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approfonditamente come è stato svolto il coaching (le informazioni sono state
fornite del Dottor Oggioni della GSO, Consulenza per lo sviluppo d’impresa,
di Milano, la società di consulenza che ha realizzato l’intervento).
Successivamente descriverò la parte di ricerca empirica: lo strumento (un
questionario appositamente costruito) e le caratteristiche dei rispondenti, poi le
risposte dei partecipanti in relazione al loro gradimento del coaching, alla
possibilità di partecipare ad un altro coaching in futuro, alla utilità e al
coinvolgimento percepiti rispetto ad altri tipi di attività formative svolte in
passato, al tipo di attività preferita tra quelle svolte, alle critiche e ad alle
proposte per approfondimenti futuri. Infine proverò a verificare se esiste una
relazione significativa tra le valutazioni espresse e alcune variabili di tipo
anagrafico dei rispondenti (età, sesso, anzianità aziendale e settore aziendale di
appartenenza).
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CAPITOLO 1
LE NUOVE MODALITA’ FORMATIVE
SOMMARIO: 1. La necessità di una nuova formazione: il problema della
trasferibilità dell’apprendimento. 2. Nuove modalità di formazione:
counseling, tutoring, mentoring, coaching. Differenze e somiglianze
1. La necessità di una nuova formazione: il problema della
trasferibilità dell’apprendimento
Negli ultimi anni le aziende sono divenute gradualmente più consapevoli
dell’importanza delle risorse umane nel determinare il proprio successo o
fallimento: le persone che lavorano sono viste come una risorsa fondamentale
che può fare la differenza e su cui è necessario investire in termini di tempo e
di denaro.
Per questo il bisogno di formazione è senz’altro in crescita e tende a
coinvolgere non soltanto i livelli aziendali più elevati, (un tempo gli unici
beneficiari della formazione), ma anche i dipendenti con compiti di tipo
esecutivo. Così, come agli operai si richiedono capacità di analisi e di
risoluzione dei problemi, comprensione dei processi di lavoro, controllo della
qualità dei processi, comunicazione e cooperazione nei team e tra team
diversi, similmente alle figure intermedie si richiedono competenze più ampie,
anche di tipo relazionale: capacità di assistere i gruppi, di capire i bisogni e le
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potenzialità di sviluppo delle persone, capacità di risolvere i conflitti
organizzativi e di supportare con le proprie capacità i gruppi di lavoro.
(Butera, Donati, Cesaria, 1997). Alla formazione si richiede pertanto di agire
sulle competenze tecniche (che restano sempre molto importanti), ma al tempo
stesso sugli aspetti motivazionali e comunicativi, nonché, per quanto riguarda i
capi, su quelli gestionali.
La formazione aziendale per molto tempo si è ispirata alla struttura
educativa tipica della scuola, caratterizzata da corsi in aula, in cui lo strumento
prevalente era la classica lezione espositiva e il rapporto didattico del tipo
allievo-insegnante.
Tuttavia, con il passare del tempo, i metodi didattici, per la sopra citata
necessità di intervenire, non solo sulle competenze tecniche, ma anche su
quelle relazionali e motivazionali, sono diventati via via più attivi e
coinvolgenti (i cosiddetti “metodi attivi”, come role-playing e simulazioni, i
casi e gli autocasi; Bellotto, 1989) e soprattutto meno strutturati rispetto alle
lezioni tradizionali. Inoltre, l’attenzione dei formatori si è rivolta alla necessità
di scegliere il metodo didattico a seconda dell’obiettivo formativo: ad esempio
nel caso di un corso di aggiornamento una lezione ben preparata può essere lo
strumento più indicato per raggiungere l’obiettivo formativo del
miglioramento di conoscenze dei partecipanti. Invece, nel caso di un’attività
che si propone di aumentare la creatività oppure l’autonomia dei partecipanti,
la lezione d’aula può rivelarsi un metodo totalmente inappropriato rispetto agli
obiettivi del corso, mentre potrebbero essere più indicate attività di gruppo, ad
esempio role-playing o brain-storming, in cui i partecipanti svolgano u ruolo
più attivo (Auteri, 1999).
