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INTRODUZIONE
Fin dagli esordi la fotografia ha rappresentato per l’uomo un mezzo di comunicazione con il
mondo esterno che lo circonda. Ha stimolato nei fotografi la curiosità per la vita e per il reale,
di cui è divenuta testimonianza concreta, neutrale e diretta. Oltre a questo, la fotografia è stata
utilizzata come un modo originale di riflettere sulla realtà della “strada”, colta nella sua
istantanea bellezza o nella sua dirompente drammaticità, e il suo nuovo linguaggio si è
prestato altresì per un utilizzo più creativo del medium.
Il primo elemento caratterizzante, quello oggettivo e scientifico, si ricollega allo “stile
documentario”
1
che compare sulla scena della fotografia negli anni Venti del Novecento e la
cui idea centrale, quella appunto di produrre un “documento” dalla forma impersonale e
scevro di contenuto narrativo, affonda le sue radici nel lontano Ottocento. Tuttavia, solo con
Walker Evans sarà definito “stile”
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ed entrerà a pieno titolo nei generi artistici. Dunque,
secondo il critico Olivier Lugon, prima degli anni Venti il termine “documentario” è la
negazione dell’arte. Poi, negli anni Trenta, invece, vediamo il fiorire di una tendenza opposta
che li porta a concepirli come inscindibili: nasce l’“arte documentaria”. Tuttavia, si tratta
ancora di una posizione piuttosto ambigua in quanto si vuole far assurgere la fotografia al
rango dell’arte accettando l’automatismo del medium, la sua meccanicità, tenendo fede alla
finalità della registrazione del reale, in linea con le Avanguardie e in controtendenza con il
pittorialismo ancora dominante. Questo “approccio” conduce ad esiti confusi sia nella forma
sia nella missione dell’arte documentaria. Viene accettata la concezione della pratica
documentaria in generale come arte, ma non si spiega come mai solo per certi lavori artistici.
Soltanto nel corso degli anni Trenta, dopo la riscoperta di Eugène Atget e con il lavoro di
Walker Evans e di August Sander, avviene finalmente la dissociazione tra “documento” e
“documentario” e l’arte documentaria entra a pieno titolo nella categoria estetica, anche se
ancora in modo dibattuto
3
. A partire dalla fine degli anni Quaranta, quest’arte a poco a poco
1
O. LUGON, Le style documentaire. D’August Sander a’ Walker Evans 1920-1945, Editions Macula, Paris
2001; tr. It. (a cura di Caterina Grimaldi) “Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker
Evans 1920-1945”, Mondadori Electa S.p.A. Milano 2008, pp. 15-17
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Ivi, p. 19. Lugon riprende un’intervista di Walker Evans in cui sostiene: “Un documento ha un’utilità, mentre
l’arte è davvero inutile. Perciò l’arte non è mai un documento, anche se può adottarne lo stile.”
3
Ivi, p. 26: “Da qualsiasi angolazione la si voglia guardare, l’idea di “arte documentaria” rimane un paradosso.
Perché volersi avvicinare ad una visione puramente meccanica dovrebbe essere il mezzo più sicuro per fare della
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declina e sparisce lasciando spazio ad altre forme come la fotografia umanista e il nascente
fotogiornalismo.
Torniamo ora al secondo aspetto della fotografia con finalità documentarie, che avevamo
introdotto inizialmente, ossia quello più riflessivo, quello che mostra un legame più sciolto
con tutto ciò che ci accade intorno. Esso si collega, a partire dal dopoguerra, al contenuto di
una nuova categoria chiamata fotografia di “strada” o Street Photography. Gli artisti di questa
generazione che hanno iniziato a lavorare su un tale “genere” non si sono mai identificati in
esso in modo completo, sia perché ne hanno sperimentati diversi ad ampio spettro, sia perché
si tratta, come vedremo, di un’etichetta che annovera da sempre esperienze molto diverse fra
loro. Non solo gli esiti formali sono stati variegati perché caratterizzanti il linguaggio
specifico di un autore, ma anche gli “stili” adottati sono stati difformi, se per stile
consideriamo una “combinazione di forma e contenuto che detta insieme pensiero ed
espressione”
4
.
