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Introduzione
Il presente elaborato si prefigge lo scopo di affrontare un delicato e sensibile
argomento sociologico, configurandosi dunque come uno studio sulla generazione
cinese degli anni Sessanta. Generazione peculiare, arrabbiata, che vivendo un
cambiamento storico importante, ossia la transizione ideologica dal comunismo al
capitalismo, manifesta un forte senso di inadeguatezza: si sentivano dei bastardi
culturali, orfani del maoismo, adottati dal capitalismo; la loro incapacità di ricostruire
un’identità definita e il loro ribellarsi a questo vuoto di ideali è riscontrabile
attraverso vari campi artistici: nel caso della mia tesi, in ambito letterario con lo
scrittore dei teppisti, Wang Shuo, e in ambito musicale con il padre fondatore del
rock cinese, Cui Jian.
Per sviscerare l’argomento, ho deciso di immergermi nella letteratura scientifica di
riferimento. Per la produzione del primo capitolo, mi sono affidata a manuali di
storia contemporanea come “La Cina del Novecento. Dalla fine dell’Impero a oggi”
di Guido Samarani, un manuale indispensabile per una contestualizzazione a livello
storico. Ho proseguito attingendo a saggi di critica letteraria per la stesura del
secondo capitolo, in particolare mi sono dedicata alla lettura di Geremie Barmé,
sinologo australiano e grande estimatore di Wang Shuo, nonché Yibing Huang, che
con il suo Contemporary Chinese Literature fornisce uno studio dettagliato dei
cosiddetti quattro bastardi della Rivoluzione Culturale. Per quanto concerne il terzo
capitolo, sono stati di grande utilità vari articoli giornalistici diffusi da CHIME,
rivista che si occupa della ricerca in ambito musicale cinese, pubblicata
periodicamente dal Conservatorio di Musica di Shanghai.
Nel primo capitolo si ripercorrono le tre giunture storiche fondamentali per la
creazione di questa generazione ribelle: la Rivoluzione Culturale, il periodo di
Apertura e Riforme con la conseguente introduzione al capitalismo e il brutale
attacco contro i rivoltosi di Piazza Tian’anmen. Si danno brevi cenni della
Generazione Tarda e si procede esplicando la conseguente nascita del misterioso
mondo underground.
Nel secondo capitolo si entra nel dettaglio analizzando uno degli autori più
sovversivi del panorama cinese: Wang Shuo. Mi sono presa la libertà di suddividere
il capitolo in modo anarchico, non seguendo il consueto schema biografia-
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caratteristiche- opere, per riprodurre lo stesso disordine, non solo nel contenuto ma
anche nella forma, che regnava nella Cina degli anni Ottanta. Ispirandomi al
dizionario di Maqiao di Han Shaogong, ho suddiviso i paragrafi in forma di
dizionario, dove ogni lemma mira a estrapolare un aspetto peculiare della sua
scrittura e delle sue caratteristiche per ricostruire la sua identità personale e come
scrittore.
Il terzo capitolo vuole essere un’analisi del fenomeno rock in Cina, seguendo un
approccio etnomusicologico. Questo genere, nasce come forma di contestazione, di
definizione e differenziazione sociale e si configura particolarmente adatto a
contrastare l’ideologia consumista. Esemplare è la figura di Cui Jian, fondatore
indiscusso del rock cinese, che ha saputo dar voce alla sua generazione persa.
In conclusione, nonostante non sia stato affatto facile trovare materiale bibliografico
in lingue a me accessibili, l’attività di ricerca mi ha permesso di conoscere un
frammento della società e della cultura cinese diverso e insolito, che ben si allontana
dallo stereotipo di uniformità e oppressione che spesso si attribuisce al panorama
cinese. Esemplare è l’operato dei coprotagonisti del mio elaborato, identità
sovversive che grazie alle loro opere ci forniscono un’idea generale e autentica sulle
preoccupazioni, ansie, sogni e desideri di un’intera generazione di “ibridi” storici.
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Perché bastardi?
Bastardo agg. [dal fr. ant. bastard (mod. bâtard), voce di origine incerta]. – 1.
Termine generico per indicare un ibrido fra due razze, spec. di animali o di
piante; frequente anche come s. m. (f. -a). 2. a. Che ha nascita illegittima: un
figlio b., una figlia b.; più frequente come sost.: è un b., una bastarda. Con
questo sign. è in genere spreg., e spesso adoperato come ingiuria. b. Per
estens., spurio, non schietto: parole, locuzioni b.; o degenere, corrotto: tempi
b.; discendenti bastardi.
(Treccani, 2/09/18)
Questa parola ha un vero arsenale di significati ma è noto che il tono principale resta
quello dispregiativo che denota una generica quanto rozza offesa. Usato in senso
meno metaforico e letterale rimanda all'immagine della corruzione della linea di
sangue pura: così come il figlio bastardo è quello nato fuori del matrimonio, il cane
bastardo sarà quello nato fuori dal lignaggio di razza.
