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Il processo di naming nel mondo videoludico
Introduzione
Il nome di marca rappresenta il volto con il quale si presenta un’impresa, il primo veicolo
attraverso cui essa si pone sotto lo sguardo dei portatori d’interesse. Esso è compreso tra gli
elementi che concorrono a formare l’identità visuale del brand e ha costituito,
progressivamente in modo maggiore, oggetto di interesse da parte degli studiosi del settore
negli ultimi decenni. L’elaborato fornirà, in primo luogo, una panoramica su alcuni concetti
chiave della comunicazione d’impresa, utile a comprendere ciò che sarà osservato, in seguito,
nella parte concernente strettamente il nome di marca e la sua collocazione nella video game
industry. In particolare, si porrà sotto la lente d’ingrandimento l’identità della corporate, uno
strumento strategico estremamente rilevante per la gestione della stessa, analizzando alcuni
modelli (Rossiter e Percy, 1982; Bernstein, 1984; Kapferer, 1997), utili a orientare il board
aziendale nella costruzione o nella modifica dei tratti distintivi della propria organizzazione.
Inoltre, si cercherà di individuare la distinzione presente tra identità d’impresa e visual
identity, concetti che sono stati a lungo sovrapposti, ma i quali mostrano un confine tutt’altro
che flebile, fermo restando che la componente visuale costituisca una parte integrante
dell’identity mix. La personalità d’impresa sarà un altro degli elementi presi in esame, poiché
individua gli aspetti situati a un livello più profondo dell’impresa, ossia i suoi valori, la sua
cultura e la sua storia, oltre al suo orientamento strategico.
Nella seconda parte del presente lavoro il focus sarà diretto verso la disciplina costituita dal
naming, ossia il processo di denominazione di marche e prodotti adoperato dalle imprese. In
un mercato come quello attuale, caratterizzato da cambiamenti continui e repentini, il nome
con il quale la marca si presenta assume una rilevanza sempre maggiore (facile riconoscibilità
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della marca, memorabilità, adattabilità alle varie lingue, ecc.). Il capitolo verterà su un’analisi
atta a comprendere l’importanza del processo di naming, facendo riferimento al filone di
ricerche esistenti e ponendo in rilievo il ruolo del fonosimbolismo, oltre che le evoluzioni
dettate dal contesto di mercato contemporaneo. In ultimo, si tratterà il naming in ambito
videoludico, presentando il settore, per poi esaminare gli aspetti concernenti, più strettamente,
il naming. Tali aspetti saranno osservati a partire da un confronto tra alcuni brevi casi di studio
esaminati e ciò che si è rilevato nel secondo capitolo, al fine di verificare l’eventuale affinità
delle dinamiche relative al naming delle case produttrici (si tratti di grandi realtà o del contesto
indipendente italiano) con le linee guida tracciate dagli studiosi di questa materia.
1. Il brand naming nell’ambito dell’identity strategy
Il naming trova una sua collocazione nelle logiche di gestione dell’identity mix e rappresenta
una delle principali leve a disposizione del brand management per dare una direzione all’intero
apparato comunicativo dell’organizzazione. Tuttavia, prima di orientare l’elaborato verso
un’analisi che riguardi, in modo approfondito, il processo che porta alla decisione del nome
del brand, si rende utile trattare nozioni più generali. Concetti quali Corporate Identity e Brand
Awareness sono da considerarsi strettamente in collegamento al lavoro del board aziendale,
poiché trattasi di asset intangibili che, se ben studiati, costituiscono per l’organizzazione, oltre
che una risorsa, una sorta di checkpoint. Quest’ultimo termine, in particolare, rimanda al
mondo dell’intrattenimento videoludico. Il checkpoint è, infatti, un punto in cui, in alcune
categorie di video games, la partita viene salvata, automaticamente o su richiesta, permettendo
al giocatore di tornare in quella situazione in seguito a una sconfitta, anziché ricominciare da
capo. In questo senso, una solida Brand Identity, ad esempio, rappresenta per l’impresa un
punto fermo dal quale ripartire in seguito a eventuali periodi di difficoltà, oltre a essere, più in
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generale, una condizione necessaria per una comunicazione efficace all’indirizzo dei portatori
di interesse
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. I valori comunicati che concorrono a delineare l’identità della corporate
divengono, successivamente, oggetto di un processo interpretativo e percettivo da parte dei
suddetti destinatari, il quale condurrà alla formazione della corporate image. Sarà poi
responsabilità dell’organo di governo dell’impresa provvedere in modo continuativo alla
rilevazione degli eventuali disallineamenti tra identità e immagine al fine di intervenire
opportunamente per ridurli, fronteggiando così il rischio di un deterioramento della qualità
delle relazioni con gli stakeholders. Naturalmente, non risulta possibile per l’impresa
modificare in modo diretto la corporate image, poiché essa risiede nell’immaginario dei
portatori di interesse e, pertanto, è possibile gestirla esclusivamente attraverso un efficace
management dell’identità nel tempo.
