8
conservazione e diffusione di tale sapienza teatrale, delle tecniche e dei codici
espressivi, strutturato sulla base della caratteristica divisione del lavoro in
“ruoli”, e della composizione familiare dei complessi, era quello definito dei
figli d’arte. Tutto ciò rendeva quello delle scene un mondo chiuso, appartato, e
anacronistico all’inizio del terzo decennio del novecento, sia in rapporto alle
rivoluzioni estetiche europee che avevano portato all’avvento della regia, sia
in rapporto alle istanze di ristrutturazione capitalistica del sistema di
produzione che vedevano impegnato in Italia lo stato fascista, le quali
puntavano alla razionalizzazione della distribuzione e alla creazione di un
nuovo mercato teatrale monopolistico, concentrato nei grandi centri urbani e
realizzato con il concorso dei grandi impresari privati.
Tale intervento si concretizzò, appunto all’inizio del secondo decennio
del fascismo, con l’affermazione di quella che è stata definita l’ “epoca delle
sovvenzioni e dell’attore funzionale”,
2
consistente in pratica nell’imporre un
sistema organizzativo totalitario e fortemente burocratizzato che investisse,
disciplinandone le sregolatezze e gli slanci impetuosi potenzialmente eversivi,
anche il lavoro dell’attore. Quest’ultimo, per effetto di tali provvedimenti, si
ritrovò nella condizione degenerata di funzionario statale, privato del
tradizionale sistema di apprendimento del mestiere a contatto dei maestri e
costretto, per effetto della riduzione degli ingaggi e delle occasioni lavorative,
ad adeguare le proprie prestazioni ai modelli “medi” prestabiliti.
Da questo panorama teatrale, in cui il fascismo operò da inibitore della
superstite genialità del teatro all’antica, sostenendo per giunta l’accoglimento
della figura del regista in termini ben lontani dal senso di rigenerazione delle
utopie di Appia, Craig, Mejerchol’d e di altri fondatori del teatro del primo
novecento, prende le mosse questo studio, giovandosi, come tema conduttore,
della figura chiave di Silvio d’Amico.
Impegnato sin dagli anni precedenti il primo conflitto mondiale in
un’opera di nobilitazione e di aggiornamento della scena italiana, egli ne
denunciò ripetutamente i vizi, dettati principalmente a suo avviso
dall’incultura dell’attore, dalle condizioni di lavoro arretrate a causa del
nomadismo e dalla mancanza di cura sia riguardo ai testi sia per gli
allestimenti, spesso ai limiti del decoro. Auspicando come via d’uscita un
2
Cfr., Claudio Meldolesi, “L’epoca delle sovvenzioni e dell’attore funzionale”, in AA.VV.,
Scene e figure del teatro italiano, Reggio Emilia, Tecnostampa, 1981, pp. 133-147.
9
radicale mutamento in direzione della riconquista della perduta dignità
artistica, d’Amico si rivolse idealmente alle esperienze contemporanee della
scena europea, in primo luogo a Jacques Copeau, proponendosi di assorbirne
gli insegnamenti più importanti. Tra questi ultimi, veri e propri punti fermi di
tutti i progetti da lui elaborati nel corso degli anni, quelli prioritari erano la
necessità di creare un istituto nazionale per l’arte drammatica, una sorta di
“stabile” ante litteram, gestito secondo criteri puramente artistici, e
l’indispensabile accoglimento della novità registica ai fini del desiderato
aggiornamento qualitativo dello spettacolo. Alla base di tali progetti - nella
consapevolezza, testimoniata nel testo chiave del critico, del “tramonto del
grande attore”,
3
e di conseguenza della fine del sistema di trasmissione delle
tecniche recitative dei figli d’arte – si trovava la necessità di risolvere il
problema della formazione degli uomini adatti ad un nuovo teatro, con
l’istituzione di una scuola moderna. A quest’ultima, l’Accademia Nazionale
d’Arte drammatica, creata a Roma nel ’35, diretta da d’Amico fino alla sua
morte avvenuta nel ‘55, e oggi a lui intitolata, sarà dedicata la parte più
consistente di questo studio.
Riguardo al profilo intellettuale del critico romano va sottolineata
l’inscindibilità dei suoi singoli atti creativi - tra i quali oltre all’Accademia
figurano certamente la Storia del teatro drammatico, il progetto
dell’Enciclopedia dello spettacolo e la fondazione di una rivista aperta alla
scena internazionale come Scenario - da un impulso all’azione da considerare
unitariamente, comprendente il d’Amico critico, lo studioso e l’organizzatore
impegnato in campo istituzionale, senza dimenticarne la sostanziale
“doppiezza”. Egli si pose infatti in una posizione di primo piano nel panorama
teatrale del fascismo proprio per la sua capacità di affiancare, alla propria
anima di fondatore della scena contemporanea, una personalità di grande
fervore, la cui autorevolezza divenne molto importante nei luoghi decisionali
del teatro nazionale. Questa capacità d’intervento si manifestò, come si vedrà,
in tutte le occasioni di apertura del grigio panorama teatrale degli anni trenta,
dagli spettacoli di prosa diretti dai grandi registi europei al Maggio Musicale
Fiorentino, al dibattito internazionale del Convegno Volta, fino alla creazione
della nuova scuola dei registi e degli interpreti
3
Cfr., Silvio d’Amico, Tramonto del grande attore, Firenze, La casa Usher, 1985.
