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1. Introduzione
Il presente scritto intende prendere in esame il legame tra due macro-tematiche che non sono
istintivamente allineabili ma che, soprattutto grazie all’attenzione di studi più recenti, sono state
analizzate come qualcosa di visibile con lo stesso sguardo: l’audiovisivo e la rappresentazione
inclusiva al suo interno. La parola chiave che mi piace pensare come motore di questo progetto è un
termine che in qualche modo connette il cinema e la parità: l’attenzione. Credo infatti che la sua
mancanza sia una delle piaghe del mondo in cui viviamo e di quello che ci ha preceduti: se tutti
avessimo più cura e prestassimo più attenzione a quello che passivamente vediamo, ascoltiamo,
leggiamo e a quello che attivamente diciamo e facciamo, riusciremmo a riconoscere più rapidamente
le nostre lacune e quelle degli altri. In una realtà nella quale abbiamo potenzialmente accesso a tutto
ciò che esiste, diventa fondamentale impegnarsi alla selezione e allo sguardo critico. Questo non
significa stabilirsi in una comfort zone o vivere in una camera dell’eco nella quale siamo circondati
da persone e contenuti che ci assecondano, riflettono e confermano opinioni e pensieri che già
abbiamo, bensì allenare i nostri occhi e costruire una lente coerente con la quale osservare il mondo,
mettendo in crisi tutti i nostri bias cognitivi, i codici, i preconcetti e i pregiudizi interiorizzati a cui ci
siamo inconsciamente prestati sin da piccoli senza mai cogliere l’occasione di problematizzarli.
L’attenzione è anche quella che ci permette di guardare un film o una serie tv, di capirne le dinamiche,
di prevedere le mosse dei protagonisti, di empatizzare con loro e di fare nostra quella storia o, per lo
meno, quel momento in cui stiamo seguendo quella storia. Utilizzando un verbo familiare al mondo
cinematografico, è importante inquadrare, ma anche inquadrarsi e prendersi la responsabilità di
sostenere quello che si pensa e saper argomentare cosa ci ha spinto a prediligere quella visione,
riconoscendo quanto pesa il nostro “zaino invisibile”
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di privilegi e quali sono state le nostre
possibilità. Per farlo, non si può però non tenere conto anche di quello che invece non abbiamo visto,
delle cose che ci sono state precluse, dei benefici di cui non abbiamo potuto usufruire in prima persona
o di quelli che qualcuno non ci ha voluto offrire.
Lo scrittore Italo Calvino, nel suo libro Palomar, scrisse: “in un’epoca e in un paese in cui tutti si
fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l’abitudine di mordersi
la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto
della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto.”
Al mio terzo morso di lingua ho capito che dovevo raccogliere questi miei interessi e trarne qualcosa
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Peggy McIntosh, White Privilege: Unpacking the Invisible Knapsack, https://nationalseedproject.org/Key-SEED-
Texts/white-privilege-unpacking-the-invisible-knapsack.
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di concreto, così ho scelto di scrivere la mia tesi di laurea sul vissuto e sulla narrazione femminile e
intersezionale nei prodotti di intrattenimento, che da sempre rappresentano una mia grande passione
e attirano il mio tempo e la mia curiosità come contenitori di tanti significati che, più che rispecchiare,
traducono la società per quella che è. Apprestandomi a discorsi di genere, non ho potuto – e voluto –
trascurare quello a cui appartengo, a cui ho desiderato dare voce e spazio, arricchendo il “viaggio”
con riferimenti e fonti di ogni tipo: letterarie, cinematografiche, sociologiche, psicologiche. Ma ho
anche attinto molti spunti dal web, dai social media e dai social network, da dirette, videoconferenze
e podcast che oramai occupano un posto di rilevo nel mondo della comunicazione e riescono ad
avvicinarsi in maniera più semplice e schietta al mondo giovanile.