Con occhio pratico e positivo, il bastardo possiede invece delle qualità evidenti: ciò
che nasce da un incrocio è più vitale, più energico, più forte di ciò che è conservato
in una purezza rimescolata solo in sé stessa; il bastardo è ciò che nasce dal confronto
- fra persone, razze diverse - e perciò possiede uno smalto, una fibra, geneticamente
superiore, di più solida salute; il bastardo è insomma un'innovazione che ha tutta la
carica della giovinezza.
Giustifico quindi la scelta di utilizzare il termine bastardo, sicuramente poco fine ed
elegante e magari non consono se impiegato ai fini didattici, in quanto si configura
come il vocabolo che meglio esemplifica le caratteristiche culturali di quella parte di
cinesi che analizzerò nel corso della mia tesi di laurea.
Ebbene, questo vocabolo volgare delinea degli esseri umani impuri, i figli di nessuno.
Proprio così potremmo denominare i cinesi che vissero a cavallo tra due ere
perdendo ogni riferimento ideologico: il periodo maoista, periodo in cui il padre per
eccellenza era l’amato comunismo rappresentato dalla figura dell’osannato leader
Mao Zedong, e il periodo di Apertura e Riforme, immediatamente successivo, che dà
il via alla scalata consumista, un’ignota ideologia inaugurata dal suo successore,
Deng Xiaoping, che gettò nello sconforto e nella più totale confusione quella
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generazione di persone aventi come unica costante gli ideali del comunismo e che
d’un tratto, non identificandosi più col presente che stavano vivendo, decisero di
ribellarsi per amore dell’ormai perduto credo comunista, generando così una
generazione di ribelli, di bastardi.
Ad avvalorare ulteriormente la scelta del termine bastardo, mi è stato d’ispirazione il
famoso film I Bastardi di Pechino (1993) del regista cinese Zhang Yuan,
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prima
pellicola cinese indipendente,
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che irritò non poco le autorità cinesi, le quali
risposero con una netta censura e l’allontanamento dall’industria cinematografica del
regista. Con la volontà di veicolare messaggi abrasivi nei confronti della società
cinese, I Bastardi di Pechino fotografa la Pechino underground e il fermento artistico
di quei giovani che avevano subito la strage di Piazza Tian’anmen, toccando, di
conseguenza, temi delicati come l’alienazione giovanile, la gravidanza extra-
coniugale e l’emergere di una nuova sottocultura, quella underground, gravitante
attorno alla musica rock e a uno stile di vita alternativo (Latham, 2007). Privo di una
sceneggiatura vera e propria, le vite dei personaggi rappresentati nel film sembrano
apparentemente inutili, senza uno scopo ben definito, ma si riscoprono nella chiave
baudelairiana del flâneur: vagabondi impiegati in una ricerca costante di qualcosa
che tuttavia rimane un‘incognita.
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1
Zhang Yuan (Nanchino 1963-) è un sovversivo regista cinese, facente parte della sesta generazione
di registi. Si diploma presso la Film Academy di Pechino in cinematografia nel delicato anno del 1989.
Sensibile è lo stacco con la quinta generazione di registi: gli appartenenti alla sesta generazione sono
nati a cavallo tra gli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, comparendo in ambito
cinematografico solo alla fine degli anni Ottanta; abbandonano temi relativi alla memoria storica e si
concentrano sulla rappresentazione della delicata quanto anarchica contemporaneità cinese,
proponendo temi quali l’alienazione giovanile, problemi sociali di diversa estrazione, l‘emarginazione
sociale degli artisti, l’omosessualità, e in generale i problemi sociali collettivi dei giovani facenti parte
di una società in rapido cambiamento. I loro film sono perlopiù lungometraggi o documentari, con
trame poco sviluppate e riprese girate frettolosamente. Tra i più famosi: Zhang Yuan, Ning Dai
(moglie di Zhang Yuan), Jia Zhangke, He Jianjun (The Postman), Zhang Yang, Lou Ye, Wang
Xiaoshuai, Wang Rui, Wang Quan’An, Tian Zhuangzhuang, Wu weguang (Blumming in Beijing: the
Last Dreamers).
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Realizzare il provocatorio “I Bastardi di Pechino” fu possibile non solo grazie agli aiuti economici
provenienti da famose personalità hongkonghesi (da Shu Kei, un produttore e direttore
cinematografico di Hong Kong, a Christopher Doyrle, un pluripremiato direttore della fotografia che
ha lavorato a Hong Kong con Wang Kar-Wei su Days of Being Wild) ma anche tramite proventi
occidentali, ossia dall’Hubert Bals Fund Film Festival di Rotterdam, nonché dalle entrate personali dei
produttori, quali Cui Jian e lo stesso Zhang Yuan, il quale autofinanzia la produzione grazie ai
proventi dei suoi video musicali. Le riprese si sono svolte interamente nella capitale cinese, per la
durata di dodici mesi e la post-produzione è stata completata nel 1992 grazie all’aiuto del Ministero
della Cultura Francese.
