2
come termine di confronto, per determinare se vi sia stata o
meno una riforma in peggio, la giustizia della pronunzia.
(2)
Nel
momento in cui si assume, invece, come termine di raffronto,
l’interesse delle parti, ogni riforma della precedente sentenza
“concreterà necessariamente tanto una riforma in peius quanto
una riforma in melius, peggiorando la situazione di una parte e
migliorando quella dell’altra.”
(3)
Ed è in quest’ultima accezio-
ne che il divieto è stato recepito nel processo civile e penale.
(4)
Specificamente, in quest’ultimo, l’interesse che viene in
considerazione è quello dell’imputato, traducendosi il princi-
pio in esame nel “divieto di pronunziare sul medesimo oggetto
una nuova sentenza più sfavorevole all’imputato”.
(5)
(2)
DELITALA, Il divieto della reformatio in peius nel processo penale,
Milano 1927, ora in Diritto processuale penale. Raccolta degli scritti, III,
Milano, 1976, 13
(3)
DELITALA, Il divieto, cit., 14.
(4)
Il divieto di reformatio in peius vige anche nel processo civile, ove
non abbisogna di espressa previsione legislativa, perché discende implici-
tamente dalla circostanza che in esso il giudice “può svincolarsi
dall’alternativa tra l’esistenza del contenuto dell’allegazione d’appello e
la conferma della sentenza di primo grado unicamente se a ciò lo solleciti
l’altra parte”. MENNA, Il giudizio di appello, Napoli, 1995, 182 s..
In altri termini il divieto de quo discende implicitamente dal pieno e-
splicarsi del principio dispositivo nel processo civile.
(5)
DEL POZZO, L’appello nel processo penale, Torino, 1957, 218
3
Il divieto de quo non è di certo nuovo nel nostro processo
penale, in effetti, era già previsto nel primo codice di procedu-
ra penale dell’Italia unificata, quello del 1865, per poi essere
accolto, nonostante le critiche, anche nei codici del 1913 e del
1930.
(6)
La permanenza dell’istituto nella disciplina processuale
non ha formato oggetto di intenso dibattito, sin dalla prima
legge delega per l’emanazione di un nuovo codice di procedu-
ra penale, (legge 3 aprile 1974 n. 108) essendosi concentrati
gli sforzi riformatori nella riforma del giudizio di primo grado,
mentre, in materia di impugnazioni, è stato mantenuto sostan-
(6)
In particolare fu abbastanza travagliato il percorso seguito
dall’istituto prima di approdare all’art. 515, 4° co., c.p.p. 1930, dapprima,
in effetti, si era orientati per l’esclusione del divieto. Illuminanti sono al
riguardo le affermazioni del Guardasigilli dell’epoca, che addirittura rite-
neva opportuno la soppressione dell’istituto dell’appello. L’impopolarità
di una simile scelta legislativa indusse, tuttavia, a mantenere, nel progetto
preliminare del 1927, il secondo grado di giudizio, tentando, però di limi-
tarne l’utilizzo, consentendo la reformatio in peius.
La scelta fu, poi, abbandonata nel progetto definitivo, perché l’istituto
giuridico che si era posto a base della possibilità della reformatio in
peius: il carattere pienamente devolutivo dell’appello, trasformava il giu-
dizio di primo grado ”in una specie di procedimento preparatorio, dupli-
cato superfluo del procedimento d’istruzione”, ma al fine di introdurre
comunque un freno agli appelli “temerari” si introdusse l’istituto
dell’appello incidentale, che se proposto dal pubblico ministero, esclude-
va l’operatività del divieto. (v. PISANI, il divieto della “reformatio in
peius” nel processo penale italiano, Milano 1967, 6 s.).
4
zialmente inalterato l’impianto di fondo del codice Rocco, li-
mitandosi il legislatore ad una razionalizzazione e semplifica-
zione della disciplina vigente.
In sede di lavori preparatori della legge delega del 1987
non mancarono, tuttavia, le critiche al suo mantenimento nel
nuovo impianto processuale, che si concretarono in un emen-
damento soppressivo della regola, presentato da chi riteneva
che la sua abolizione potesse snellire i procedimenti, sul pre-
supposto che la previsione del divieto di reformatio in peius
avrebbe incoraggiato impugnazioni meramente dilatorie, volte
soltanto a dilazionare l’esecutività del provvedimento
nell’attesa della prescrizione del reato o di un’amnistia.