Proponendo una visione personale e critica di prodotti audiovisivi, partendo dai film e concludendo
con le serie tv, esaminerò le storie portate sullo schermo e i protagonisti – ma soprattutto le
protagoniste – che le interpretano, avvalendomi di una lente intersezionale che sia in grado di zoomare
i contesti e le circostanze senza alcuna pretesa di imparzialità. In particolare, facendo mie le
affermazioni di Mittel:
In questa tesi intraprenderò un viaggio propedeutico, la cui prima tappa saranno le origini, la nascita
e la definizione di intersezionalità, nozione fondamentale per poter proseguire il percorso poiché
ricorrerò sempre – esplicitamente o implicitamente – a essa. Infatti, riprendo le parole utilizzate
dall’attivista che ha coniato il termine, Kimberlé Crenshaw, durante il suo Ted nel 2016:
Il passo successivo sarà quello di analizzare il ruolo delle donne all’interno dell’audiovisivo e le
differenze tra il “viaggio dell’eroe” e il “viaggio dell’eroina”, concentrandomi in modo specifico su
come avvenga la rappresentazione femminile e su quale sia lo sguardo che la osserva, in termini
concettuali, ma anche percentuali.
Attraverso le nozioni della Feminist Film Theory su come l’inconscio del patriarcato abbia
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Jason Mittell, Complex Tv, Minimum Fax, Roma, 2017, p. 226.
Non sostengo di essere oggettivo né neutrale, perché sono
pienamente consapevole che il mio gusto personale mi
abbia indirizzato su quali programmi analizzare.
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Quando un problema non ha nome non lo si riesce a vedere
e, quando non lo si riesce a vedere, non lo si può risolvere.
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strumentalizzato la forma cinematografica, introdurrò infatti i concetti di male gaze (Laura Mulvey)
e di male glance (Lili Loofbourow), arrivando anche a spiegare il female gaze (Joey Soloway) e le
motivazioni per cui non possa essere un semplice contraltare del primo.
Partendo dalla visione del cinema come ottimo veicolo di inclusività, la questione sarà dapprima
arricchita con la tecnica del trauma porn, spesso portata sullo schermo in compagnia di personaggi
“fuori dalla norma” a cui spesso è riservato un esasperato dolore e mai un lieto fine. A tal proposito,
si parlerà di come spesso si inseriscano determinati personaggi soltanto per ottenere più consensi: il
riferimento è al tokenism e al cosiddetto washing, ovvero la tendenza a pubblicizzare e farsi portatori
di un’inclusività che nel concreto non c’è ed è solo di facciata, con l’intento di raccogliere più
approvazioni possibili da parte di tutti i tipi di pubblico. In seguito, l’approfondimento verterà
sull’illustrazione di metodi empirici utilizzati per la valutazione dell'impatto di personaggi femminili
nelle trame di opere di finzione. Il principale test preso in considerazione sarà quello di Bechdel, che
verrà sviluppato anche in relazione alle sue varianti o alternative: Mako Mori, Sexy Lamp, Furiosa e
Anti-Freeze. Verranno proposti esempi di film che passano o meno i test, accompagnati da
considerazioni su come questi esiti, negativi o positivi che siano, non determinino assolutamente il
“grado di femminismo” di un film. Ci sarà anche un paragrafo dedicato a quelli che sono i principali
tropi femminili che ritroviamo nella maggior parte dei film, ovvero a personaggi con determinate
caratteristiche e peculiarità che vengono riproposti continuamente e con poca originalità.