10
Accanto a d’Amico, anzi, in posizione d’antefatto, troverà spazio,
quale portatore delle inquietudini e delle possibilità di rottura che precedettero
la normalizzazione di cui si è detto, Anton Giulio Bragaglia, con il suo “teatro
personale”: lo Sperimentale degli Indipendenti. Inaugurato nel ’23,
quest’ultimo fu il più vitale e longevo tra i cosiddetti teatri minimi, sorti e
rapidamente scomparsi in una stagione aperta alla proliferazione di modi di
fare teatro alternativi, d’avanguardia o dialettali, coesistenti per breve tempo
con le ultime propaggini della tradizione ottocentesca.
In tale contesto, in cui i giochi teatrali non erano ancora chiusi dalle
regolamentazioni statali del fascismo maturo, Bragaglia, privo di cultura
teatrale profonda ma dalla personalità vulcanica e geniale, poté praticare la
propria idea spettacolare originalissima. Le sue fantasiose realizzazioni, tra
suggestioni futuriste, eclettici richiami tanto a teatralità d’avanguardia di
marca europea, quanto all’antico della Commedia dell’arte, godettero persino
del patrocinio morale ed economico del capo del governo. La minuscola platea
sotterranea, ricavata ristrutturando le antiche terme romane di Settimio Severo,
frequentata quasi esclusivamente da una élite di intellettuali, fu il luogo di
diffusione dei primi impulsi registici nel nostro teatro grazie all’attività caotica
e multiforme del direttore. Attratto da ogni aspetto visivo, plastico e dinamico,
delle arti figurative, e della letteratura, anche quella non esplicitamente
teatrale, egli perseguì nelle sue realizzazioni l’idea del dominio completo dei
diversi mezzi spettacolari, secondo gli intendimenti espressi a livello teorico in
occasione della sua vastissima e disordinata attività di studioso.
4
Pur in modo
a volte estremamente improvvisato, problema giustificabile almeno in parte
dal ridottissimo spazio e dalla scarsità di fondi a disposizione e difetto sempre
rimproverato a Bragaglia in sede critica, sul suo palcoscenico transitarono,
sotto forma delle sue messinscene, testi di autori allora pochissimo praticati,
come Strindberg, o addirittura ignoti allo stagnante e involuto ambiente
teatrale italiano, come Jarry o Apollinaire.
Riportando al centro del discorso Silvio d’Amico, cui si è assegnato un
ruolo preminente nel secondo capitolo, Verticalizzazione teatrale della metà
degli anni trenta, si tenterà di non enfatizzarne le prese di posizione
dogmatiche in difesa dell’autore e del testo né il ruolo di strenuo oppositore
della concezione teatrale di Bragaglia, con cui ingaggiò una lunga polemica,
4
Cfr., Anton Giulio Bragaglia, Del Teatro Teatrale ossia del Teatro, Roma, Tiber, 1929.
11
puntando piuttosto su una lettura che ne conservi in qualche modo la suddetta
complessità e “duplicità”.
Al di là della distanza che separava due tra gli uomini di teatro più
rappresentativi di quegli anni, principalmente di ordine etico in rapporto alla
diversa considerazione sul ruolo del teatro stesso nella società contemporanea,
ne va osservata la sostanziale complementarità, come ha giustamente
sottolineato Ruggero Jacobbi, nell’impegno sempre perseguito da entrambi per
il rinnovamento della nostra scena.
La rivolta del teatro italiano contro il divismo, la
commedia borghese, l’importazione indiscriminata di
testi francesi, le pessime traduzioni, le brutte
scenografie e le regie assenti, nasce in due modi, come
sogno del Teatro Totale (e questo s’incarnerà in
Bragaglia) e come esigenza di primato del fatto
letterario (che prenderà corpo in d’Amico). In fondo
sono le due facce d’una stessa medaglia, e nessuno lo
ha mai saputo meglio dei due interessati. Mai due
avversari hanno capito così a fondo di essere
complementari in una necessità storica.
