanze
economiche a proprio favore.
E’ toccato così alla giurisprudenza chiarire la distinzione fra rapporto di lavoro
subordinato e para-subordinato e prima ancora, pronunciarsi sul valore del
nomen juris dato dalle parti al rapporto rispetto al futuro svolgimento che lo
stesso ha di fatto avuto.
Proprio su quest’ultimo aspetto esiste una consolidata giurisprudenza di
Cassazione che afferma come la volontà espressa dai contraenti nella stipula
negoziale non assurge ad elemento decisivo se risulta che nel suo svolgimento,
il rapporto si è poi concretizzato nel senso della subordinazione. In quest’ottica
8
M. Paci ha denunciato che “soltanto un quarto dei parasubordinati sono realmente
collaboratori”, mentre “gli altri sono dipendenti camuffati”, e ciò in base alla circostanza che
l’87% ha un solo committente: “Finti collaboratori, ecco le cifre”, Corriere della Sera, 20
Novembre 1999.
si è così sancita la centralità dell’effettivo modus operandi delle parti nel
contratto, considerando secondaria la definizione che le stesse hanno dato nel
contratto.
Venendo poi ai criteri distintivi fra il rapporto di lavoro subordinato ed
autonomo, anche qui si deve registrare un orientamento ormai concorde della
giurisprudenza: essa tende a dare rilevanza innanzitutto all’assoggettamento del
lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore. La Corte
di Cassazione fa così riferimento alla cd eterodeterminazione e cioè a specifici
ordini del datore di lavoro (e non semplici direttive, compatibili anche con il
lavoro autonomo), ad un’assidua attività di vigilanza e controllo
sull’esecuzione dell’attività lavorativa ed allo stabile inserimento del lavoratore
nell’organizzazione aziendale del datore di lavoro.
Oltre a tali criteri ve ne sono altri quali il rischio economico dell’attività
lavorativa, l’osservanza di un determinato orario, la forma della retribuzione, la
continuità temporale della prestazione, che hanno invece un carattere
sussidiario e sono utilizzabili specialmente quando nel caso concreto non
emergono elementi univoci a favore dell’identificazione del rapporto.
Analizzando più nello specifico alcune sentenze di Cassazione, si riscontra
come il criterio dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive datoriali, sia
riscontrabile anche quando il potere direttivo del datore venga esercitato giorno
per giorno. A stabilirlo è stata la sentenza di Cassazione n. 11924 del 24
Novembre ’98, la quale, con riferimento al caso di una lavoratrice esercitante la
professione di terapista di riabilitazione titolare di partita IVA, sanciva come
potesse accogliersi l’istanza di riconoscimento di lavoro subordinato anche se
le direttive datoriali si siano esercitate, come nel caso specifico, di diem in
diem: la lavoratrice riceveva infatti giornalmente dal datore le schede di lavoro
recanti l’indicazione del paziente e del tipo di prestazione da eseguire.
Va detto come in molti casi concreti siano riscontrabili elementi
contemporaneamente riconducibili al lavoro autonomo e al lavoro subordinato:
fermo restando che l’onere della prova grava naturalmente sempre su chi ha
interesse a far valere la subordinazione, la giurisprudenza si uniforma alla
regola della prevalenza e cioè applica la disciplina del tipo di rapporto i cui
connotati appaiono come prevalenti.
Un discorso particolare lo merita la problematica relativa alla prestazione
lavorativa con carattere intellettuale o ad alto contenuto professionale. In questi
casi l’accertamento della natura subordinata od autonoma del rapporto va
desunta prioritariamente dalla posizione tecnico-gerarchica in cui si trova il
lavoratore in correlazione al potere direttivo del datore di lavoro. In pratica se
manca una qualsiasi forma di assoggettamento del lavoratore alle direttive del
datore di lavoro, l’esistenza degli altri indici della subordinazione diventa del
tutto irrilevante.
Venendo alla distinzione fra rapporto di lavoro subordinato e di collaborazione
coordinata e continuativa, come già detto, la prestazione del lavoratore para-
subordinato non deve essere di natura occasionale ma prolungata nel tempo per
un periodo anche determinato ma apprezzabilmente lungo, in relazione ad
esigenze di carattere non transitorio del richiedente. Deve essere coordinata in
maniera funzionale con la struttura del committente ma non andando mai a
debordare nella eterodeterminazione della prestazione (si tratterebbe altrimenti
di lavoro subordinato) con ordini e controlli penetranti sulle modalità di
esecuzione della prestazione. Dev’essere infine prevalentemente personale e
quindi l’utilizzazione del lavoro altrui o di mezzi tecnici deve assumere un
valore solo secondario.
Non rileva invece, ai fini qualificatori, la situazione di debolezza socio-
economica e contrattuale del lavoratore autonomo parasubordinato.
In conclusione, quindi, l’elemento qualificante del lavoro para-subordinato
rispetto a quello subordinato risiede nel fatto che a questo tipo di lavoratore,
una volta concordate le modalità di esecuzione della prestazione, residua ampia
autonomia nella organizzazione, così che si può dire che la realizzazione
concreta del programma negoziale del contratto è rimessa alle capacità auto-
organizzative del prestatore di lavoro.
Il rispetto di tali principi nel caso concreto diviene però non sempre
d’immediata e semplice applicabilità. Citando un recentissimo caso concreto
della giurisprudenza di Cassazione, la Suprema Corte con Sentenza del 2
Aprile 2002 ha sancito la sussistenza di lavoro subordinato nel caso di
un’infermiera addetta ad una casa di riposo con contratto di collaborazione
coordinata e continuativa argomentando che ciò si debba evincere dal suo
inserimento continuativo e sistematico nell’organizzazione aziendale. Molto
rilevante è nella Sentenza, la considerazione che il vincolo di subordinazione
non viene meno anche se si manifesta in maniera parzialmente attenuata in
relazione alla maggiore o minore elevatezza delle mansioni ed alla natura delle
stesse e quindi, in maniera tale da garantire al lavoratore una certa libertà di
organizzazione del lavoro.