Infine, verrà affrontata la serialità televisiva e l’impatto che questa ha avuto e continua ad avere sulle
persone e su tutto l’immaginario collettivo. “Tu eri per me ciò che per gli anni Novanta è
stato Friends” cantano in Tetris i Pinguini Tattici Nucleari, una frase che riassume in maniera
semplice e diretta la realtà dei fatti: ci sono epoche che ci viene davvero difficile immaginare senza
la cornice visuale della settima arte che, con la sua potenza espressiva e narrativa, lascia segni
indelebili nelle generazioni, nel tempo e nella storia. Focalizzandomi sull’importanza della
rappresentazione e della rappresentanza inclusiva, ho selezionato alcuni personaggi di serie televisive
che mi hanno molto colpito, ognuno per motivi diversi: alcuni perché scomodi, altri così giusti da
essere quasi irritanti, altri destabilizzanti e altri ancora stimolanti perché appartenenti a realtà a me
pressoché estranee. Oltre alla “cultura” e alla conoscenza di serie televisive che possiedo, essendone
una grande fruitrice, per capire come legare al meglio l’analisi dei protagonisti e il concetto di
intersezionalità, è stato fondamentale il libro Eroine di Marina Pierri – giornalista televisiva, co-
fondatrice e direttrice artistica del FeST, il Festival delle serie tv – nel quale vengono approfondite
ventidue protagoniste (tra le quali alcune di cui scriverò anche nel presente lavoro): alla base di questa
indagine, l’autrice ha utilizzato il libro Il Viaggio dell’eroina di Maureen Murdock, nato in risposta
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all'Eroe dai mille volti di Joseph Campbell, che introduce una teoria riguardante la struttura
mitologica del viaggio dell' “eroe archetipo”: un archetipo è una scatola cinese che ne contiene tanti
altri perché corrisponde a una pluralità di raffigurazioni, cioè a un “gruppo simbolico”
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La pluralità sarà infatti un’altra delle parole chiave che terrò sempre a mente nell’analisi di queste
protagoniste, che raccoglieranno e susciteranno diversi spunti e prospettive. Così come avviene per
iniziative intraprese nel mondo reale, anche nel campo dell’audiovisivo è bene prendere in esame
diversi fattori per capire quali personaggi e contenuti mediali abbiano davvero contribuito a una
rappresentazione valorizzante della diversity - per quanto riguarda genere e identità di genere,
orientamento sessuale ed affettivo, etnia, età e generazioni, disabilità – senza cadere in cliché che non
fanno altro che proseguire quella linea già tracciata di modelli stereotipati che non possono
assolutamente rappresentare intere comunità.
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Erich Neumann, La grande madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili nell’inconscio, Astrolabio-Ubaldini,
Roma, 1981, p.18.
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2. L’intersezionalità
L’espressione “femminismo intersezionale” è stata coniata nel 1989 dall’accademica, giurista
e attivista afroamericana Kimberlé Williams Crenshaw per indicare il sovrapporsi di diverse identità
e dinamiche sociali. Per farlo, ha utilizzato la metafora del traffico di un incrocio che va e viene in
diverse direzioni:
Il contesto nel quale si è sviluppata l’esigenza di formulare questa teoria era di tipo giuridico e
comparve per la prima volta in un articolo accademico: Crenshaw esaminò le diverse posizioni di
svantaggio delle donne nere, con riferimento alle leggi antidiscriminatorie, alle politiche antirazziste
e al femminismo. Ispirandosi a casi giudiziari riguardanti episodi discriminatori nei loro confronti,
prese in considerazione la vicenda di Emma DeGraffenreid (donna afroamericana, madre e
lavoratrice) che fece causa alla General Motors: la società automobilistica assumeva uomini neri –
solitamente per lavori industriali e di manutenzione – e donne bianche – per lavori di segreteria o
front-office – ma non donne nere: queste ultime si trovarono a sperimentare una situazione di
svantaggio che riguardava una doppia discriminazione, di genere e razziale. Il giudice respinse la
denuncia con la motivazione che il datore di lavoro aveva assunto afroamericani e donne, quindi il
tribunale non autorizzò Emma a mettere insieme le due cause d’azione e, invece di ampliare la cornice
per includere le donne nere, aveva scelto la via del rigetto, rendendo non legalmente perseguibile
questo episodio. Per la prima volta, il punto di incontro evidente tra due fattori discriminanti diveniva
però una problematica visibile che faceva emergere anche l’esistenza di gravi crepe legislative.
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Kimberlé Williams Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex, “University of Chicago Legal
Forum”, 8, 1989.
Se un incidente accade in corrispondenza di un incrocio,
può essere stato causato dalle macchine che
viaggiavano in una qualsiasi delle direzioni e, qualche
volta, da tutte. […] Ma non è sempre facile ricostruire
un incidente: a volte i segni della frenata e le lesioni
semplicemente stanno a indicare che questi due eventi
sono avvenuti simultaneamente; dicendo poco su quale
conducente abbia causato il danno.
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