5
Seguendo la presenza, palese o talvolta “occulta” del critico romano in
ogni importante manifestazione di apertura degli orizzonti teatrali nazionali, a
fianco di Jacques Copeau, impegnato a Firenze nella regia della
Rappresentazione di Santa Uliva nel ’32 o nel ruolo non ufficiale di promotore
e coordinatore, al di là della carica onoraria di presidente assegnata a Luigi
Pirandello, del Convegno Volta sul teatro drammatico tenuto a Roma nel ’34,
in cui d’Amico invocò il sostegno disinteressato dello Stato in favore del
teatro, si tenterà di dar conto del suo ruolo di riformatore autentico. In
particolare andrà tenuto in considerazione come in d’Amico convivesse,
accanto all’impulso e all’apertura verso il nuovo, in particolare, come detto,
per l’accoglimento della regia in funzione della corretta interpretazione e
traduzione scenica del testo d’autore, anche l’estremo interesse, e la
rivalutazione, della grande tradizione attorica nazionale. Quest’ultima era
5
Ruggero Jacobbi, Teatro da ieri a domani, La Nuova Italia, Firenze, 1972, p. 101.
12
ancora viva negli anni in questione grazie ad attori artisti, quali Benassi,
Ruggeri, le sorelle Gramatica, ed agli attori popolari, tra cui i De Filippo,
Musco e Petrolini, discendenti per via diretta dall’arte della Duse,
6
e riscoperti
dal critico nel Tramonto del grande attore.
Tale “duplicità”, irriconoscibile al vaglio dei soli progetti istituzionali
ed “ufficiali”, quelli con le maiuscole strategicamente disposte sulle parole-
chiave della riforma, Autore, Testo, Parola, Poeta, si mantenne viva e
operante anche in occasione della sua più compiuta realizzazione: l’Accademia
Nazionale d’Arte drammatica.
Coronamento, si può dire, di una battaglia ventennale condotta nelle
sedi più svariate, giornalistiche, ministeriali ed istituzionali, la nuova scuola
degli attori e dei registi sostituì l’obsoleto istituto intitolato a Eleonora Duse,
attivo a Roma presso il Conservatorio di Santa Cecilia. L’operazione venne
condotta dall’interno da d’Amico, il quale dal ’23 ne occupava la cattedra più
“moderna”, quella di Storia del Teatro. Ponendosi oltre la semplice cura della
componente declamatoria dell’arte dell’attore, l’Accademia si basava su un
programma pedagogico completo, col preciso impegno di fornire all’allievo
un’adeguata preparazione culturale, senza peraltro trascurarne l’addestramento
fisico. Notevole era il salto in avanti, frutto dell’influenza delle esperienze
compiute in Francia da Copeau con i propri giovani allievi, rispetto alle venti
ore settimanali del vecchio conservatorio: proponendosi come scuola a tempo
pieno, l’Accademia esigeva dall’aspirante attore capace di superare le severe
selezioni, grande dedizione e disciplina, offrendo peraltro in cambio
sostanziose borse di studio. L’autentica novità per il panorama teatrale italiano
era costituita dal corso per allievi registi. A differenza del giovane attore cui,
accanto alla necessaria preparazione di base, dominata dal fondamentale
insegnamento della recitazione, si domandava un’adeguata presenza fisica, il
futuro regista, pur partecipando attivamente agli stessi corsi, differenziava
sensibilmente il proprio curriculum scolastico in direzione di una superiore
preparazione culturale, soprattutto nel campo della Storia del Teatro, della
Scenografia ed in quello specifico dell’insegnamento della regia.
A questa “invenzione”, fortunata e duratura, di Silvio d’Amico, sarà
dedicato interamente il terzo capitolo, con il quale si cercherà di comprendere
6
Cfr., Claudio Meldolesi, “Questo strano teatro degli attori artisti nel tempo della regia, che ha
rigenerato l’avanguardia storica insieme al popolare”, Teatro e Storia, a. XI, 1996, pp. 9-23.
13
il significato dell’intreccio, da lui concepito, tra il portatore della moderna
cultura scenica, il regista – nelle intenzioni Jacques Copeau - ed i portatori
della continuità, i Tumiati, Gramatica, Capodaglio ecc., chiamati alle cattedre
di recitazione della scuola. Si tenterà inoltre, ripercorrendo brevemente le
tappe della concezione pedagogica del presidente, di spiegarne il progetto, gli
intendimenti didattici ed il ruolo sostanzialmente prioritario assegnato alla
formazione dei registi. Una parte consistente del capitolo sarà dedicata proprio
alla diversità delle lezioni di regia impartite agli allievi, tra lo psicologismo
stanislavskiano di Tatiana Pavlova, la praticità e i valori dell’esperienza di
Guido Salvini e l’ascetismo rigoroso del giovane Orazio Costa. Una diversità
evidentemente non casuale, ma anzi coltivata con intransigenza da d’Amico,
sostenitore di un’idea aperta dell’istituto, non costretta tra le rigide corsie di un
solo metodo ma, almeno nelle intenzioni, luogo didattico del pluralismo
rappresentativo a venire.
