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Introduzione
Perché studiare ancora il mondo antico? Innanzitutto perché ne siamo profondamente, a
volte inconsapevolmente, influenzati. I canoni dell’arte classica, per esempio, hanno
ispirato nei secoli pittori, scultori, architetti. Basterebbe camminare per le strade delle
nostre città alzando il naso all’insù, ed ecco che potremmo osservare capitelli ionici,
foglie d’acanto o un timpano che decorano l’ingresso di una chiesa.
Per i grandi artisti, lo sguardo rivolto al passato ha da sempre rappresentato occasione di
crescita, di confronto, e, soprattutto, un momento di imprescindibile e fondamentale
ricerca, finalizzata alla nuova creazione.
Dall’Umanesimo, durante il quale i classici greci e latini venivano riscoperti e presi a
modello di riferimento, si afferma un nuovo modo di guardare all’antico. Gli umanisti
vedevano negli antichi un modello da seguire, e più procedevano nella scoperta e nella
traduzione dei loro testi, più si faceva chiara l'importanza di essi. Successivamente, il
ritorno del mondo classico permeava anche la cultura di epoca Rinascimentale.
Emblematico è il Teatro Olimpico di Vicenza, costruito da Andrea Palladio nel 1580-5
su commissione dell’Accademia Olimpica. Il teatro, fatto costruire appositamente per la
messinscena di testi classici, si richiama ai principi classico-romani descritti da Vitruvio,
e viene inaugurato proprio con la rappresentazione di una tragedia greca: l'Edipo Re di
Sofocle. Anche il periodo Barocco, nonostante la spiccata tendenza alla stravaganza e
all’eccentricità, continuava a mantenere uno stretto rapporto col passato, rielaborato in
chiave originale da tutti i più grandi artisti dell’epoca: Bernini, Borromini, ecc., e così via
nel corso dei secoli seguenti
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.
Insomma, lo sguardo rivolto al mondo antico ha avuto da sempre un ruolo privilegiato
nel rinnovamento, anche radicale, della cultura, e ha profondamente influenzato l’uomo
delle generazioni successive, non solo per la produzione artistica e figurativa rimasta in
un certo senso insuperata, ma anche e soprattutto per i valori che ha tramandato.
In questo senso la Grecia fu maestra: gettò le basi del pensiero filosofico razionale (si
pensi ad Aristotele e Platone), della medicina moderna con Ippocrate, della fisica con
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Cfr. sull’argomento Bertelli 2017.
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Archimede, dell’astronomia e della matematica con Pitagora, Euclide, Talete, ecc.
Studiare il mondo antico è quindi di fondamentale importanza per riuscire a comprendere
e a spiegare il presente nella sua complessità e molteplicità.
Tuttavia, assodata la rilevanza culturale di quel mondo, e assodata la sua indispensabile
conoscenza per comprendere quello moderno, gli antichi ci riguardano soprattutto
<<perché i loro problemi, quelli che loro non sono stati in grado di risolvere, sono ancora
i nostri. […] Si entra in quella civiltà […] perché lì vediamo meglio ciò che, aggirandoci
nel presente, non sempre capiamo>>
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Non c’è infatti argomento a cui gli antichi non abbiano rivolto la loro attenzione: la
politica, la democrazia, la giustizia, il rapporto col divino, la felicità, l’amore, l’essere
umano. Cambiano i tempi e le circostanze, cambia la scena politica e culturale, ma l’uomo
nelle sue pulsioni e nei suoi tormenti è sempre lo stesso.
Più di ogni altra forma di espressione artistica e letteraria, è stata probabilmente la
tragedia greca ad aver avuto lo status di luogo deputato all’indagine umana. Infatti, come
scriveva Aristotele <<la tragedia è mimesis di un’azione>>
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di cui gli uomini sono
protagonisti, e attraverso il ‘mito’, che è <<principio>> e <<anima>>
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, rappresenta e
rispecchia la realtà. Ma piuttosto che fornire soluzioni, risposte, e soprattutto vie
consolatorie alle quali aggrapparsi, la tragedia (e il mondo antico in generale) muove
verso l’uomo di oggi delle vere e proprie ‘sfide’.