(7)
L’emendamento fu osteggiato da altri, che criticò “la pu-
nizione dell’imputato per motivi processuali. Visto che egli ha
osato appellarsi gli si aumenti la pena. Il pubblico ministero
non ha chiesto l’aumento della pena, ma visto che l’imputato si
(7)
Cfr. Camera dei Deputati, Assemblea, IX Legislatura, seduta del 1-6-
1984, n. 144, intervento dell’on. Cifarelli, in CONSO-GREVI-NEPPI
MODONA, Il nuovo codice di procedura penale – Dalle leggi delega ai
decreti delegati, III, Padova, 1990, 728s.
5
è appellato lo si punisce perché si è appellato per far valere la
sua innocenza”.
(8)
Risultato del dibattito fu la riconferma dell’istituto (art. 2,
dir. n. 92, legge delega del 1987). Direttiva che si è tradotta
nell’art. 597, 3° e 4° co., c.p.p.
L’art. 597, 3° co., c.p.p., in particolare, lo specifica nel
senso del divieto di irrogare una pena più grave per specie o
quantità, di applicare una misura di sicurezza nuova o più gra-
ve, di prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole
di quella enunciata nella sentenza appellata, di revocare bene-
fici, ferma restando la facoltà di dare al fatto una definizione
giuridica più grave, purché non venga superata la competenza
del giudice di primo grado.
Il 4° comma dell’art. 597 sancisce che se l’appello
dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche
se unificati dalla continuazione, viene accolto, la pena com-
plessiva irrogata è corrispondentemente diminuita.
(8)
Camera dei Deputati, Assemblea, IX Legislatura, Seduta del 12-7-
1984, n.161, on. Mellini in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, Il nuovo co-
dice, cit., III, 730.
6
Questa disposizione è particolarmente significativa nel
senso di un rafforzamento dell’istituto, poiché supera
l’indirizzo interpretativo invalso nella vigenza del precedente
codice, secondo cui il giudice poteva, aumentando in secondo
grado la pena base, confermare la pena complessiva inflitta in
primo grado nonostante il riconoscimento di circostanze atte-
nuanti o l’eliminazione di circostanze aggravanti o reati con
concorrenti.
Nel corso della trattazione procederò ad analizzare, dap-
prima, il controverso problema del fondamento giuridico del
divieto de quo, nel secondo capitolo il problema della sua na-
tura e conseguentemente del suo ambito d’applicazione; poi
passerò ad esaminare più specificamente la disciplina del di-
vieto nel processo penale e in particolare i suoi presupposti di
operatività ed il suo contenuto.
CAPITOLO PRIMO
IL FONDAMENTO DEL DIVIETO DI
REFORMATIO IN PEIUS
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il fondamento del divieto di reformatio in
peius: a) come espressione del principio dispositivo – 3. Segue: b) come
espressione dell’interesse ad impugnare – 4. Segue: c) come espressione
del favor rei – 5. Segue: d) come mera scelta di politica legislativa – 6.
Segue: e) nuovi orientamenti: il principio dispositivo come espressione
del diritto di difesa – 7. Considerazioni conclusive.
1. Premessa – Molto si è discusso del fondamento giuridico
del divieto di reformatio in peius, il che ha portato anche ad in-
terrogarsi sulle origini storiche dell’istituto.
In particolare di questa indagine siamo debitori al
DELITALA, il quale analizzò in particolare le fonti francesi e
tedesche, al fine di verificare la fondatezza dell’affermazione
8
che eliminare il divieto de quo dal nostro ordinamento sarebbe
equivalso a porre fine ad una lunga tradizione.
(9)
L’origine dell’istituto, in particolare, viene fatta risalire
dal LAUCKNER
(10)
alla fine del diciottesimo secolo, quando
compare una prima trattazione di questo principio da parte del
LEYSER,
(11)
che lo giustifica sulla base della dottrina dei diritti
quesiti: con la pronunzia della prima sentenza l’accusato ac-
quisisce il diritto a non vedersi infliggere una pena più grave.