Si porrà inoltre in evidenza il guardare lontano del fondatore
dell’Accademia, il suo portare avanti i suoi allievi facendone dei soggetti di
grande rilievo per il teatro del dopoguerra: caratteristica rilevante della sua
figura, pur coesistente con le inevitabili contraddizioni, con gli aspetti insoluti
della propria riflessione, e con i compromessi cui dovette cedere e per i quali
fu puntualmente criticato. Tutto ciò dovrebbe emergere tanto dallo spazio
dedicato alle pratiche esperienze teatrali di ragazzi allora sconosciuti, a volte
“ragazzacci”, quali Costa, Brissoni, Fabro, Giannini, Pandolfi, Gassman e
altri, nel corso di celebri saggi di regia o in tournée con la Compagnia
dell’Accademia, quanto dalla diretta testimonianza di chi vi partecipò in prima
persona come Luigi Squarzina e di quella, altrettanto insostituibile di
Alessandro d’Amico, riportate entrambe in Appendice.
La breve parte conclusiva, Riformulazione del panorama teatrale al
tramonto del fascismo vorrà essere uno sguardo sul particolare intreccio tra
fascismo e antifascismo, tra disponibilità all’apprendimento del teatro secondo
la visione spiritualista, dominante nel periodo, ed emergere di energie
giovanili poco assimilabili, all’interno dei luoghi pedagogici fondamentali dei
primi anni quaranta, l’Accademia, il Teatro delle Arti e le organizzazioni
universitarie dei Teatriguf. In questi ultimi, va ricordato, agirono direttamente,
o semplicemente collaborarono, sotto l’impulso al rinnovamento di maestri
come Silvio d’Amico e Anton Giulio Bragaglia, tutti gli uomini di teatro, tra
14
cui Giorgio Strehler e Paolo Grassi, che diverranno poi decisivi nella scena
italiana del dopoguerra.
* * *
Questo lavoro, nato da stimoli e suggestioni ricevute dalla frequenza
dei corsi di Drammaturgia e dal desiderio di approfondire la mia conoscenza
di un periodo importante della storia del nostro teatro è debitore
dell’incoraggiamento e delle preziosissime informazioni che con grande
cortesia Alessandro d’Amico mi ha concesso e per cui lo ringrazio
calorosamente; la parte riguardante l’Accademia d’Arte drammatica è basata
principalmente sull’utilissima intervista che con generosa disponibilità Luigi
Squarzina mi ha rilasciato e a cui va il mio sincero riconoscimento. Per
l’attenzione con cui ha seguito il lavoro, aiutandomi a sciogliere molti
interrogativi e a correggere vari errori interpretativi, non posso esimermi dal
ringraziare anche il primo lettore dei miei scritti. Vorrei inoltre citare, per il
sostegno morale datomi durante i turni di lavoro, e la comprensione per i miei
sforzi di studente-lavoratore, i colleghi del reparto “SBR Reazione-Recupero”
del petrolchimico Enichem di Ravenna. Infine, per la pazienza e il conforto
dimostratomi, la mia gratitudine va a Maria Focaccia, spettatrice di “sabati
teatrali”, ed alla dolce Samanta Bernabei.
Dedico il lavoro a Lelio, mio padre.
15
CAPITOLO PRIMO
Antefatto: Anton Giulio Bragaglia e il Teatro degli Indipendenti
1 L’idea teatrale di Bragaglia, tra eclettismo e avanguardia
Il programma attuale del teatro degli Indipendenti
comprende opere di prosa e azioni musicali (pantomime, balletti,
danze) realizzate con amorosa cura e con criteri moderni. Accanto
alle opere più ardite, non abbiamo paura di mettere le cose più
tradizionali, convinti che la novità in arte sia non soltanto nel fare
del nuovo, ma nel realizzare in modo nuovo. Il criterio che
presiede presso di noi, nella composizione di programmi e nella
scelta dei lavori, è la varietà e la brevità, ritenendo che l’uno e
l’altra corrispondano agli scopi del nostro teatro. Il quale resta, nel
senso vero della parola, con qualsiasi possibilità scenica e con i
mezzi più moderni, vero teatro sperimentale[…].
7
Con questa efficace e sintetica presentazione, Anton Giulio Bragaglia
8
illustrava alla stampa la stagione inaugurale, nel gennaio 1923, del teatro da
lui fondato, sotto il patronato del sottosegretariato di Stato alle Belle Arti, a
Roma: il Teatro Sperimentale degli Indipendenti. Questo inquieto e
originalissimo organismo stabile, sorto in un periodo prolifico di poco
7
Anton Giulio Bragaglia, “Il teatro degli Indipendenti di Bragaglia”, Il nuovo Paese, 16
gennaio 1923, citato in Alberto Cesare Alberti, Sandra Bevere, Paola Di Giulio, Il teatro
sperimentale degli Indipendenti (1923-1936), Roma, Bulzoni, 1984, p. 71.