Ad esempio, Sofocle si interroga sul diritto naturale, sollevando con Antigone una
questione complicatissima: se possano coesistere dei diritti e dei doveri irrinunciabili,
accanto a quelli promossi dallo Stato. Ma è una vicenda in cui nessuno avrà la meglio,
tanto da concludersi con una serie di morti e con la rovina del Re. E ancora, con l’Orestea,
Eschilo mette in scena il dramma della Giustizia, della responsabilità e della colpa, in cui
ognuno si sente legittimato, dal proprio punto di vista, a versare sangue in nome di un
ordine da ristabilire.
In questo modo, attraverso la ‘problematizzazione’ di questioni fondamentali, gli antichi
<<ci insegnano a scartare le risposte facili e le facili consolazioni e autoassoluzioni>>
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Canfora 2017, pp. 62-63.
3
Aristot. Poetica, VI 1450 a 5, trad. Paduano.
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Ibid., VI 1450a 38.
5
Canfora 2017, p. 77.
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Non è più tempo di <<rimirare gli antichi, che è una via poco produttiva di continuare a
studiarli: dire che sono belli, interessanti e formativi. Tutto questo è vero, ma non basta.
Bisogna interrogarli sulle questioni cruciali che essi tentarono di avviare a soluzione […].
È in questo senso che non è retorica dire che essi sono tutt’ora dentro di noi>>
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.
Lungi dal rapportarsi al mondo antico con un atteggiamento che potremmo definire ‘da
museo’, ecco allora il manifestarsi dell’esigenza di trovare nuovi modi di rapportarsi
anche ai testi classici, in particolare a quelli scritti per il teatro, il quale rappresenta, oggi
come allora, il mezzo più utile alla diffusione di idee e di riflessioni.
Con ciò, non intendiamo dire che la tragedia necessiti di essere ‘attualizzata’, un classico
è infatti tale proprio perché è sempre attuale. Il bisogno di innovazione risiede piuttosto
nel fatto che questi testi, che risalgono a più di duemilacinquecento anni fa, furono messi
in scena in occasioni e contesti specifici, per un altrettanto specifico pubblico. Da allora
l’uomo è cambiato, è progredito, e con esso anche il modo di fare teatro: è quindi un
dovere trovare parole nuove che possano meglio adattarsi allo spirito della nostra epoca.
Tuttavia, come osserva Diego Lanza nel suo saggio Dimenticare i Greci, bisogna mettersi
in guardia dal voler forzatamente attualizzare ciò che si capisce bene solo se viene
inquadrato in modo accurato nel contesto storico e culturale cui appartiene. Se ci si limita
solo a cercare situazioni sulle quali proiettare modi di vedere e problematiche di oggi,
meglio sarebbe dimenticarli, questi greci
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Il primo passo da compiere per trovare un reale dialogo con l’antico, potrebbe essere
allora quello della traduzione, perché attraverso il linguaggio ci si rende conto anche della
complessità del pensiero, e solo avendola compresa, questa potrà essere restituita in una
nuova veste. Del resto “tradurre è il vero modo di leggere un testo”, così Italo Calvino nel
1982 intitolava uno dei suoi saggi
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; ma tradurre significa soprattutto operare delle scelte,
assumersi delle responsabilità, conferire al testo una propria e personale interpretazione.
Nel corso dei secoli, il concetto di traduzione ha suscitato non pochi dibattiti. Ci si è a
lungo interrogati sulle possibilità e sui limiti di tale attività, quasi mai giungendo a
conclusioni definitive. Da una parte chi, come ad esempio Benedetto Croce o più tardi
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Ivi p. 73.