Il GERBER,
(12)
invece, fa rimontare la sua nascita all’inizio
del diciottesimo secolo, rinvenendola nel divieto imposto al
giudice di rimuovere dagli atti il parere, ad efficacia vincolan-
te, pronunziato da una facoltà giuridica chiamata ad esprimersi
sul rapporto oggetto della controversia. Il DELITALA osserva,
però, come i due istituti siano notevolmente diversi, poiché
(9)
Cfr. DELITALA, Il divieto, cit., 163 s..Il quale, comunque, osservava
che anche se il risultato dell’indagine avesse portato a ritenere assai risa-
lente il divieto in esame, ciò non sarebbe stato decisivo per giustificare il
suo mantenimento, una diversa conclusione significherebbe “impedire
ogni e qualsiasi sviluppo alle nuove legislazioni”.
(10)
LAUCKNER, Zur Geschichte und Dogmatik der reformatio in peius,
Breslau, 1913, 38 ss.
(11)
LEYSER, Meditationes ad Pandectas, Frankenthal, 1780, med.7
(12)
GERBER, Das Verbot der reformatio in peius in Reichsstrafprozess,
Breslau, 1913, 111 ss.
9
“tale divieto non è relativo (a favore dell’imputato) ma assolu-
to”: la rimozione non è lecita né per favorire, né per danneg-
giare l’accusato.
Il DELITALA, infine, si mostrò critico anche riguardo alla
teoria che ravvisa l’origine del divieto de quo in una creazione
giurisprudenziale del Consiglio di Stato Francese – l’istituto è
ignoto al codice francese del 1804 – e specificamente in un pa-
rere del 1806, osservando come sia “poco credibile che il di-
vieto della reformatio in peius sia una creazione arbitraria ed
improvvisa della giurisprudenza. Le innovazioni della giuri-
sprudenza sono precedute comunemente da lunghe elaborazio-
ni dottrinarie, delle quali i sostenitori dell’origine francese
dell’istituto non ci danno documentazione”.
Gli studiosi successivi si sono concentrati, invece, sulla
ricerca del suo fondamento giuridico. I vari studi che si sono
susseguiti nel tempo hanno intravisto il presupposto giuridico
del divieto, ora nel principio dispositivo, ora nell’interesse ad
impugnare ora nel principio del favor rei, ovvero se n’è negato
10
ogni fondamento giuridico riducendolo ad una mera scelta di
politica processuale.
Prima, tuttavia, di analizzare i vari approcci al problema
dobbiamo fare una premessa terminologica, poiché neanche
sulla circostanza che l’indagine verta sulla ricerca del fonda-
mento giuridico vi è concordia di opinioni, in particolare si è
sostenuto che il problema sia quello della ricerca della sua
giustificazione sistematica, perché “da un punto di vista forma-
le, può dirsi che ogni istituto, in quanto trova il suo fondamen-
to in una norma giuridica, ha sempre un fondamento giuridi-
co”.
(13)
Probabilmente, tuttavia, è preferibile continuare a parlare
di ricerca del fondamento giuridico, perché l’analisi della giu-
stificazione sistematica dell’istituto “presuppone che già si ab-
bia, prima di aver individuato la ratio della norma, un sistema
al quale rapportarla”, ma “se non si è estratta la ragion d’essere
(13)
PISANI, Il divieto, cit., Milano, 1967, 41.
11
della norma non si vede come si possa parlare di sistema, dato
che questo partecipa della ratio di ognuna delle sue norme”.
(14)
2. Il divieto di reformatio in peius: a) come espressione del
principio dispositivo – Una ricorrente giustificazione del di-
vieto in esame si basa sulla vigenza del principio dispositivo
nel processo penale di secondo grado.
(15)
Il concetto è di acquisizione civilistica, ove assume una plura-
lità di significati, in particolare, la cosiddetta dottrina “sceva-
trice” ormai saldamente recepita dagli studiosi del processo ci-
vile, lo scinde in una accezione in senso sostanziale (o proprio)
e in una in senso formale (o improprio).
Per principio dispositivo in senso sostanziale, s’intende
l’esistenza di un potere esclusivo delle parti di chiedere la tute-
(14)
MASSA M., Contributo allo studio dell’appello nel processo penale,
Milano, 1969, 134 n. 17.
(15)
Cfr. BELLAVISTA, Il principio dispositivo nel procedimento penale
d’impugnazione, in Studi sul processo penale, II, Milano, 1960, p.281
ss.; LEONE, Trattato di diritto processuale penale, III, 102, n. 54;
CARULLI, I poteri del giudice d’appello in riferimento alla diversa quali-
ficazione giuridica del fatto, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1960, 72ss.; DE
LEONE Appunti in tema di divieto di reformatio in peius, in Arch. pen.,
1965, 158ss.
