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INTRODUZIONE
L’ambiente didattico, inserito in un contesto culturale che si è evoluto e si sta esponenzialmente
evolvendo nel tempo, si pone oggi nuovi obiettivi da raggiungere per generare un apprendimento
efficace e rispondere agli attuali bisogni educativi.
La pedagogia moderna, in accordo con questa nuova richiesta formativa, è ormai protesa verso la
promozione di un percorso educativo personalizzato che si dimostri in linea una visione costruttivista
dell’apprendimento, in antitesi con la didattica trasmissiva della lezione frontale ampiamente sfruttata
all’interno delle scuole tradizionali.
Ogni studente ha la propria storia, le proprie esperienze e il proprio modo di conoscere e vedere il
mondo. Solo conoscendo le dinamiche che intervengono all’interno dei loro processi di
apprendimento, un docente può riuscire a valorizzare le attitudini di ciascuno (Falcinelli, 2016).
Tuttavia, pensare che un singolo insegnante, nelle sue ore di lezione, riesca non solo a conoscere le
specificità di ogni suo allievo, ma anche a proporre uno stile di insegnamento che porti a termine il
programma adattandosi ai bisogni di tutti, è un’utopia irrealizzabile e che attribuisce ogni
responsabilità e colpa al docente stesso. Ciò che viene auspicato a livello teorico, nella pratica si
rivela di difficile applicazione anche per i docenti più volenterosi.
Quanto appena descritto riassume la conclusione del lavoro di ricerca svolto al termine del mio
percorso di laurea triennale. Il tema trattato riguardava le metodologie didattiche utilizzate nella
scuola secondaria di secondo grado e si proponeva di indagare le motivazioni per le quali queste
faticassero ad aggiornarsi, creando un enorme divario tra quanto teorizzato a livello pedagogico su
temi come l’inclusività, il bisogno di imparare ad imparare, la visione costruttivista
dell’apprendimento, e quanto applicato a livello didattico. Ancora prima dell’aspetto economico e
burocratico, tema centrale è stato il punto di vista degli insegnanti, le figure educative che lavorano
in prima linea all’interno dello scenario analizzato.
Personalmente, non condivido la generale visione pessimista che vede l’approccio degli insegnanti
come causa principale del sentimento di avversione delle scuole nei confronti del cambiamento: una
spiegazione troppo semplicistica. Questi ultimi possono essere poco favorevoli all’innovazione per
molti motivi, ma difficilmente mettono in dubbio l’importanza di trovare metodologie didattiche
nuove e in grado di rispondere alle esigenze sociali e pedagogiche odierne: al contrario, sono i primi
ad avvertire una sempre più evidente delegittimazione del loro ruolo e sono tendenzialmente
predisposti a conoscere strategie capaci di rispondere al problema. Ciò che crea difficoltà è, appunto,
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l’applicazione pratica di quanto teorizzato. Per questo motivo, mi sento di affermare come la sfida
odierna non sia più tanto quella di trovare nuovi approcci pedagogici efficaci da introdurre nelle
scuole, ma di trovare il modo per introdurli nel modo corretto.
Da queste riflessioni si sviluppa la mia nuova tesi, nata dall’interesse di offrire una risposta concreta
al bisogno di generare un percorso didattico che parta dallo studente, ma che al tempo stesso si
dimostri concretamente realizzabile all’interno di un curricolo didattico tradizionale.
Su questa linea, ci si propone di cambiare prospettiva: l’obiettivo di indagine non è più l’agire del
docente all’interno del contesto classe, ma quello dello studente nel suo processo di apprendimento.
Nello specifico, il target preso in considerazione abbraccia gli anni della scuola secondaria di secondo
grado e il focus si sposta sulla promozione di un apprendimento autoregolato, dove è l’individuo
stesso il responsabile della scelta delle strategie e delle risorse didattiche più adatte per raggiungere
gli obiettivi prefissati.
Il presupposto di partenza è che ogni studente disponga di un determinato stile di apprendimento e
che, attraverso un’adeguata proposta formativa, quest’ultimo possa arrivare a conoscerlo e agire in
linea con esso, così da riuscire a generare un approccio allo studio profondo. Un approccio in grado
di sviluppare un interesse intrinseco nei confronti delle attività e dei contenuti proposti; capace di
gestire il processo di apprendimento in maniera efficiente e di trovare la giusta strategia con la quale
affrontare la materia specifica in base ai propri parametri, consolidando ciò che del proprio metodo
risulta come efficace e ripensando ciò che invece crea difficoltà ed eccessivo carico cognitivo
nell’acquisizione dei contenuti proposti.