Vale la pena di sottolineare un altro aspetto strettamente collegato, ossia
l’esigenza di una formazione che sia sempre più vicina alla realtà lavorativa,
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per superare la separazione tra attività formativa d’aula (luogo
dell’apprendimento) e realtà aziendale (luogo deputato alla produzione e
carico di problemi “reali”) (Bruscaglioni, 1999).
Come si può facilmente intuire le classiche lezioni d’aula non appaiono più
in grado di garantire che quanto appreso in aula (se apprendimento c’è stato)
sia trasferibile alla quotidianità lavorativa ed è sempre più forte l’esigenza di
una formazione maggiormente integrata.
Ciò è maggiormente vero quando attraverso la formazione si cerca di
promuovere nelle funzioni di capi o dirigenti, un modo nuovo e più
consapevole di vivere il proprio ruolo lavorativo, in particolare di sviluppare il
proprio percorso di carriera (Come vivo l’esperienza in azienda? Quale
contributo sto dando al successo aziendale? Che cosa mi aspetto “in cambio”
dall’azienda) e di vivere il proprio ruolo di capo-leader dei propri subordinati
(Che tipo di capo sono? Come contribuisco alla crescita dei miei
collaboratori?).
Si tratta di temi “scottanti”, che investono la persona in sviluppo nel
complesso, perché non riguardano più solo il sapere tecnico o nuove abilità da
acquisire, ma richiedono una riflessione e un interrogarsi su di sé, una
disponibilità a mettersi in discussione come persone, per crescere e aiutare
anche gli altri a crescere (Quaglino, 1999).
Le nuove modalità formative individualizzate (in particolare, counseling e
coaching) cercano di essere proprio uno strumento che, attraverso la messa in
discussione delle “certezze” su di sé e sul proprio ruolo, realizzi percorsi di
crescita integrale di capi e manager, che diventino “generativi”nella relazione
con i subordinati.
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2. Nuove modalità di formazione: counseling, tutoring,
mentoring, coaching, Differenze e somiglianze
Prima di descrivere approfonditamente counseling e coaching, cercherò di
chiarire in che cosa si differenziano da altre relazioni di supporto one to one
che si applicano in ambito lavorativo.
Tracciare una linea di confine netta tra questa modalità di intervento non è
un’operazione facile, tanto che nemmeno gli specialisti concordano
completamente. Inoltre, ogni autore dimostra, spesso esplicitamente, di
propendere per l’una o l’altra tecnica e tende ad enfatizzarne i lati positivi. Ad
un’analisi più approfondita, tuttavia, le differenze emergono e riguardano
innanzi tutto lo scopo per cui l’intervento è realizzato, ma anche il tipo di
rapporto che si instaura tra “allievo” e “maestro”e il tipo di attività messo in
atto.
• Counseling
Il counseling è una relazione tra un consulente e un cliente incentrata sulla
condizione di difficoltà psicologica vissuta da quest’ultimo a causa di ostacoli
e problemi di varia natura. (Folgheraiter, 1996).
Il presupposto perché il counseling possa avere successo è che la persona
che richiede l’aiuto abbia una struttura della personalità sufficientemente
salda, anche se magari momentaneamente in disequilibrio. Il counseling ha lo
scopo di “abilitare” il cliente a prendere delle decisioni di carattere personale
che egli vive in modo problematico,
ma non è indicato per risolvere disturbi
strutturali della personalità, che necessitano di una ristrutturazione globale
dell’Io (Burnett, 1971). In questo il counseling si differenzia in modo netto
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dalla terapia, anche se inizialmente è nato proprio come nuovo modo di
relazionarsi con il paziente in una forma più coinvolgente ed empatica (mi
riferisco in particolare a Carl Rogers e alla sua “terapia centrata sul cliente”,
di cui parlerò più avanti). In ambito lavorativo i problemi che richiedono un
intervento di counseling possono nascere, ad esempio, da una difficoltà di
prestazione, da un trasferimento, da un difficile rapporto con i colleghi oppure
riguardare la sfera più personale dell’individuo, come la perdita di una persona
cara, un periodo di difficoltà economica, etc.