Il dibattito sulla natura della Street Photography è proseguito tra gli storici e i teorici, lungo il
solco della vecchia tradizione: si tratta di “arte” o “documento”, o una combinazione di
entrambi che introduce una sorta di nuova “arte documentaria”? Anche con l’avvento della
Street non si giunge ad una visione comune. Di certo esiste uno stretto legame della Street con
la tradizionale fotografia documentaria da un lato e con il fenomeno del fotogiornalismo
dall’altro. Lo studioso americano Clive Scott
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sottolinea la complessa natura di queste generi
artistici analizzando il passaggio da Atget a Henri Cartier-Bresson, e arriva a separare (e ad
equiparare) i due generi non facendone più un discorso estetico, ma piuttosto di approccio ad
un contesto. Osserva come Lugon nella sua analisi abbia “scartato” i francesi Cartier-Bresson,
Doisneau, Kertéz (a parte Atget) perché in quel paese non ritrova più nelle pratiche la
neutralità del “documento”, ma all’opposto una fotografia narrativa, il reportage, che esalta
l’istantanea e le inquadrature periferiche.
Uno degli aspetti fondamentali e comuni in tutte le pratiche della nuova Street Photography è
il tempismo nell’esecuzione. Lo scopo principale, che porta a risultati finali anche molto
diversi, consiste nel riprendere i soggetti in situazioni reali e spontanee, cogliendoli in
momenti inaspettati.
fotografia un’arte? Come pretendere sulla scorta di Walker Evans di lasciare le cose esattamente come sono e
tuttavia produrre un lavoro di autore?”
4
R. BARTHES, Il grado zero della scrittura, trad. it. Einaudi 1982, p. 46
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C. SCOTT, Street Photography. From Atget to Cartier-Bresson, I.B Tauros 2007, p. 15: “street
photography puts us in a taxonomic quandary, not only because it stands on the crossroads between the tourist
snap, the documentary photograph, the photojournalism but also because it asks to be treated as much as
vernacular photography as a high art one”
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Henri Cartier-Bresson (Chanteloup, 1908 - Montjustin, 2004) è il punto centrale di questo
nostro lavoro in quanto a metà del XX° secolo è stato il più grande interprete e innovatore di
tutti gli aspetti precedentemente menzionati: autore di servizi di fotogiornalismo
documentaristico da tutto il mondo e, allo stesso tempo, creatore di immagini spontanee con
una combinazione perfetta di elementi compositivi, che lo hanno designato artista e teorico
della poetica innovativa del “momento decisivo”. In realtà, una poetica simile per certi aspetti
e antesignana era stata già avanzata qualche decennio prima con l’esperienza del
fotodinamismo che, nell’ambito del movimento futurista, aveva introdotto la “visione
istantanea” e aveva coniato per la prima volta nella storia l’espressione di “fotografia
candida”
6
.
La presente ricerca si focalizza sull’analisi della cosiddetta età dell’oro del nuovo genere
“documentario” e di quello che definiremo il suo correlativo, ossia la Street Photography,
così come teorizzati e praticati da Henri Cartier-Bresson e da altri grandi maestri tra cui
William Klein e Garry Winogrand, a metà del secolo scorso fin verso gli anni Sessanta.
Sullo sfondo dei principali eventi storici mondiali che hanno caratterizzato il dopoguerra, si
passeranno in rassegna i luoghi più importanti che hanno celebrato la genesi di un “genere”
artistico e che hanno visto applicate queste poetiche. In Occidente, da Parigi a Londra, fino a
New York la vita metropolitana è un pullulare continuo di stimoli, di idee, di spunti di vita.
Ma anche un teatro di eventi drammatici: gli scontri sociali, le contestazioni politiche, le
contraddizioni ideologiche. E poi c’è l’Oriente. La guerra fredda fra est e ovest, con il blocco
sovietico e la costruzione del muro di Berlino, la crudeltà della guerra del Vietnam, i violenti
conflitti indo-pakistani.