12
la giurisdizionale e di fissare l’oggetto del giudizio,
(16)
nella
sua accezione in senso formale il principio, invece, fa riferi-
mento ad un vincolo posto al giudice dall’iniziativa delle parti
per ciò che riguarda, in genere, la tecnica e lo svolgimento in-
terno del processo e, in particolare, la scelta degli strumenti
per la formazione del convincimento giudiziale.
(17)
In altre parole, si tratta della fenomenologia della duplice
allegazione sul fatto e sulla prova che si compendia nel bro-
cardo iudex iuxta alligata et probata partium decidere debet,
che appunto esprime il vincolo del giudice al tema decisionale
fissato dalle parti (gli alligata) e agli strumenti idonei a con-
vincerlo dell’esistenza dei fatti di cui il tema medesimo risulta
composto (i probata).
Dobbiamo, dunque, interrogarci sulla vigenza di questo
principio nel giudizio di secondo grado.
Per quanto riguarda la sua accezione impropria, valgono
anche nel nuovo impianto processuale, le considerazioni effet-
(16)
CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità,
I, Milano, 1962, 357.
(17)
CAPPELLETTI, La testimonianza, cit., 358.
13
tuate nella vigenza del precedente sistema che un procedimen-
to d’impugnazione caratterizzato dal potere del giudice che ri-
tenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, di
ordinare la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, (art.
603, 1° co., c.p.p.) mal si concilia con un discorso in termini di
disponibilità intesa come “vincolativa delimitazione dei poteri
istruttori del giudice”.
(18)
In altre parole non sussiste un vincolo del giudice al mate-
riale probatorio prospettato dalle parti, poiché il giudice tro-
vandosi nell’impossibilità materiale di decidere può disporre
un’integrazione del contesto probatorio di primo grado.
Riamane, tuttavia, l’alternativa della dispositività in senso
sostanziale, ed invero appare difficilmente contestabile che
una potestà dispositiva delle parti – nel senso del potere esclu-
sivo delle parti di chiedere la tutela giurisdizionale e di fissare
l’oggetto del giudizio – sia presente nell’odierno sistema delle
impugnazioni. Al riguardo, sono ancora attuali gli argomenti
che la dottrina del previgente codice aveva messo in evidenza:
(18)
Così TRANCHINA, La potestà di impugnare nel processo penale ita-
liano, Milano, 1970.
14
la possibilità delle parti di rinunziare alla impugnazione,
l’effetto parzialmente devolutivo delle impugnazioni e la ne-
cessità di un interesse ad impugnare.
(19)
Il ritenere, però, vigente il principio de quo in appello non
significa necessariamente che esso sia idoneo a fondare il di-
vieto di reformatio in peius, invero è stato osservato che
l’impulso dato dall’imputato appellante al potere cognitivo del
giudice – tradotto nel brocardo tantum devolutum quantum ap-
pellatum – non necessariamente incide sulla potestà decisiona-
le dell’organo giudicante in secondo grado, poiché l’art. 597,
1° co., c.p.p. circoscrive la cognizione del giudice d’appello
solamente ai punti investiti dal gravame e non ai motivi speci-
ficamente indicati. (L’espressione usata dal legislatore è, in ef-
fetti, che la cognizione del giudice di appello è circoscritta “ai
punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti”).
Nell’ambito del thema decidendum individuato dalle par-
ti, dunque, il giudice non è vincolato alle singole alternative
decisorie prospettate con i motivi d’appello, ma decide ex novo
(19)
Vedi MASSA C., Il principio dispositivo nel processo penale, in Riv.
it. dir. e proc. pen. 1961, 351 ss.
15
su tutte le questioni astrattamente ipotizzabili in ordine ai punti
impugnati.
(20)
Non vi è alcuna limitazione al potere decisorio del giudice
che si possa far discendere dalla proposizione dell’im-
pugnazione da parte dell’imputato,
(21)
e conseguentemente
nessuna possibilità di far derivare dal principio dispositivo il
fondamento del divieto di reformatio in peius: alla stregua di
esso sarebbe ammissibile, tanto una riforma in meglio, quanto
una riforma in peggio della sentenza impugnata.
(20)
Così MONTAGNA M., Divieto di reformatio in peius e appello inci-
dentale, in Le impugnazioni penali, trattato diretto da A. GAITO, Torino
1998, 374.
(21)
Cfr. MENNA, Il giudizio, cit., 182 s..