• Tutoring
In questa modalità di intervento il tutor, che generalmente è una persona di
staff o comunque non un diretto superiore di colui che segue, si pone come
punto di riferimento e come guida nel percorso di apprendimento di un
neoassunto oppure di una persona su cui l’organizzazione ha deciso di
“puntare”, in altre parole un potenziale in crescita (Reggiani, 2000). Scopo del
tutoring è permettere alla persona di acquisire delle conoscenze tecnico-
specialistiche e gestionali approfondite per ricoprire in modo più consapevole
il proprio ruolo lavorativo.
La peculiarità del tutoring, come scrive Intonti
(2000)
“è di essere
incentrato, non tanto sullo sviluppo delle capacità relazionali, di
comunicazione ed esplicitamento delle capacità, bensì proprio sulle
competenze lavorative, sulle specifiche capacità richieste dal ruolo che si
svolge all’interno dell’azienda”. L’apprendimento passa sia attraverso
l’esempio e il fare alcune attività insieme, sia soprattutto tramite degli incontri
di confronto che possono essere richiesti dal tutor oppure dall’allievo in caso
di difficoltà.
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Alcuni autori sottolineano l’importanza del tutor come figura chiave di
riferimento per i neoassunti perché ha il pregio fondamentale di ridurre il
turnover aziendale attraverso la risoluzione immediata di eventuali problemi di
adattamento (Celestino, 1990)
Tra le tecniche di sostegno ad personam è forse quella meno recente;
attualmente è poco trattata dalla letteratura, probabilmente perché sembra
meno adatta a supportare la persona nel suo insieme e richiama invece un’idea
di semplice trasmissione delle conoscenze di tipo scolastico.
• Mentoring
Il mentoring può essere definito “una relazione di coppia che assume la
forma di colloqui periodici per lo più situati in un orizzonte temporale
compreso tra uno e due anni, in cui uno dei due soggetti mette a disposizione
la propria esperienza e conoscenza al fine di guidare e sostenere l’altro in un
percorso di apprendimento e crescita in particolari momenti della sua
esperienza professionale che corrispondono a significativi transizioni o
richiedono lo sviluppo del suo patrimonio di conoscenze” (Piccardo, 1998,
p.37).
A differenza del tutoring, il mentoring ha lo scopo, non solo di permettere
all’allievo di ampliare le sue conoscenze, ma anche di integrarsi nella cultura
aziendale e di fornirgli supporto psicologico. Generalmente è rivolto ai
neoassunti per aiutarli nella fase di ingresso nell’organizzazione. Le funzioni
principali del mentoring sono tre (Cortese, 1997):
- aiutare l’allievo nel suo percorso di apprendimento: identificazione dei suoi
punti di forza e di debolezza e delle discrepanze rispetto alle capacità richiesta
dal ruolo, ricerca delle opportunità per migliorare;
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- trasmettere all’allievo la cultura organizzativa (Piccardo. Benozzo., 1996),
intesa, secondo la formulazione di Schein (1990 p.35) come “insieme di
assunti di base inventati, scoperti o sviluppati da un gruppo determinato
quando impara ad affrontare i propri problemi di adattamento con il mondo
esterno e di integrazione al suo interno, che si è rivelato così funzionale da
essere considerato valido e, quindi, da essere indicato a quanti entrano
nell’organizzazione come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in
relazione a quei problemi”;
- facilitare il percorso di iniziazione dell’individuo e contribuire a renderlo
integrato in modo ottimale, evitando l’insorgere di malintesi e incomprensioni
con colleghi e collaboratori.
