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Premessa
Potrei scrivere che ho deciso di parlare di Trieste perché lì, per la prima volta
poco più che maggiorenne, ho frequentato la facoltà di lettere all’Università;
potrei scrivere che ho scelto di parlare di questa città nella mia tesi perché qui
ho vissuto per alcuni anni, per la sua indiscutibile bellezza, per l’amore per la
scrittura di Italo Svevo che mi aveva spinto non solo a trasferirmi, ma a
studiarlo ripercorrendo fisicamente tutti i luoghi dei suoi romanzi.
Potrei raccontare che quando studiavo all’università, nel 1998, Claudio Magris
insegnava Lingua e Letteratura Tedesca, e per ascoltare una sua lezione
bisognava svegliarsi particolarmente presto per garantirsi un posto nella sua
aula sempre molto affollata. Potrei raccontare di come era bello addentrarsi
nell’ex ospedale psichiatrico, del particolare fervore culturale del parco di San
Giovanni, potrei raccontare la sensazione eccitante di passare il confine così
vicino almeno due volte la settimana, respirare la Slovenia, la Croazia,
addentrarsi nell’interno della ex-Jugoslavia ed affacciarsi su un est vicino casa.
Invece l’idea di studiare la complessità dell’identità triestina è nata in me alcuni
anni fa, da uno strano episodio a cui ho assistito in un campeggio ad Opicina, a
pochi chilometri dal confine Fernetti. Mi trovavo lì per acquistare una piccola
roulotte, ed avevo appuntamento con il proprietario. Appena ci siamo
conosciuti, dopo pochi convenevoli, ha iniziato a decantare la sua precisione,
frutto, a suo dire, dell’origine austro-ungarica di tutti i triestini. Immediata è
stata la reazione di una signora che assisteva all’incontro, che arrabbiata e
amaramente colpita, interveniva sottolineando l’italianità pura di Trieste. In
neanche trenta secondi tutti i pacifici residenti del campeggio, discutendo con
un fervore per me inspiegabile, hanno discusso di origini, di Italia, di Austria, di
guerre, di eserciti, di fascismo e di Balcani. Ero colpita e veramente sorpresa,
come quando ci si trova di fronte ad un insolito fenomeno naturale che non
riusciamo a spiegarci.
Una ferita aperta, la difficoltà di rileggere il proprio passato, la necessità di
delineare la propria identità, di definirla per non vederla svanire. Da
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quell’episodio, e dall’amore per questa terra, l’idea di questa tesi ha preso
forma.
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Introduzione
Il complesso obiettivo che mi sono posta con questa tesi di laurea è quello di
districare un nodo ingarbugliato per ricavarne un discorso che possa analizzare
e definire il concetto di identità triestina. Voglio cercare di scardinare ed
illuminare con un ragionamento la complessità identitaria, etica e politica della
cultura di questa città adriatica attraverso i percorsi storici e culturali di un
travagliato novecento.
Mi sono chiesta, infatti, quali fossero gli avvenimenti, le inclinazioni politiche,
le confluenze religiose ed etniche da tenere in considerazione per inquadrare
il senso di inappartenenza che caratterizza l’identità triestina, il sentirsi
stranieri a casa propria, il vivere un non luogo. Mi sono chiesta se bastasse
evidenziare il complesso rapporto con l’impero asburgico, a cui Trieste
appartiene fino al 1918, la sua unica apertura culturale verso l’Europa, il suo
difficile rapporto con la madrepatria e soprattutto l’equilibrio precario con il
mondo slavo. Ecco, mi sono chiesta se ci siano stati dei momenti in cui il
processo identitario abbia subito una sorta di cortocircuito, come nel 1945
quando Trieste e l’Istria vengono divise in zona A e zona B, amministrate
militarmente una dagli Alleati e una dalla Jugoslavia
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, o forse nella significativa
accoglienza che si fece al fascismo, tanto da divenire l’unica città italiana con
un campo di concentramento ed un forno crematorio. E come non considerare
nel mio viaggio all’interno di questo cortocircuito i massacri delle foibe, gli
eccidi cioè di militari e civili della Venezia Giulia da parte dei servizi segreti ed i
partigiani jugoslavi.