A questa grande ondata fa seguito un momento di maggiore stasi, in cui intervengono dibattiti
nuovi. Gli slanci del fotoreportage hanno dapprima una battuta d’arresto, poi un ripiegamento
interiore, continuando lungo la loro strada, ma seguendo il filone della fotografia “umanista”.
Tra gli anni Settanta e Ottanta era infatti riapparsa la discussione sull’aspetto
documentaristico della fotografia e la storia dell’arte documentaria torna ad essere un
fondamentale punto critico di riferimento. Secondo la critica inglese Liz Wells
7
, era ritornato
in auge il dilemma filosofico riguardo la distinzione cartesiana tra soggetto e oggetto, tra
osservatore e osservato. Queste riflessioni avevano smascherato il mito del documentario
6
B. NEWHALL, The History of Photography, The Museum of Modern Art 1982; trad. It.: Storia della
fotografia, Einaudi 1982, p. 311: “Il direttore di un giornale inglese, vedendo quelle immagini [Visita di uomini
di stato tedeschi a Roma nel 1931 di Erich Salomon], così profondamente diverse dai soliti ritratti presi in studio,
le battezzò «fotografie candide», un’espressione di cui il pubblico subito s’impossessò”.
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Cfr. L. WELLS, Photography: A Critical Introduction, Routledge 2004
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come verità vista in modo neutrale e assoluta. Prima i fotografi erano considerati come
“ricettori d’immagini” con un alto grado di oggettività e un basso grado di creatività,
quest’ultimo relegato al riconoscimento di alcuni momenti narranti, ricchi di pathos, seguendo
il filone del “momento decisivo” cartier-bressoniano. Poi, a partire dagli anni Settanta, la
visuale si allarga e inizia ad affacciarsi la preoccupazione sulla “politica” di rappresentazione
in pubblico: le fotografie sono esaminate in relazione al loro contesto di produzione, alle
intenzioni e alla capacità del fotografo. Gli interrogativi che ci si pone riguardano “chi” deve
fotografare e “che cosa”, con “quali modalità” e per “quali scopi”. La fotografia di “strada”
persuade la gente a guardare la realtà da altri punti di vista più soggettivi, razziali, di genere,
di classe, di etnicità e rende l’osservatore, a sua volta, sempre più in grado di diventare un
“produttore di immagini” sociali. Allo stesso tempo, nel campo sociale, la Street Photography
più impegnata oscilla confondendosi con il genere fashion e con l’advertising, e talora cede il
passo alla televisione che è una nuovo medium più adatto nella società moderna alla
veicolazione di immagini foto-giornalistiche in movimento sull’attualità.
Un’ulteriore svolta arriva a partire dagli anni Novanta quando si assiste ad un nuovo e
frenetico movimento di fotografi che, sull’onda dell’avvento del digitale, vengono alla ribalta
con altri contenuti, benché non incuranti dei capisaldi storici del genere, quali ad esempio la
compostezza formale, la ricerca del momento “candido” e un certo distacco emotivo.
Seguendo il punto di vista di Clive Scott
8
, le nuove modalità documentaristiche e artistiche
possono coesistere nella stessa immagine fotografica, anche se hanno obiettivi diversi.
Entrambe le tipologie di pratiche avvengono all’aperto e implicano momenti “spontanei”, ma
la fotografia documentaria è l’analisi dettagliata di un soggetto che mira a raccontare una
storia in base ad un progetto, mentre la Street Photography è più temporanea e casuale e
riguarda l’immortalare una ‘slice of life’
9
.
Alcuni artisti del nuovo corso sperimentano modalità inconsuete, meno dirette dei loro
predecessori: Joel Sternfeld indaga il paesaggio americano mantenendo la sua distanza, così
come Thomas Struth esordisce con la fotografia in bianco/nero di città, strade, musei, profili
urbani con scorci inusuali, astratti, che richiedono maggiori tempi di posa. Lo svizzero Streuli
usa un teleobiettivo per “scegliere” individui in mezzo alla folla da ritrarre. La stessa tecnica
viene usata dall’americano Philip-Lorca diCorcia, anche se con lui gli individui, una volta
8
C. SCOTT, op. cit, p. 4: “street photography has profoundly different orientations and ideologies […] however
the modes can co-exist as the same time in the same image.”