8
Anton Giulio Bragaglia, (Frosinone 1890 – Roma 1960), regista teatrale e cinematografico e
saggista. Partecipò al movimento futurista e alla divulgazione delle correnti avanguardiste per
le arti plastiche. Nel 1916 diresse il film d’avanguardia Thais; fondò nel 1918 a Roma la Casa
d’Arte Bragaglia e nel 1922, sempre a Roma, nei sotterranei di palazzo Tittoni in via
Avignonesi, il Teatro degli Indipendenti. Terminata l’esperienza di questo piccolissimo
sperimentale nel 1931, Bragaglia proseguì l’attività registica con una propria compagnia in
varie tournée. Nel 1937 ottenne la direzione del nuovo Teatro delle Arti, creato presso i locali
della Confederazione fascista professionisti e artisti, che fu attivo fino al 1943. Nel dopoguerra
diresse il Piccolo Teatro di Venezia e realizzò sporadiche regie d’eccezione.
16
fortunati teatri “altri”, sia minimi che d’arte,
9
merita una attenta
considerazione per il lavoro di sprovincializzazione della scena e dei repertori
che in esso si svolse.
L’esigenza di “aggiornare il nostro teatro sulle più interessanti e più
audaci novità dei movimenti culturali d’avanguardia europei”,
10
perseguita
con instancabile energia dal régisseur sin dai primi anni Venti, pone il suo
Sperimentale nella posizione di antefatto imprescindibile all’analisi delle
aperture teatrali italiane che matureranno nel secondo decennio del fascismo.
Bragaglia, fascista della prima ora, proveniva dal movimento
futurista,
11
portatore dei primi impulsi registici nel teatro italiano.
12
Per la
realizzazione del proprio “teatro personale”, in virtù del proclamato impegno a
dare alla Rivoluzione fascista un correlativo scenico adeguato, godette di vari
aiuti da parte del regime.
13
Ma tale impegno nutriva in lui una speranza
illusoria; egli era convinto del fatto “che Mussolini fosse consapevole che il
vero teatro fascista poteva nascere solo dal teatro d’eccezione e non da quello
commerciale e che a Mussolini dunque spettasse di offrirgli la possibilità di
creare il teatro originale che occorreva”.
14
In realtà, “la piaggeria al dittatore,
caricata al punto da assumere una coloritura quasi canzonatoria, se procacciò
l’offerta di qualche aiuto economico, non riuscì a far mutare la politica dello
9
Tra gli altri erano attivi nel periodo il Piccolo teatro del Convegno (Milano, 1924, dir. Enzo
Ferrieri), la Piccola Canobbiana (Milano, 1924, dir. G. Bevilacqua – E.Cavacchioli), La Sala
Azzurra (Milano, 1924-’25, dir. G. Tumiati). Cfr., Federico Doglio, “Dai teatri minimi ai teatri
d’avanguardia”, in Il teatro pubblico in Italia, Roma, Bulzoni, 1976, pp.84-91.
10
Vito Pandolfi, Regia e registi del teatro moderno, Bologna, Cappelli, 1961, p.213.
11
“E’ legittimo sottolineare l’influenza esercitata su A.G.B. già dal futurista Manifesto del
Teatro di Varietà del 1913, particolarmente per ciò che riguarda il superamento della veristica
e fotografica riproduzione della vita, degli analitici suffumigi, dell’accademismo del teatro
routinier, ai quali si contrappone il gusto di ‘giocare’ primitivamente il teatro, l’affrancamento
dalla soggezione alla logica assoluta e dispotica in favore dell’imprevisto, della sorpresa quale
molla di ogni azione umana e quindi assai più ammissibile in una realtà teatrale”. Alberto
Cesare Alberti, Poetica teatrale e bibliografia di Anton Giulio Bragaglia, Roma, Bulzoni,
1978, p.17.
12
“Gli impulsi registici del periodo in Italia trovarono spazio […] fuori dai recinti del teatro,
nelle iniziative dei pittori e degli scrittori influenzati dal futurismo”. Claudio Meldolesi,
Fondamenti del teatro italiano, la generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984, p.24.
13
Bragaglia citò in proposito le sovvenzioni ufficiali ricevute per l’attività degli Indipendenti
da parte del Ministero dell’Industria, di quello dell’Educazione Nazionale, della Reale
Accademia, e infine del Duce in persona. Cfr., Anton Giulio Bragaglia, Il segreto di
Tabarrino, Firenze, Vallecchi, 1933, p.172.
14
Alberto Cesare Alberti, Il teatro nel fascismo. Pirandello e Bragaglia. Roma, Bulzoni,
1974, pp. XXI-XXII.
17
stato fascista, che si era ormai lasciato alle spalle tutte le velleità
rivoluzionarie”.