1.1 L’identità di un’impresa
Nel corso delle passate decadi l’illustrazione di una chiara corporate identity si è dimostrata
essere uno strumento di primaria importanza per la governance aziendale, una cornice
paradigmatica dalla quale partire, al punto che si è iniziato a collegarla in modo diretto alla
gestione strategica dell’organizzazione (Marwick e Fill, 1997; Morison, 1997). L’identità che
caratterizza l’impresa gioca un ruolo di importanza significativa nello sviluppo
dell’organizzazione stessa, presentandosi come la maggior leva sulla quale si agisce per la
gestione di una delle quattro macro-aree della comunicazione d’impresa, ossia la
comunicazione istituzionale. Non solo, l’identità d’impresa costituisce il baricentro della Total
Corporate Communication (TCC); con questo termine si intende racchiudere la globalità di
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Tra gli stakeholders primari troviamo anche la proprietà (società, azionisti), i dirigenti, i clienti, i fornitori, i
business partner e i concorrenti; sono definiti stakeholders secondari le istituzioni, la comunità locale, il pubblico
(media e opinione pubblica) e i gruppi di rappresentanza e di pressione.
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forme e strumenti facenti parte della comunicazione d’impresa - vale a dire il suo agire
comunicativo, pianificato e non pianificato - andando a comprendere, pertanto, anche canali
non pienamente controllati dalla corporate. Solo nel caso in cui i dipendenti, i finanziatori e
gli altri stakeholders tenderanno a identificarsi nell’organizzazione e nei suoi valori, più o
meno espliciti, essa protenderà verso un’ottimizzazione delle proprie risorse e, in generale,
un’attività positiva nel lungo periodo. Un’ulteriore testimonianza di quanto, sin dall’ultimo
decennio del secolo scorso, sia cresciuta l’attenzione attorno al tema della corporate identity è
la formazione del ICIG (International Corporate Identity Group) nel 1994. Ciò non di meno,
si rende utile una digressione su quello che è il concetto generale di identità. La parola
“identità” è definita dal Collins English Dictionary come l’insieme delle caratteristiche
individuali attraverso cui è possibile riconoscere una persona o una cosa; tale riconoscimento
avviene mediante una differenziazione che può essere influenzata da fattori visivi come scelte
di abbigliamento, gestualità e capigliatura. Tuttavia, non sono i soli elementi visivi a
concorrere alla suddetta differenziazione e, talvolta, essi possono persino essere considerati
fuorvianti. Per questo motivo è utile fare riferimento ad altre caratteristiche individuali, poste
a un livello più profondo, quali comportamento, propria visione del mondo e forme di
comunicazione verbale e non verbale. Proprio come per gli individui, anche le organizzazioni
dispongono di una propria identità (Bernstein, 1984). Quest’ultima costituisce la maniera in
cui la corporate si presenta agli occhi dei diversi stakeholders, il modo di cui dispone per
distinguersi dai competitor e, più in generale, da tutte le altre organizzazioni. La corporate
identity è l’articolazione di tutto ciò che l’organizzazione è, di quello che fa e di come lo fa ed
è collegata alle strategie che l’impresa adotta (Olins, 1990; Topalian, 1984). Inoltre, l’identità
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d’impresa è pianificata in modo da fornire una varietà di “cues”
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agli stakeholders in merito
al modo in cui l’azienda vuole essere percepita. Quest segnali sono posti in essere in modo
che ciascun messaggio arrivi esattamente al pubblico di riferimento per cui lo si è pensato e
garantisca l’obiettivo per cui è stato progettato. È tipico di questo tipo di comunicazioni
pianificate l’uso di corporate identity programmes (Abratt, 1989; Balmer, 1995; Cutlip, Center
and Broom, 1994; Dowling, 1986,1994; Grunig and Hunt, 1984; Olins, 1978; Van Riel, 1995),
abbreviati con l’acronimo CIP. Essi forniscono piani d’azione e checklist che possono essere
utili nel processo di decision making operato dai componenti dell’area comunicativa
dell’impresa, in special modo nel caso in cui si voglia agire per modificare l’identity. Molti di
questi piani hanno in comune una strategia composta da quattro fasi. In primo luogo, avviene
il riconoscimento del problema, il quale è seguito dalla fase di sviluppo della strategia volta a
risolverlo; ancora, il terzo step prevede l’esecuzione di un piano d’azione e, infine, si procede
all’implementazione dello stesso piano. I CIP non possono essere considerati “tradizionali”
piani multi-fase, bensì sono definibili in modo più appropriato programmi di ricerca iterativi
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.