Ma il vero punto focale di questo lavoro è l’ambiente all’interno del quale ci si propone di svolgere
tale formazione. Il percorso vuole essere progettato e sviluppato all’interno di un applicativo digitale
mobile first, attraverso il quale ogni utente potrà informarsi sul tema degli stili di apprendimento e
del modo in cui influenzano l’esperienza didattica, analizzare il proprio e accedere ad un’area
personale dove poter trovare e salvare materiale di supporto e strumenti utili ad implementare le
proprie competenze metacognitive. Uno specchio informativo e un supporto nel processo di
monitoraggio e miglioramento del proprio approccio che lavora in parallelo al percorso didattico e
che quindi rimane presente per tutta la durata dei cinque anni.
La presente tesi si pone, dunque, l’obiettivo di costruire e presentare tale piattaforma, esplicitando le
scelte e le premesse teoriche che hanno guidato la sua realizzazione.
Punto di partenza dell’elaborato sarà un lavoro di analisi dell’attuale contesto scolastico e
dell’esigenza di sviluppare un percorso che possa essere regolato dallo studente. La piattaforma
progettata si inserirà in risposta a questa esigenza.
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Per la sua progettazione, il primo passo sarà quello di sviluppare un quadro teorico sul tema degli stili
di apprendimento, spiegando il significato di questo concetto e definendo e categorizzando le varie
tipologie di stili esistenti: questo passaggio permetterà di costruire uno strumento di valutazione che
potrà dare una direzione all’utente che accederà alla piattaforma nell’individuazione del proprio stile.
La piattaforma, oltre che orientare, avrà anche l’obiettivo di informare e di fornire risorse.
La sua struttura dovrà essere attentamente progettata sia dal punto di vista della forma che dei
contenuti: definito cosa ci dovrà essere, si procederà alla costruzione dello storyboard che ne guiderà
la realizzazione.
Alla fine del percorso di tesi, ciò che ci si aspetta di aver realizzato è la costruzione di un ambiente
didattico utilizzabile in maniera totalmente indipendente dallo studente e capace di guidarlo nel suo
percorso di apprendimento, creando un’occasione formativa efficace che rispetti gli obiettivi
pedagogici individuati senza gravare sulla responsabilità dell’insegnante.
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1. ANALISI DEL CONTESTO
1.1 L’inclusività come punto di partenza
L’attuale scenario scolastico è caratterizzato da una forte pluralità di bisogni.
A causa della sempre maggiore presenza di problematiche educative, per gli insegnanti diventa ogni
giorno più difficile promuovere un’impostazione didattica efficace ed è ormai evidente l’esigenza di
rispondere a tale complessità del contesto con strategie che sappiano dare una direzione per affrontare
il problema.
Gli studenti con Bisogni Educativi Speciali, con disabilità o con problematiche educative vengono
individuati come i casi più propensi a vivere situazioni di disadattamento e insuccesso scolastico. In
risposta, i principali interventi che si attuano tendono ad apportare quelle modifiche minime
necessarie per garantire loro la possibilità di seguire le lezioni, dando attenzione agli obiettivi
essenziali individuati nel Piano dell’Offerta formativa: uso di ausili specifici, concessione di tempi
più lunghi, sostituzione o riduzione di materie o argomenti (Gaspari e Sandri, 2010).
Le problematiche di inclusività sono particolarmente sentite nelle scuole secondarie, all’interno delle
quali il divario tra alunni con bisogni speciali e i propri coetanei tende ad aumentare: le esperienze
documentate di interventi inclusivi a livello europeo sono strettamente ridotte e per lo più concentrate
sulla scuola primaria (Savia, 2016). Gli insegnanti sono i primi ad essere poco formati
sull’argomento: una ricerca sul campo somministrata ad un gruppo di docenti rileva come ci sia una
mancanza di competenze generali sui processi di inclusione scolastica, con una conseguente
sensazione deficitaria di autoefficacia nei confronti della gestione e valorizzazione della diversità
(Mura, 2014).