15
Al di là delle gravi difficoltà finanziarie cui dovette far fronte e dei
subalterni, ripetuti tentativi di Bragaglia di ottenere il patrocinio statale, del
suo teatrino-laboratorio, resta l’eccezionale importanza della rottura
d’avanguardia perseguita agli Indipendenti, in netto contrasto rispetto alla
situazione teatrale contemporanea. La scena nazionale, salvo rarissime
eccezioni, rimaneva ferma, a livello culturale e per modalità produttive
(repertori, tecnica recitativa, organizzazione del lavoro, allestimenti scenici) a
quel Teatro all’antica italiana di inizio secolo rievocato con toni affettuosi da
Sergio Tofano nell’omonimo volume.
16
Queste eccezioni, contemporanee
all’avvento della regia, sono individuabili lungo la linea originata da Eleonora
Duse, definita da Claudio Meldolesi in un suo saggio, degli attori artisti.
17
La
tradizione del Grande attore si esaurì proprio con la Duse,
18
la quale affermò,
facendosi carico dello spettacolo e liberando la propria creatività sulla scena,
la centralità dell’interprete oltre la dimensione della semplice trasposizione
scenica di un testo, dando vita, a partire dagli anni ’20, a quella che è stata
definita una “catena” di attori artisti.
19
Tornando a Bragaglia ed al suo teatro, va notato che la sala dello
Sperimentale, ricavata nei sotterranei dei palazzi romani Tittoni e Vassalli di
15
Gian Renzo Morteo, Idea della regia teatrale in Italia dal 1920 al 1940. Torino,
Giappichelli, 1974, p.98.
16
Cfr., Sergio Tofano, Il teatro all’antica italiana e altri scritti di teatro (a cura di Alessandro
Tinterri), cit. L’organizzazione del lavoro teatrale di inizio secolo è efficacemente descritta nel
paragrafo “Quaresime”, pp.37-44.
17
Cfr., Claudio Meldolesi, “Questo strano teatro creato dagli attori artisti nel tempo della
regia, che ha rigenerato l’avanguardia storica insieme al popolare”, cit., pp. 9-23.
18
Eleonora Duse, (Vigevano, 1858, Pittsburgh, 1924), attrice figlia d’arte, salì sul
palcoscenico a soli quattro anni. Dopo i primi successi, si impose come la più grande artista
italiana del suo tempo, intraprendendo numerose tournée all’estero. Si preoccupò di rafforzare
con la cultura e lo studio le doti innate dell’istinto attorico, frequentando repertori di alto
livello artistico, come Ibsen, e collaborando con artisti come d’Annunzio e Craig. Morì
durante una lunga tournée negli stati Uniti.
19
“In tal senso si può istituire una continuità post Duse, ma una continuità di maestri […]. E
che si sviluppasse dagli anni ’20 una ‘catena’ di attori artisti (o ad essi vicini) segnata dal
richiamo alla Duse, bastano a confermarlo trenta nomi: Petrolini, Musco, le Gramatica,
Ruggeri, Moissi, Benassi, Totò, i tre De Filippo, con Eduardo in veste di rifondatore, Tofano,
Randone, i tre Gobbi, Gassman, Bene, Peragallo e De Berardinis, Cecchi, Lombardi, nonché
le coppie Ricci-Magni, Morelli-Stoppa, Tieri-Loiodice, Fo-Rame”. Cfr., Claudio Meldolesi,
“Questo strano teatro creato dagli attori artisti…”, cit., p. 15.
18
via Avignonesi,
20
aveva una capienza molto scarsa, 200 posti a sedere e altri
in piedi sulle balconate, e disponeva di un angusto palcoscenico, certamente
inadatto alla messa in atto efficace dell’idea di Teatro Teatrale del régisseur.
21
Essa presentava inoltre l’inconveniente strutturale della presenza di una
colonna portante al centro della platea, oggetto tra l’altro di ironiche lamentele
da parte di cronisti d’eccezione, in quanto oscurava in modo singolare la
visuale del pubblico. Così si esprimeva Marco Praga:
22
Descrivere la sala del Teatro degli Indipendenti non è
cosa da poco. Non ho mai visto nulla di più strano, di più bizzarro,
neppur quando, tanti anni or sono giravo la sera per le boites
parigine […] Qui, intanto, nel teatrino romano, c’è una vera
trovata; qualcosa a cui non ha mai pensato neppure il più
scapigliato e fantasioso degli impresari o degli artisti di Lutezia.
Pensate; la sala, non vasta, press’a poco quadrangolare, ha nel suo
bel mezzo un enorme pilastro, quadrangolare anch’esso, che
sorregge la volta. Tra il palcoscenico e il pilastro stanno tre file di
poltroncine di legno nero; e gli spettatori che riescono a sedersi in
quelle la scena la vedono in pieno; ma poi, gli altri; che stanno ai
lati del pilastro, o dietro di esso, della scena non vedono più che
una metà, od un terzo, od uno spicchio, a seconda della poltroncina
su cui sono seduti […] Ebbene: non è una trovata? Perché, vorrete
ammetterlo, per la maggioranza degli spettatori – tutti quelli che
20
I lavori di trasformazione dei sotterranei portarono alla riscoperta delle antiche terme
pubbliche di Settimio Severo. I lavori di architettura furono svolti da Virgilio Marchi (poi
scenotecnico degli Indipendenti); i futuristi Balla, Depero e Prampolini decorarono le aule
absidate delle antiche terme. Cfr., Alberto Cesare Alberti; Sandra Bevere; Paola Di Giulio, Il
teatro sperimentale degli Indipendenti (1923-1936), cit. p.18.