Nel mio studio ho preso questi avvenimenti ed ho cercato di spiegare come
abbiano delineato non solo la questione identitaria triestina ma il suo denso
rapporto con la cultura e soprattutto con la letteratura. Ho cercato di
analizzare e comprendere il motivo di una continua ricerca di sé negli scrittori,
ed ho cercato di spiegare come le vicende storiche e culturali abbiano generato
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Per la cronologia esatta dei complessi eventi storici, tra l’inizio del Novecento e i nostri
giorni, si veda più avanti.
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una crisi identitaria alimentata anche dall’utilizzo della lingua italiana ed il
dualismo con quella che invece è considerata la lingua madre, il dialetto.
Soprattutto nei primi decenni del novecento si apprende l’italiano infatti solo
con l’accesso a scuola ed ancora oggi la lingua naturale di tutte le classi sociali
è il triestino; ho inoltre considerato come la zona di frontiera sia permeata da
una commistione con la lingua e la cultura slava. In questo lavoro ho cercato di
accendere anche un riflettore sull’esodo dalmata e su tutta la questione
giuliana, sull’Istria non più italiana nel dopoguerra e sulla sensazione di perdita
dell’identità piena che ci racconta questo territorio.
L’obiettivo di questa tesi è dimostrare quindi come tutti questi eventi abbiano
condotto ad una crisi dell’appartenenza, che ha portato molti autori a ricercare
attraverso la scrittura la propria identità. Ed il mio studio vuole dimostrare
quanto sia essenziale la figura di Franco Basaglia, con tutto il dirompente
processo narrativo che è riuscito a mettere in atto; mi sono chiesta infatti se
questo fosse l’unico luogo in cui Basaglia potesse attuare la sua rivoluzione,
perché a Trieste l’elemento dell’indagine psicologica è fondamentale e perché
questo luogo ha avuto bisogno di essere scardinato, la città aveva bisogno di
entrare ed uscire da un confinamento come ne avevano bisogno i degenti ed il
personale delle strutture ospedaliere psichiatriche. Riprendere il luogo
dell’Opp
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per Trieste è stato infatti un momento centrale, che ha permesso di
attuare una rivoluzione narrativa ed ha permesso finalmente di confrontarsi
con la storia ed il passato.
Il mio obiettivo è quello di dimostrare che l’approvazione della legge 180, cioè
l’apertura degli ospedali psichiatrici, è stato il primo passo per gli abitanti di
Trieste per riconoscere la parte altra, la parte diversa che Trieste non aveva
saputo accogliere e per questo il processo identitario aveva subito
un’importante rottura. Ho infatti annodato due storie, che portano all’identità
triestina, ho raccontato l’indagine psichiatrica di Franco Basaglia ed il problema
dell’accoglienza della parte slava, quella parte sempre esclusa in difesa di
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Ospedale psichiatrico San Giovanni, Trieste
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un’italianità che andava protetta dagli influssi esterni, quella parte che
allontanata ha reciso la totalità identitaria triestina.
La narrativa ha compreso che per ritrovare la propria totalità andava
raccontata la parte “altra”, come Basaglia ha capito che «per “aprire” i cancelli
degli ospedali psichiatrici è stato necessario mostrare e narrare quanto
accadeva al loro interno.»
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Ho cercato quindi di percorrere un viaggio, allontanandomi il più possibile da
un cliché ormai troppo utilizzato di città cosmopolita felicemente ibrida,
addentrandomi nell’anfratto dolente di una città che ha dovuto fare i conti con
gli spettri della sua storia e della sua posizione geografica; Trieste si specchia
in un’attenzione forzata verso la propria identità, si amalgama e si fonde con
lo spazio che la circonda, attraverso la letteratura contemporanea capisce che
non può più esistere senza la parte altra: senza il bilinguismo, senza gli sloveni,
senza il parco di San Giovanni ed il suo ospedale psichiatrico.