In nome di un principio integrativo, si ricorre a quelle che la maggior parte degli insegnanti vedono
come “facilitazioni”, in un’illusoria soluzione del problema.
Tali risposte si dimostrano inefficaci: la logica integrativa si risolve nella ricerca di soluzioni
specifiche che si concentrano sull’aspetto dei bisogni speciali, ma lasciano inalterato l’ambiente di
apprendimento. Di conseguenza, i metodi rimangono invariati e la diversità assume la connotazione
di un problema da risolvere.
Il passaggio dall’idea di integrazione a quella di inclusione è una modifica culturale: l’inclusione è il
riconoscimento dell’importanza della partecipazione totale alla vita scolastica di ogni studente. Le
differenze vengono valorizzate e la risposta didattica ad esse non è più specialistica, ma ordinaria
(Pennazio, 2017). In questo nuovo paradigma, metaforicamente parlando, non si cerca di correggere
le deviazioni di un percorso prestabilito, ma di promuovere una molteplicità di possibili strade,
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all’interno delle quali potersi riconoscere e valorizzare. Tale riformulazione della didattica rende
possibile creare un ambiente nel quale porre ogni singolo studente allo stesso livello, rendendo
l’inclusività un diritto di tutti. L’individualizzazione dei processi di apprendimento, ovvero la
possibilità di rispondere alle differenze di ciascuno, e la loro personalizzazione, quindi l’utilizzo
strategie che permettono di raggiungere una forma di eccellenza cognitiva attraverso le proprie
specifiche potenzialità (Gaspari e Sandri, 2010), dovrebbero essere garantite indipendentemente dal
tipo di studente.
Un’impostazione teorica chiara e inattaccabile che, tuttavia, trova forti difficoltà nel concretizzarsi a
livello pratico.
All’interno di una lezione, cosa significa veramente promuovere un metodo inclusivo? Come tener
conto dello stile di apprendimento di ciascuno? In che modo proporre strategie didattiche diverse in
un unico stile di insegnamento?
Sono questi i temi centrali su cui riflettere per poter promuovere e trasmettere un un’impostazione
didattica funzionale alla realtà che si ha di fronte, in grado di dare risposta a delle questioni complesse,
ma fondamentali. Tutto il progetto presentato in questa dissertazione si sviluppa partendo dalle
domande appena elencate. La costruzione dell’applicativo che verrà successivamente descritta pone
l’inclusività come obiettivo finale e punto di partenza.
1.2 L’influenza dello stile di apprendimento e di insegnamento
Lo stile di apprendimento può essere definito come quell’insieme di approcci che lo studente
favorisce nel suo processo di conoscenza: ciò comporta l’inevitabile importanza della sua influenza
all’interno del contesto scolastico, dunque il bisogno di tenerlo in considerazione nelle riflessioni
sullo specifico processo didattico da promuovere per creare un ambiente inclusivo.
Già da tempo, a livello pedagogico, sono stati riconosciuti e validati nuovi paradigmi scientifici e
metodologici che nascono da un’idea di apprendimento dinamica, personale e situata, in stretto
disaccordo con una più tradizionale impostazione magistrocentrica (Rossini, 2016) e passivizzante
della lezione frontale classica. Tutto questo partendo dall’evidenza che un certo tipo di lezione
potrebbe essere tanto significativo su un individuo quanto disastroso su un altro, poiché la sua
efficacia non può essere determinata unicamente dall’accuratezza di progettazione da parte
dell’insegnante, ma anche dalla capacità di questo di collocarsi all’interno del contesto, tenendo conto
di dinamiche e variabili specifiche.
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L’insegnamento, di conseguenza, non è più visto come trasmissione, ma come processo relazionale,
seppur asimmetrico, all’interno del quale i due interlocutori, insegnante e studente, partecipano ad un
continuo scambio di informazioni che influenza conoscenze e comportamenti di entrambi.
All’interno del contesto classe assistiamo, infatti, ad un processo di regolazione costante mediante il
quale l’insegnante, attraverso i feedback impliciti ed espliciti degli studenti, cerca di sintonizzarsi
sulla stessa “lunghezza d’onda” dell’aula al fine di catturare e mantenere l’attenzione (Rivoltella,
2021). Una domanda, un intervento o anche solo uno sguardo confuso sono, o almeno dovrebbero
essere, variabili determinanti di cui tener conto durante una lezione.