21
Bragaglia rivendicava comunque il diritto di sperimentare, anche al di là delle possibilità
logistiche: “La teatralità si può benissimo farla anche in uno stanzino da bagno. Se poi la
cantina avesse, come la mia, m. 2 di sottopalco aperto, m. 8 di luce scenica, m.3 di soffitta
uguale 13 metri, allora vi si fa agevolmente anche la teatralità scenoplastica, perfino quella. Io,
infatti, ce la fo”. Cfr., Il teatro della Rivoluzione, Roma, Tiber, 1929, p.308.
22
Sullo stesso problema cfr. anche l’opinione di Silvio D’Amico, in “Teatro degli
Indipendenti”, in Cronache del Teatro (a cura di E.F. Palmieri e Sandro D’Amico), Bari,
Laterza, 1963-64, vol. I, pp. 379-383.
19
non riescono ad acchiappare una sedia nelle prime tre file – lo
spettacolo è e sarà sempre pieno di incognite e di sorprese.
23
Riguardo al pubblico, va detto che, per la maggior parte, era composto
da “addetti ai lavori” (autori, amatori, critici, letterati), una élite desiderosa
senza dubbio di differenziarsi dagli spettatori dei grandi teatri, ben disposta
verso gli sperimentalismi ed aperta ad una teatralità nuova.
“Gli applausi agli Indipendenti han luogo ad ogni levata di sipario, il
pubblico di via Avignonesi, il più intelligente del mondo, chiama a gran voce
lo scenografo […] chiede il bis delle scene e delle luci e se ne sta con le mani
in tasca ad ogni fin d’atto: l’opposto insomma di quanto avviene nei teatri
grossi”.
24
Questo atteggiamento, segnalato dal drammaturgo indipendente
Antonio Aniante in occasione della rappresentazione di Ingranaggio di F.E.
Faragoh (1929), rivelava nel suo gusto del paradosso uno dei fondamenti della
poetica teatrale di Bragaglia - spiegandone, se vogliamo, anche il rifiuto da
parte di Silvio D’Amico
25
- l’idea guida di Teatro Teatrale. Questa, espressa
principalmente nel volume Del Teatro Teatrale, ossia del Teatro (1927),
venne poi riproposta in innumerevoli altri scritti del “corago”.
26
Mutuata da Fuchs
27
e utilizzata in originali accezioni da Evreinov
28
e
da Baty,
29
questa era stata ripresa dal teatrante italiano in risposta polemica al
“decadimento della scena di prosa, causato dalla superbia dei letterati, i quali
han preteso che a teatro la loro parola è tutto”
30
. Egli, di contro, affermava:
“L’interesse del dramma contenuto nel testo dovrà vivere largamente
23
Marco Praga, Cronache teatrali – 1923, Milano, 1924, pp. 23-24, citato in Gian Renzo
Morteo, Idea della regia teatrale in Italia dal 1920 al 1940, cit. p.97 (nota).
24
Antonio Aniante, citato in A.C. Alberti; S. Bevere; P. Di Giulio, Il teatro sperimentale degli
Indipendenti (1923-1936), cit. p.436.
25
Per il giudizio, fortemente critico, di D’Amico sugli spettacoli degli Indipendenti, cfr. “Il
teatrino di Bragaglia” in Tramonto del grande attore, cit., pp.106-110.
26
Tra i tanti, cfr. Il segreto di Tabarrino,, cit. (“Tavola sinottica della poesia da teatro” pp.81-
90; “Cos’è il vero ‘teatro teatrale’”, pp.197-199; “Teatrare”, pp.207-212).
27
Georg Fuchs (1868-1949),uomo di teatro tedesco, fautore in testi come Die Revolution des
Theaters di una “riteatralizzazione del teatro” da attuarsi con il rifiuto dello spazio scenico
tradizionale, nel nome di una comunicazione più diretta tra attore e collettività. (Cfr. L. Tinti,
Georg Fuchs e la rivoluzione del teatro, Roma, Bulzoni, 1980).
28
Nikolaj Nikolaevic Evrejnov (1879-1953), regista e drammaturgo russo, contrario al
naturalismo scenico e favorevole alla “teatralità”.
29
Gaston Baty (1885-1952) regista francese in lotta, per mezzo del grande rilievo dato a
recitazione, musica colore, ritmo e uso della luce, contro il predominio della parola a teatro.