Come ricorda Reggiani
(2000),
la parola mentore è di origine antica e deriva
dalla mitologia greca: Mentore è il fidato consigliere alle cui cure Ulisse affida
il figlio Telemaco prima di partire per la guerra di Troia. Il mentore, quindi è
qualcosa di più di un capo che addestra un subordinato, ma è più una guida
che si prende in carico l’allievo nella sua globalità e offre un sostegno e una
comprensione profondi. Per questo motivo i contatti tra mentor-allievo sono
molto più frequenti e continui rispetto al tutoring. Come nel tutoring il ruolo di
mentore può essere ricoperto da un superiore diretto oppure da un collega più
anziano ed esperto, ma esterno: probabilmente questa seconda ipotesi è
preferibile perché evita la difficoltosa situazione del capo che deve valutare di
fronte ad altri le prestazione di colui che fino a quel momento si è impegnato
ad aiutare in modo così profondo.
Per quanto riguarda lo svolgimento dell’attività di mentoring, Claudia
Piccardo (2000) afferma che in un percorso “ideale”di mentoring ci sono 10
fasi, dalla fase iniziale di definizione degli obiettivi, delle risorse e dei vincoli
di progetto, alla fase finale di bilancio dei risultati dell’attività svolta. In
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mezzo, la scelta dei candidati sia per il ruolo di mentore che per quello di
mentee. La Piccardo solleva l’importante questione della scelta degli allievi e
si chiede se sia preferibile favorire le autocandidature oppure lasciare che
siano i capi a suggerire le persone cui rivolgere l’intervento. Nel primo caso si
avrebbero persone più motivate, ma non si possono escludere sentimenti
negativi di tipo persecutorio da parte dei capi del tipo: perché non gli basto io,
cosa gli faccio mancare? Nel secondo caso si rischia di avere “allievi” poco
motivati e soprattutto a disagio perché possono non capire il motivo per cui
sono stati scelti: mi hanno scelto perché sono debole o perché sono un alto
potenziale? Perché non ci pensa il mio capo a formarmi?
Un’altra questione cruciale è l’accoppiamento tra mentor e mentee che,
secondo l’autrice, dovrebbe essere fatto sulla base sia delle preferenze
informalmente espresse, sia sulla base della massima distanza organizzativa e
gerarchica tra i due. Claudia Piccardo suggerisce inoltre di dedicare qualche
ora alla preparazione, sia cognitiva che emozionale, dei mentori, per evitare
che si trovino impreparati a risolvere le eventuali difficoltà nella relazione che
stanno per iniziare.
Per quanto riguarda i vantaggi, quelli del mentoring sono diversi e
riguardano sia l’allievo che il mentore che l’organizzazione (Quaglino e
Cortese, 1997).
Per l’allievo i vantaggi sono sia di ordine professionale (apprendimento di
competenze, facilitazione della carriera, integrazione culturale
nell’organizzazione), sia di ordine personale (aumento della motivazione,
rapporto di sostegno emotivo e incremento della comprensione del significato
del proprio lavoro). Forse il vantaggio maggiore del mentoring è che favorisce
la crescita professionale dell’ “allievo”, che è messo in grado di trarre dalle
occasioni professionali offerte il massimo apprendimento e al tempo stesso di
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imparare sull’esempio di una persona di successo (Cecchinato e Di Pietro,
1998).
Per il mentore i vantaggi non sono così intuitivi, ma sono comunque rilevanti:
un rinnovamento di interessi e motivazioni lavorative, dovuto anche
all’ampliamento delle relazione e del prestigio goduto all’interno dell’azienda
la soddisfazione di poter trasferire ad altri le proprie competenze, la possibilità
di riflettere su temi considerati “acquisiti”.
Per le organizzazioni i vantaggi sono principalmente la riduzione dei costi
della formazione tradizionale, il miglioramento delle performance dei
collaboratori, l’aumento della soddisfazione e il miglioramento del clima
lavorativo (Reggiani, 2000).
Ovviamente è di cruciale importanza selezionare con cura il mentore per
evitare che il mentoring produca più danni che benefici: ad esempio un
professionista esperto e preparato, ma “deluso” dall’organizzazione non è
certamente la persona adatta a ricoprire questo ruolo perché finirebbe con il
colludere con l’allievo contro l’organizzazione. D’altro canto una persona
poco sicura di sé potrebbe essere diffidente verso l’allievo, pensando che
questi un giorno potrebbe “soffiargli” il posto e quindi decidere di centellinare
il suo aiuto. Per questo motivo Cortese e Quaglino sottolineano l’importanza
di una selezione accurata del mentor, scelto possibilmente tra coloro che
spontaneamente si sono offerti per quel ruolo.