Arriviamo quindi all’ovvia conclusione che il modo in cui un insegnante si pone in classe ha
importanti ricadute sull’apprendimento dei suoi studenti.
Per tale motivo, il processo didattico richiede uno sguardo specifico anche nei confronti dei processi
metacognitivi che influenzano i docenti: si presume, infatti, che il loro modo di apprendere, dunque i
loro stili di apprendimento frutto di personali esperienze, influenzino il modo di insegnare, dunque il
modo di interagire con gli studenti (Rossini, 2016). Si parla, in questo caso, di stili di insegnamento.
Lo stile di apprendimento sviluppato da uno studente può essere strettamente connesso agli stili di
insegnamento prevalenti dell’insegnante e, più alto sarà l’incontro tra i due stili, più efficace sarà
l’intervento didattico (Falcinelli et al, 2016).
Essendo che gli stili di apprendimento sono fortemente influenzati dall’ambiente nel quale si è
inseriti, l’uso continuo da parte del docente di uno stesso stile di insegnamento porta automaticamente
gli allievi ad adattarsi ad esso. Spesso la discrepanza tra i due stili porta a forti difficoltà per gli
studenti a seguire e ad una tendenza ad evitare di affrontare l’informazione data con una
rielaborazione autonoma e creativa. In altre parole, uno studente potrebbe evidenziare carenze nei
risultati scolastici non tanto perché non possiede le competenze necessarie, ma piuttosto perché il
modo in cui gli viene presentato l’argomento lo rende poco incline a sfruttarle.
Di conseguenza, diventa fondamentale la capacità dell’insegnante di variare e incrementare i propri
metodi di insegnamento, proponendo delle situazioni che permettano allo studente di sfruttare al
meglio il proprio stile di apprendimento (Cadamuro, 2004). Nel concreto, significa agire nella
consapevolezza dell’esistenza di stili diversi, analizzando le caratteristiche degli studenti in classe e,
al tempo stesso, le proprie, proponendo diversi metodi di insegnamento.
Si tratta di lavorare sul processo di allineamento al fine di comprendere il metodo più efficace da
utilizzare, promuovendo quello che viene definito “adaptive learning”: una metodologia che si
propone di insegnare partendo dalle preferenze individuali e offrendo contenuti customizzati alle
esigenze specifiche (El-Sabagh, 2021).
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Tale prospettiva, tuttavia, presenta due importanti criticità.
La prima è una limitazione puramente pragmatica e riguarda l’evidente squilibrio numerico:
l’insegnante, per garantire uno stile didattico che possa adattarsi ai suoi studenti, dovrebbe essere
capace di analizzare i processi di apprendimento di ciascuno, rispondendo adeguatamente ad ogni
singolo caso. Di conseguenza, significherebbe riproporre lo stesso argomento in una molteplicità di
modi accuratamente analizzati e costruiti in base al gruppo specifico, ripetendo tale procedimento per
ogni singola lezione in programma. Una prospettiva evidentemente irraggiungibile.
La seconda riflette sulle effettive ricadute di questo approccio sugli studenti: se è vero che lo stile di
apprendimento è una connotazione fortemente dinamica che si evolve con l’individuo, vivere le
proprie esperienze di apprendimento in un contesto protetto, dove è l’insegnante ad adattarsi ai
processi a lui più conformi, può portare ad una sedimentazione delle sue strutture cognitive.
La finalità della scuola non è quella di incentivare indiscutibilmente le attitudini del discente: non si
tratta solo di insegnargli ad utilizzare le risorse che possiede, ma di dotarlo di ulteriori competenze,
insegnandogli a valutare di volta in volta la modalità di apprendimento più pertinente alla situazione
specifica. Svolgere compiti con stili differenti porta lo studente a mettere in gioco strategie
alternative, allenandosi all’utilizzo di approcci diversi che ampliano le sue capacità di apprendimento.
Insegnare tenendo conto degli stili di apprendimento significa trovare il giusto equilibrio tra il rischio
di ipertrofia, ovvero un eccesso di stimoli che lo studente non ha gli strumenti per affrontare, e di
atrofia, che rappresenta, al contrario, una loro quasi totale assenza (Cadamuro, 2004).