Ancora, molti di essi sono il risultato di un cambiamento interno (mutamenti
nell’organigramma aziendale, riduzione o aumento del personale) o proveniente dall’esterno
(fusioni, privatizzazioni, variazioni della quota di mercato). È necessario far presente che,
prima di attuare un procedimento di questo tipo, i senior manager
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tengono in considerazione
fattori quali la possibilità di snaturamento dell’identità storica o il rischio di inficiare i punti
di forza dell’impresa tramite un cambiamento nell’identità. Solo qualora l’esito di tali e di
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Dei segnali, una sorta di indizi riguardanti l’identità dell’impresa e esternati dalla stessa all’indirizzo dei
portatori d’interesse.
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Sono attuati mediante operazioni ripetute.
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costituiscono l'alta direzione, cioè quel numero ristretto di persone (presidente, amministratore delegato,
direttore generale, segretario generale, ecc.) che ha responsabilità e autorità sull'intera azienda.
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numerose altre considerazioni, derivanti dalle diverse fattispecie, suggerisca la necessità di un
rinnovamento si procederà allo sviluppo del piano d’azione.
1.2 Metodi di definizione dell’identità d’impresa
Vi sono diversi modelli che permettono al board aziendale di meglio comprendere e
valorizzare l’identità della propria impresa (Balmer e Stotvig 1997; van Riel 1995; Ind 1997).
Nella fase di costruzione di un marchio, il fine ultimo dell’impresa è quello di ottenere la
fedeltà alla marca da parte dei consumatori. Da un punto di vista commerciale, ciò significa
miglioramento della redditività (Kapferer, 2008). Kapferer (1997) fornisce una tra le più,
ancora oggi, conosciute e citate visioni dell’identità di marca da una prospettiva brand-based.
Il suo prisma esagonale rappresenta un efficace strumento per comprendere l’essenziale
differenza tra un brand e i suoi competitor e si basa, come intuibile, su sei componenti centrali.
Il primo di essi comprende gli elementi fisici; si tratta degli elementi di base del brand,
l’insieme delle caratteristiche esteriori e oggettive che lo contraddistinguono. La seconda
componente è costituita dalla personalità; la marca, infatti, viene identificata come fosse una
persona e ha, pertanto, una sua personalità, un modo di porsi nei confronti del pubblico, un
tono di voce, un carattere. La cultura rappresenta il terzo lato del prisma; ogni brand è, a tutti
gli effetti, un universo culturale, un sistema di valori, un pacchetto di significati profondi. Il
volto culturale della marca è quello dei suoi princìpi fondamentali, delle sue origini. Il quarto
elemento centrale è la relazione, ossia il tipo di rapporto umano, lo scambio intangibile che la
marca supporta instaurando, a volte, un vero e proprio legame tra le persone. La quinta
componente fa riferimento al riflesso; la marca riflette una certa immagine del suo segmento-
target. Non si tratta del target in sé, ma è l’immagine esteriore dell’utilizzatore ideale, molto
spesso rappresentata dal testimonial scelto per le campagne comunicative. In ultimo, troviamo
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la mentalizzazione (self image); essa rappresenta la funzione di auto-espressione che ha il
brand: è l’immagine del consumatore derivata dall’uso della marca.
Stabilire l’identità d’impresa desiderata comporta un “posizionamento” da parte della
corporate. Altri autori hanno definito questo processo come corporate branding (Balmer,
1995) o trasferimento verticale dell’immagine del brand (Van Riel e Maathuis, 1993). Uno dei
principali problemi che insorgono quando c’è la volontà di stabilire l’identità desiderata risiede
nel fatto che molte delle metodologie disponibili si riferiscono, in realtà, a un posizionamento
meramente relativo al prodotto, piuttosto che a uno riguardante la corporate. Il metodo IDU di
Rossiter e Percy (1982), pur facendo parte della prima categoria menzionata, può essere
adattato per un uso avente l’obiettivo di determinare l’identità dell’organizzazione. In
particolare, questo metodo ha lo scopo di individuare i benefici percepiti da alcuni
stakeholders chiave (soprattutto esterni all’impresa) come importanti (I), forniti dall’azienda
(D, “delivered”) e unici (U) o distintivi a fronte di una comparazione con quelli proposti dalle
altre organizzazioni. Il metodo IDU può essere adoperato solo utilizzando tecniche di ricerca
quantitativa.
Vi è un metodo più pragmatico, tuttavia, con il quale è possibile stabilire l’identità
dell’impresa desiderata; il riferimento è allo Spiderweb Method (Bernstein, 1986), il quale
consiste nell’uso di una tecnica qualitativa e, più precisamente, in una discussione di gruppo
tra i membri del top management, quelli dell’area comunicativa e uno o più rappresentanti
delle unità aziendali. Un consulente esterno è chiamato a guidare la discussione stimolando i
partecipanti, in primo luogo, con domande generiche atte a descrivere l’organizzazione
(“Come descriveresti l’azienda essendo a una festa?”); seguono domande mirate a ottenere
descrizioni di natura più specifica e necessarie a riassumere quelle che, per ciascun individuo,