9
Ibidem “[street photography] exploits the instantaneous in a way documentary does not”.
9
“prelevati” con il suo occhio dalla strada, in mezzo alla massa, acquisiscono una sorta di
eroica grandezza.
Anche in Francia vengono riprese delle considerazioni similari: il critico Gilles Mora
10
ha
riproposto l’idea di accostare uno street photographer della vita notturna parigina com’era
stato Brassai al flâneur baudelairiano. Ha ripreso l’appellativo usato da Charles Baudelaire
per indicare il borghese che passeggia per le strade e prova emozioni nell’osservare il
paesaggio nei suoi angoli più pittoreschi. Un concetto utilizzato anche dal critico Walter
Benjamin
11
per riferirsi all’osservatore moderno della società industriale e del contesto
urbanizzato alla ricerca di verità sociali ed estetiche. E a tal proposito Jean Clair,
commentando Henri Cartie-Bresson, aggiunge: «Ciò che dà a una fotografia la sua aura e la
distingue dal semplice documento risiede senz’altro nel fatto che l’intenzione dell’autore non
è mai evidente […] Nulla di premeditato, quindi, di composto, ancor meno di previsto»
12
.
Negli ultimi trent’anni la fotografia di “strada” ha visto poi l’emergere di un nuovo dibattito,
quello etico/legale. Pur non essendo l’obiettivo del presente lavoro, non possiamo non tenere
in considerazione questo aspetto analizzando le opere degli artisti contemporanei che, alla pari
dei loro predecessori, si trovano alle prese con “candid photographs”, pratiche veloci,
istantanee ed eseguite segretamente al fine di ritrarre soggetti ignari.
Le strategie da loro impiegate in questa grande arena, aperta al mondo intero, hanno portato
all’analogia con la “caccia”, concetto presto introdotto dalla critica americana Susan Sontag
13
,
che in modo molto arguto ha usato per la prima volta una terminologia comune a entrambe le
attività: “shooting”, “capturing” e “stalking”.
14
L’etica in base alla quale lo street photographer agisce è quella secondo cui ritrarre il
soggetto in un luogo pubblico è “fair game”. Sulla base di questo assunto, non c’è niente in
una fotografia di “strada” che non fosse già nella vetrina pubblica e, come dice Paul Frosh
15
,
il concetto “in pubblico” («in public») vuol dire nell’occhio pubblico affinché tutti vedano e
possano essere fotografati.
10
G. MORA, Photo Speak; A guide to the Ideas, Movements and Techniques of Photography 1939 to the
Present. Abbevill Press 1998; p. 186: “Street photographers pursue the fleeting instant, photographing their
models either openly or surreptitiously as casual passerby or as systematic observers.”
11
Cfr. W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, ed. it. a cura di Enrico Ganni, ed. Einaudi 2010
12
J. CLEAR, (Introduzione di) in H. CARTIER-BRESSON, Henri Cartier-Bresson, Foto Note – Contrasto 2004
13
SONTAG S., On Photography, Farrar, Strauss and Giraux, New York 1973; tr. It. Sulla fotografia: realtà e
immagine nella nostra società, trad. di Ettore Capriolo, Einaudi, Torino, I ed. 1978, p. 13: “come l’automobile,
la macchina fotografica viene venduta come arma predatrice, automatizzata il più possibile e pronta a scattare.”
14
Ivi pg. 14: “Tuttavia l’atto di fare una fotografia ha qualcosa di predatorio. Fotografare una persona equivale a
violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere;
equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto”.
15
P. FROSH, The public eye and the citizen voyeur: Photography as a performance of power. Social Semiotics,
(2001), pp. 43-49: “the public eye is not an organ that one appears ‘before’; it is something that one is in”.