Un metodo didattico efficace non si pone tanto l’obiettivo di modificare l’approccio proposto
dall’insegnante, quanto piuttosto di fornire allo studente gli strumenti necessari perché sia egli stesso
a costruire i propri processi di apprendimento, tenendo conto delle sue preferenze cognitive, dei suoi
limiti e della possibilità di sviluppare nuove competenze e strategie.
Significa, di conseguenza, lavorare sulla costruzione di una impostazione metodologico-didattica che
renda l’individuo capace di auto-trasformarsi in relazione alle caratteristiche contestuali, le esigenze
formative, i ritmi e i tempi personali (Gaspari e Sandri, 2010); uno sfondo integratore che lascia spazio
all’auto-costruzione, ma che al tempo stesso che si impegna a direzionare, accompagnare e preparare
lo studente in questa sua nuova responsabilità.
1.3 Il bisogno di una didattica metacognitiva
Come spiega Cornoldi, non deve essere l’insegnante ad adeguarsi agli stili degli allievi, ma devono
essere gli allievi ad attrezzarsi per saper utilizzare le loro caratteristiche nel modo migliore (Falcinelli,
2016). È lo studente che deve essere in grado di saper organizzare il proprio apprendimento, operando
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delle scelte nella piena consapevolezza delle sue risorse: è ciò che permette il passaggio da un
impianto tradizionale, basato sulla trasmissione delle conoscenze, ad uno metacognitivo.
Termine cardine di questo cambio di paradigma è proprio la metacognizione, ovvero la capacità di
essere cosciente dei propri stati mentali ed emozionali (Zappaterra, 2004) e di ragionare su tali
strutture per capire come penso e come apprendo.
L’attività di pensiero è qualità specificatamente umana ed è ciò che rende possibile l’emancipazione
da risposte meramente impulsive e abitudinarie (Dewey, 2019). Il pensiero ci permette di non
limitarci a vedere le cose per come sono, ma guardarle per come potrebbero essere. Ci consente di
inventare, di uscire dalla contingenza del presente, di arricchire la realtà di significati e valori.
Il pensiero, tuttavia, va educato, perché essere liberi di scegliere è un privilegio che porta con sé una
responsabilità, così come il rischio dell’errore: non è qualità statica e definita a priori, ma si evolve
attraverso i processi di apprendimento, nella relazione con l’altro. L’individuo, nel suo sviluppo,
impara a pensare.
In questa dinamica, la capacità di apprendere rappresenta una delle principali competenze trasversali
che influenza la realtà umana nei suoi molteplici aspetti.
Capire come avvengono questi processi significa auto-osservarsi in maniera oggettiva, distanziandosi
dalle nostre stesse strutture di pensiero; significa, in altre parole, riflettere consapevolmente sul modo
in cui organizziamo le informazioni per trasformarle in conoscenza. Come afferma Bruner, la
metacognizione è quella capacità di uscire dall’egocentrismo per assumere una prospettiva diversa
(Zappaterra, 2004). Una capacità che non si sviluppa in rapporto all’età, ma alla cultura: al contesto
in cui cresciamo e a ciò che ci viene insegnato.
La metacognizione si presenta, oggi più che mai, come bisogno: un bisogno di indagine del pensiero
nelle sue molteplici forme (logico, creativo, produttivo etc.) atto a ricostruire la complessità della
realtà in cui viviamo, composta da saperi articolati, non lineari, conflittuali (Cambi, 2009). Un
esercizio permanente di ricerca che permette di pensare criticamente, per retroazione, partecipando
alla costruzione di una società di individui consapevoli, critici e autocritici, liberi.
Da qui la consapevolezza che la nostra riflessione, nata dal bisogno di esplicitare le dinamiche che
conducono a porre la didattica sotto nuove prospettive, si inserisce all’interno di un contesto più
ampio: la necessità di imparare a conoscere e ripensare le nostre strutture di pensiero è una sfida ad
oggi sempre più centrale per realizzarci in quanto agenti indipendenti nella società.
Ma cosa significa, nel concreto, introdurre il pensiero metacognitivo all’interno del contesto
scolastico? L’insegnante può inserire nelle sue ore di lezione i processi metacognitivi modificando
l’approccio con cui presenta un argomento, proponendo degli obiettivi con molteplici soluzioni