Ma Trieste assomiglia molto anche a Montréal. Speak white dicevano
sprezzanti nel Québec i canadesi di lingua inglese contro coloro che si
esprimevano in francese nei luoghi pubblici. (…) Laggiù i neri erano francesi,
da noi sloveni. E Gerusalemme? E Beirut? E Belfast? Pensi a Boris Pahor, so
che vi siete conosciuti, ebbene, non sembra un militante di Sinn Fèin? Come
avrà capito, sto nominando città che, senza il merito di nessuno, sono riuscite
a trasformare l’odio in una forma di convivenza, una forma di convivenza
dove si parla bianco. La Trieste che ci ha consegnato Svevo negli anni venti,
mi creda, è molto più somigliante a città del genere che a Vienna, la nostra
cara matrigna.
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Il mio lavoro si divide principalmente in due capitoli. Nel primo cerco di
attraversare con una panoramica la letteratura triestina del novecento,
toccando i diversi temi che ruotano intorno al processo identitario e cerco di
spiegare come la letteratura ha inquadrato queste problematiche evolvendosi
nel corso del tempo; dedico poi un paragrafo a Basaglia e al suo complesso
apparato narrativo, a una parte degli scrittori e dei processi artistici che hanno
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M. Guglielmi, Raccontare il manicomio, Firenze, Franco Cesati Editore, 2013, pag.28
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M. Covacich, La città interiore, Milano, La nave di Teseo, 2017, pag. 157
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abbracciato la sua rivoluzione e che hanno permesso l’evolversi di un vitale
movimento artistico e narrativo.
Nel secondo capitolo ho analizzato tre testi di autori contemporanei che sono
particolarmente vicini al tema dell’identità triestina e che meglio potevano
rappresentare le problematiche da me narrate: ho iniziato con Claudio Magris
ed il suo libro La Mostra, testo che si addentra nella spirale della lingua e del
mondo manicomiale. Magris inoltre è un autore essenziale per Trieste, per il
suo costante lavoro di indagine storica e di saggistica, ed ho basato molto della
mia ricerca sul suo libro Trieste. Un’identità di frontiera pubblicato nel 1982
insieme ad Angelo Ara. Ho poi analizzato La città interiore di Mauro Covacich,
altro testo che si raffronta completamente nella città e nei meandri del suo
essere multiculturale, ed ho scelto Covacich perché è un autore che ha
incentrato molto del suo lavoro nella pratica dell’autofiction, un’autobiografia
utilizzata come costante verifica di sé. Covacich cerca infatti di diramare i fili
dei complessi nodi identitari che lo portano a scrivere e raccontarsi,
scardinando il processo di falsificazione attraverso l’estremizzazione del reale
ed in questo testo lo scrittore si addentra non solo nella città natale sempre
presente nei suoi libri, ma anche nel territorio confinante dell’ex-Jugoslavia.
Ho deciso di chiudere il discorso della mia tesi con Paolo Rumiz, un giornalista
che con il suo lavoro di reportage ed i suoi viaggi poteva, in maniera forse più
lucida, concludere un percorso difficile attraverso i lineamenti della città
adriatica; ho scelto quindi Maschere per un massacro perché la conclusione, il
risultato del mio lavoro è quello dell’importanza di riconoscere e ritrovarsi nel
popolo situato al di là del confine, quel popolo sempre escluso per paura di
perdere un’italianità a tratti forse non sentita e quindi ostentata. Rumiz, nel
suo libro, riflette particolarmente sull’importanza della frontiera come garante
dell’identità, e credo che il nodo della complessa situazione contemporanea
sia proprio questo, distanziarsi da quei discorsi che volevano legittimare il
senso di appartenenza ad un solo stato, una sola lingua, una sola cultura,
perché Trieste non è questo, Trieste è una città che può riconoscersi solo
nell’altro, nel confronto, in un dialogo che può esistere solo quando, almeno,
si è in due.