30
Anton Giulio Bragaglia, Del Teatro Teatrale, ossia del Teatro, cit., p.144.
20
assecondato (dunque teatralmente perfezionato) dalla realizzazione scenica”.
31
Quest’ultima assumeva pertanto un’importanza primaria: “La scenotecnica è
diventata per noi la vera poetica teatrale del tempo, cioè la essenza stessa della
rivoluzione scenica. Dunque la elettricità, la plastica e la meccanica
[rappresentano] una forza di questa poetica”.
32
Di qui, infine, l’interesse del
regista per la macchina teatrale, definita “decima musa dinamica”.
L’attenzione al visivo, alla meccanica del palcoscenico per favorire i
cambi di scena, all’illuminotecnica creatrice di atmosfere, all’azione e al
movimento, punti essenziali del teatrale in Bragaglia prestarono spesso il
fianco ai risentimenti di una critica, come quella italiana, imbevuta di
idealismo e diffidente verso tutto ciò che tentava di “liberare”, in modo anche
eversivo come il futurismo, il teatro dalla letteratura. Egli tentò più volte di
chiarire – in risposta alle manifestazioni di rifiuto dei suoi esperimenti da parte
di vari recensori, di idee teatrali conservatrici – come la sua concezione di
“teatro–cocktail” non precludesse la essenziale presenza dell’autore del testo.
Quest’ultimo però, despota unico del teatro per altri innovatori come Silvio
d’Amico, in Bragaglia avrebbe occupato un posto meno esclusivo:
Anche noi ‘al Teatro chiediamo poesia’ come D’Amico.
Ma riteniamo che la poesia, a teatro, non sia solo poesia di parole,
ma si possa ottenere pure con la luce elettrica o col buio, col
presentare a momento opportuno silenziosamente una immagine di
lanterna, col far salire un’ascensore evocando un luogo
simultaneo: tutti mezzi, questi, di vera poesia teatrale. Poesia di
teatro e non poesia a teatro!
33
La trinità o il tripode che sosteneva l’arte drammatica, appurato che il
drammaturgo non è l’autore e che “il poeta e la sua opera si devono
contentare: cioè si devono adattare”,
34
era dunque ciò che garantiva
l’attuazione del principio base del teatro teatrale: “al teatro deve prevalere il
31
Cfr., Id., Sottopalco, Osimo, Barulli, 1937, p.16.
32
Ibid., p.12
33
Anton Giulio Bragaglia, Il segreto di Tabarrino, cit. pp. 148-149.
34
Id., Del Teatro Teatrale ossia del Teatro, cit. p.168.
21
teatro”.
35
Essa era composta dal fornitore delle parole, dall’attore e dallo
scenotecnico. Riguardo al significato del termine adattare, riferito al
comportamento da tenere nei riguardi dei testi drammatici da inscenare, il
nostro spiegava come il suo bersaglio non fosse in alcun modo la letteratura a
teatro, quanto piuttosto l’inaridimento di tante rappresentazioni noiose e prive
di adeguata vivacità scenica: “Il ripristinamento dei caratteri teatrali all’arte
drammatica non è soffocazione del dramma ma pura esaltazione; né è
diminuizione del testo, se giustamente il testo sarà all’uso teatrale, com’è
sempre quello di Shakespeare”.
36
Nel caso quindi che il testo in questione non
avesse sufficienti qualità teatrali, ad esempio i romanzi come Don Chisciotte o
i testi laboratoriali dei giovani drammaturghi, il regista si riservava il compito
di intervenire personalmente, con i mezzi suoi peculiari, per fornire appunto
una adeguata atmosfera teatrale allo spettacolo.
E’ importante notare come Bragaglia conferisse pari dignità ai due
momenti fondanti della rappresentazione, quello spirituale e quello materiale,
cosa tutt’altro che scontata nel clima culturale del tempo, teso idealisticamente
alla “demonizzazione del momento visualizzante”
37
e a bloccare oltreconfine
le istanze registiche europee più avanzate. Il pratico lavoro di palcoscenico
era, ad esempio, disprezzato in questo modo da Virgilio Lilli nel 1934:
Una volta il Teatro si faceva cogli esametri e coi cori,
oggi si fa colle bullette, la secchia della vernice e la colla cervione.
Il mestiere di piantar chiodi, di pittar cartoni, d’incollar pezzi di
legno, d’accendere e spegnere lampadine elettriche, di vestire e
spogliare attori, di scopare il tavolato della ribalta, di incollar
mobili […] è diventato un’arte, una dottrina, una filosofia, una
religione. […] Al manovale di palcoscenico dalla parannanza di
cuoio sulla pancia e dal martello in pugno è passato un lampo negli
occhi, egli è saltato addosso all’autore e l’ha barbaramente
35
Id., Sottopalco, cit. p.38.
36
Ibid., p. 16.
37
Cfr., Paolo Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Roma- Bari, Laterza, 1990,
pp. 3-42.