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La figura del flâneur è stata coniata dal poeta Charles Baudelaire riferendosi al pittore parigino Guys
e successivamente elaborata da Benjamin. Il flâneur, secondo la tradizione letteraria dell’Ottocento, di
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Alienato e frenetico è uno dei protagonisti del film, Kar Zi, proprietario di un pub in
cui si tengono concerti live, continuamente in conflitto con la sua ragazza Mao Mao,
in particolare dopo aver scoperto la gravidanza inattesa e non desiderata della
fidanzata; realizzata l’idea angosciante di diventare padre, le intima insistentemente
di abortire scaturendo la collera della giovane donna che scappa via in una notte
piovosa nella trafficata metropoli pechinese. È proprio Kar Zi, col suo fare
strafottente, il prototipo esemplare del “bastardo pechinese”, un flaneur scosso, sulla
via della perdizione e statico nel suo stato psicologico liminale che vaga senza meta,
mostrandosi occupato in attività ricreative scandalose: si ubriaca, ha rapporti sessuali
occasionali e si trascina in risse senza senso. Questo suo vagabondare è testimoniato
da una telecamera “ballerina” che, inseguendolo, va alla deriva per i meandri della
città, scava in un contesto urbano nascosto, nuovo: l’ambiente underground, popolato
da criminali, ribelli, pittori marginalizzati, musicisti rock e giovani disoccupati; una
realtà cruda e vivida che rappresenta il marchio distintivo dell’opera. Ruolo
altrettanto importante spetta alla musica rock, che si configura come altra
protagonista indiscussa della pellicola, onnipresente per tutta la durata del film, dal
suono penetrante e deciso della grancassa della scena di apertura alle incessabili
esibizioni della rock band di Cui Jian, la cui musica non serve da semplice
sottofondo melodico ma ha una funzione attiva, dà carattere alle immagini e dona
stile visivo; dalla struttura narrativa totalmente anarchica, chiara reminiscenza della
struttura del rock, ai rapidi zoom che richiamano il ritmo musicale rock e l’ambiente
confuso che fa da cornice al susseguirsi delle vicende. Ma cosa sarebbe la musica
rock senza il suo maggior interprete? Cui Jian, punto di riferimento, coproduttore del
film, interpreta sé stesso, un cantante rock che insieme alla sua band si vede negare
l’autorizzazione ad esibirsi nei locali pechinesi ed è in costante ricerca di una sala
prove. Senza di lui il film non sarebbe stato così vibrante: è la sua musica che
indole nomade ed errabonda, è un intellettuale che trascorre il suo tempo vagando senza meta e senza
scopo nello spazio cittadino, contemplando la folla urbana, seguendo il capriccio di un’osservazione
disinteressata del mondo, in preda ad una curiosità libera dal profitto, un “botanico da marciapiede”,
per usare l’espressione coniata dal poeta. È visto come uno studioso della vita moderna, un “ozioso
affaccendato”, estraneo al mondo del lavoro e della produzione capitalistica, che contempla la realtà
con un atteggiamento misto di distacco e partecipazione. Nel suo ruolo di osservatore stabilisce una
relazione particolare con la città, abitandola come se fosse la propria casa. Il suo percorso non
coincide con il resto della moltitudine; quello che per il passante è un cammino predeterminato con
una meta precisa, per lui è un labirinto che cambia forma ad ogni passo: si lascia guidare dal colore di
una facciata, l’inquietante uniformità di alcune finestre, lo sguardo di una ragazza.
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accompagna lo sviluppo della pellicola e collabora a creare questa atmosfera sospesa
tra documentario e film, diegesi e non diegesi. Le sue canzoni contribuiscono a
delineare un’immagine di gioventù sofferente, il cui dolore e frustrazione permeano
all’interno del film grazie a tracce quali Tolleranza: “vediamo, vediamo chi riesce
davvero a tener duro fino alla fine” (Ying Xiao, 2017); nonché L’ultima Lamentela,
un gelido commento sul senso di perdita e tradimento che si dissolve sullo sfondo di
immagini fortemente simboliche ed evocative, tra cui Piazza Tian’anmen e
l’imponente Città Proibita:
Ricordo ancora quel giorno
Avevo a malapena un cuore puro
Cammino seguendo il vento, la mia anima è colma di rabbia
Non so quando sono stato ferito ma sono ispirato da questo dolore
Non voglio ricordare il passato, non lo capisco affatto
E rende questo vento ancora più penetrante.
Quanto dolore hanno patito le persone
Rivoluzione dopo rivoluzione.
Voglio trovare la causa di questa rabbia
Ma posso solo camminare nel vento,
Voglio dimenticare dolore e sofferenza
Ma posso solo camminare nel vento,
Voglio portare la mia ultima lamentela fino alla fine
Ma posso solo camminare nel vento.
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Tradotto dalla sottoscritta, estratto dal brano L’ultima Lamentela (最后的抱怨 Zui hou de baoyuan),
facente parte dell’album Uova sotto la bandiera rossa (红旗下的蛋 Hongqi xia de dan), rilasciato
nel 1994.