7
Cfr. Lanza 2001.
8
Calvino 1982, Tradurre è il vero modo di leggere un testo in <<Saggi. 1945-1985>>, a cura di M. Barenghi,
Mondadori, pp. 1825-1831.
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Umberto Eco, ne sosteneva l’impossibilità, dal momento che una traduzione costituisce
inevitabilmente qualcosa di diverso rispetto all’originale, e dal momento che ogni singolo
fatto espressivo è dotato di una sua individualità. Dall’altra chi, come Giovanni Gentile,
valutava positivamente il ruolo di mediazione svolto dal traduttore. Tuttavia, tradurre è
sempre stata una necessità nel corso della storia, dall’antica Roma al Medioevo,
dall’Umanesimo al Rinascimento, dal Seicento al Romanticismo, fino ai giorni nostri.
Se, dunque, la traduzione rappresenta di per sé un’attività complessa e delicata, non
soltanto dal punto di vista teorico ma anche e soprattutto a livello pratico, la traduzione
di un testo antico ci conduce di fronte ad ulteriori questioni e problematiche.
La difficoltà nasce dalla distanza che ci separa da quel lontano passato: bisogna assumersi
la responsabilità di rendere accessibile e comprensibile un lessico, e con esso un bagaglio
di valori, che all’uomo moderno non appartengono più, in ragione dei quali tradurre
diventa ancora più arduo e soggettivo. In questo senso, il testo teatrale, e nello specifico
la tragedia greca, comporta un livello ancora maggiore di difficoltà, soprattutto se la
traduzione è finalizzata ad una rappresentazione. Infatti, le versioni destinate alla lettura
comportano modalità e tempi di comprensione differenti rispetto alle versioni pensate per
la messinscena, le quali, proprio in virtù della rappresentazione teatrale, necessitano di un
linguaggio più immediato e immediatamente comprensibile.
Agli inizi del Novecento, Ettore Romagnoli, grecista e letterato italiano, notava come in
realtà mancassero delle traduzioni adatte ad essere rappresentate, dal momento che quelle
allora a disposizione erano pregne di un linguaggio pomposo, accademico e letterario,
anziché scenico. Nell’ambito del suo programma di recupero della classicità, lo studioso
aveva portato a termine una colossale impresa di traduzione integrale dai tragici greci e
da Aristofane, conferendo alle nuove versioni una forma più ‘moderna’ e adatta per essere
portata in scena. Tuttavia, la vera svolta avviene nel 1960, quando Pasolini presenta al
grande pubblico del Teatro Greco di Siracusa una nuova versione dell’Orestea di Eschilo,
nuovamente tradotta su richiesta di Vittorio Gassman e Luciano Lucignani. La richiesta
dei due rappresenta un ulteriore passo in avanti rispetto alla strada già percorsa da
Romagnoli. Infatti, scartata una soluzione di resa da essi definita “archeologica”, che
tende, cioè, a riprodurre il dramma piuttosto che a farlo rivivere, e scartata anche una
soluzione che badasse soltanto alla forma estetica, l’unica alternativa possibile era quella
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di dare, attraverso parole nuove, una personale interpretazione della tragedia eschilea, che
dal loro punto di vista non poteva che essere una: quella ‘storica’
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Questa traduzione, con la sua volontà teatrale, segna una vera e propria rivoluzione nel
modo di concepire le versioni dei tragici greci. Se fino ad allora ad essere portate in scena
erano in maggioranza le traduzioni di Romagnoli, Valgimigli, e altri nomi appartenenti al
settore della filologia italiana, da adesso in poi, queste cederanno sempre più il passo a
quelle dei <<poeti nuovi o novissimi>>
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A distanza di più di cinquant’anni, anche gli “Anagoor”, compagnia giunta all’attenzione
del panorama teatrale internazionale dell’ultimo decennio, si cimenta in una nuova
traduzione dell’Orestea. Tuttavia, se per Pasolini fu una scelta in qualche modo casuale,
ma che si rivelò fondamentale, tanto da rappresentare il punto di partenza per quello che
poi divenne il suo “teatro di parola”, per gli Anagoor si è trattato invece di un’urgenza
sentita in prima persona. Il testo eschileo rappresenta per loro il punto d’arrivo di una
gestazione durata quasi quindici anni, durante i quali portano avanti un percorso di ricerca
teatrale incentrato sull’estetica dell’immagine e sull’uso del linguaggio.