Essi, pur essendo sostenitori del mentoring, mettono in guardia da un suo uso
improprio o superficiale perché, trattandosi di una relazione molto stretta e
coinvolgente, che ricorda per certi versi quella tra padre e figlio, il rischio che
nascano delle dinamiche di tipo edipico non è affatto escluso (Quaglino e
Cortese, 1997; Delmestri, 1997). Gli autori auspicano pertanto che i due
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membri della coppia non siano lasciati a se stessi, ma seguiti possibilmente da
un esperto, ad esempio un consulente.
Nonostante gli indubbi benefici del mentoring, soprattutto per i neoassunti,
le organizzazioni sono ancora piuttosto restie ad utilizzarlo appieno. Una delle
ragioni addotte è che porta via tempo prezioso per attività produttive e che può
essere sostituito con un'azione di affiancamento-tutoring per brevi periodi. Ma,
come abbiamo visto, al tutoring manca la funzione di “iniziatore culturale” e
soprattutto il coinvolgimento più pieno che è caratteristico del mentoring
.
• Coaching
Il coaching, (di cui parlerò più approfonditamente nel cap. 4) è, tra le
tecniche descritte, sicuramente quella di cui si parla più spesso in questi ultimi
anni.
La parola “coach” è di origine inglese e significa allenatore: ciò suggerisce
immediatamente l’analogia tra sport e azienda, tra competizione sportiva e
competizione di business. Il coach deve saper valutare le competenze, le
capacità manifeste e quelle potenziali di ciascun giocatore: l’osservazione, il
dialogo, la sperimentazione, il monitoraggio delle prestazioni lo aiuteranno a
raggiungere il successo personale e di squadra.(Reggiani, 2000). Come il
coach, il manager deve conoscere a fondo i propri collaboratori, i loro punti di
forza e di debolezza, definire gli obiettivi da raggiungere e studiare le strategie
più efficaci per potenziare le loro capacità e ottenere risultati migliori.
Il
rapporto tra coach e coachee per produrre risultati deve essere curato
attentamente, non relegato ai momenti vuoti o accantonato per lunghi periodi
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in favore delle attività produttive, altrimenti diventa inefficace, come può
esserlo un allenamento effettuato in modo incostante e non ogni giorno.
Rispetto al mentoring, il coaching appare meno centrato sulla cultura e sui
valori aziendali e più sulle competenze tecnico-specialistiche: ciò lo rende
emotivamente meno coinvolgente per entrambi.
Rispetto al tutoring ha in più l’accento posto sulla prestazione e sul risultato
e sul concetto di lavoro di squadra. Inoltre, mentre nelle altre due tecniche è
auspicabile che il ruolo di da un collega più esperto che non ha rapporti
gerarchici con l’individuo, è preferibile che il coaching sia svolto dal capo
diretto giacché questo è l’unico che ha la possibilità di osservare
costantemente la persona e fornirle un feedback continuo e approfondito sulle
sue prestazioni.
È importante evidenziare come la concezione del manager come coach non
è la sola esistente: alcuni autori usano il termine coach in riferimento ad un
rapporto tra un manager e un consulente, di solito esterno all’azienda, allo
scopo di facilitare lo sviluppo del manager o aiutarlo a superare un periodo
critico o di ferma della sua carriera (Guardino, Schimdt, 2000). In questo caso
si parla di individual coaching (Intonti., 2000) vale a dire di un rapporto di
affiancamento del manager da parte del consulente attraverso colloqui e analisi
della situazione. I professionisti esterni possono supportare anche un capo o un
gruppo di capi che si prepara a svolgere il ruolo di coach, poiché le abilità e le
tecniche di coaching sono solo apparentemente semplici da acquisire, oppure
possono realizzare direttamente l’intervento di coaching, qualora
nell’organizzazione si prediliga questa soluzione (rispetto al coach interno).