Orestea. Agamennone, Schiavi, Conversio. Questo il nome dello spettacolo, presentato
per la prima volta il 20 luglio 2018 in occasione della “Biennale Teatro” di Venezia, con
un successo tale da far meritare alla compagnia, oltre al giudizio più che favorevole da
parte della critica teatrale, anche la consegna del Leone d’Argento. Lo stesso anno lo
spettacolo è stato poi presentato al Romaeuropa Festival, sul palco del Teatro Argentina,
nelle date del 2-3 ottobre. Qui ho avuto l’occasione di assistervi, nell’ambito di un
progetto, “Dialogo con gli antichi”, che la nostra Facoltà porta avanti assieme a “La Casa
dello Spettatore”, associazione culturale impegnata nella ricerca per l’educazione a teatro
e per la formazione del pubblico. Ho avuto poi la possibilità di leggere il copione che gli
Anagoor ci hanno gentilmente concesso, e di confrontarlo con il testo originale di Eschilo,
aiutata dalla traduzione di Raffaele Cantarella. Infine, ho potuto rivolgere personalmente
alcune domande alla compagnia, in un’intervista che si trova in appendice a questa tesi.
Quello che mi ha colpito maggiormente è stato il loro modo, del tutto originale, di
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Per ‘storica’, Gassman e Lucignani intendevano un’interpretazione di stampo marxista-thomsoniana, che
vede nella storia di Oreste una stratificazione di vari momenti della storia sociale, dalla tribù primitiva alla
monarchia, all’aristocrazia e infine alla democrazia.
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Premessa a Zoboli 2004.
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guardare all’antico e di dialogare con esso. Il lavoro svolto sull’Orestea si propone,
infatti, non solo come semplice traduzione, che pur rappresenta un aspetto fondamentale
della loro nuova creazione, ma come vero e proprio studio su di essa. Uno studio che ha
portato all’elaborazione di un’articolata e complessa stratificazione linguistica, gettando
le basi per un nuovo linguaggio teatrale che trova soprattutto nel multimediale e nelle arti
performative il suo elemento di contemporaneità.
Insomma, se è vero che <<al teatro greco si presta attenzione soprattutto per i conflitti di
passioni e di idee che rispecchia, per gli eroi e le eroine che presenta, per le questioni
morali, religiose e sociali che vi sono al centro>>; è vero anche che sempre più spesso <<si
finisce per vederlo quasi esclusivamente come prodotto di un interesse intellettuale, […]
e il fiuto, il senso, l’intelligenza del mestiere da parte dei tragici passano in secondo piano.
Ora, Eschilo, Sofocle, Euripide, non sono solo dei grandi scrittori […], sono degli
“esperti”, ricchi di trovate e di invenzioni>>
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. Per questo è giusto continuare a
preoccuparsi sulla loro visione del mondo e sugli interrogativi che affacciano nei loro
testi. Ed è giusto riportarli a nuova vita, perché l’assoluta venerazione che li vuole
intoccabili, quasi mai può condurre a nuovi approdi.
La ricerca di nuove parole e di nuovi linguaggi in fondo deriva proprio da questo: dal
bisogno di cogliere quella parola antica e di rielaborarla nel presente dei nostri giorni.
In questo senso, Pasolini e Anagoor sono esempi emblematici.
11
Albini 1972, p.1.