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Introduzione
L’Europa è una regione costituita da un insieme di sistemi economici e sociali diversi e
irripetibili: per storia, cultura e specializzazione produttiva; per modello di sviluppo; per
complessità di relazione tra gli attori e i decisori pubblici; per configurazione territoriale e
organizzazione spaziale delle attività; per specificità amministrativa e istituzionale. Questa
diversità ha generato percorsi di crescita assai differenziati, tanto da far parlare di multi-
regionalità dello sviluppo e di sfida della coesione economica e sociale (Bramanti & Ratti,
1993).
L’evoluzione dell’Europa è stata storicamente caratterizzata dalle vicende legate agli stati
nazionali. L’interesse primario era volto a salvaguardare la propria inviolabile sovranità e a
tutelare i cosiddetti interessi della nazione (Bramanti & Ratti, 1993). Un chiaro trend nel
processo recente di sviluppo regionale europeo evidenzia un cambiamento in questo
scenario, con l’accentramento di alcuni poteri dal livello nazionale a quello sovranazionale e
il contemporaneo emergere di un processo di decentralizzazione volto alla delega di alcune
aree di responsabilità alle autorità regionali e locali. Si può quindi affermare che lo stato
nazione è sempre più ristretto sia dall’alto che dal basso; da istituzioni internazionali e da
pressioni regionali? In parte la risposta è sì, ed è infatti di moda, sebbene non sempre
corretto, affermare che gli stati nazione al giorno d’oggi siano troppo grandi per alcune
funzioni e troppo piccoli per garantirne molte altre (Alesina, 2003). Un secondo trend può
inoltre essere individuato nella formazione di partnership sempre più forti tra autorità locali,
settore economico, istituzioni e associazioni. In alcuni casi, questo corso ha condotto alla
formazione di organizzazioni regionali più forti, in un processo chiamato regionalizzazione
(Buček & Ryder, 2015). Questo fenomeno può avere un’accezione più rivolta a considerare la
“regione” in senso economico, come area a forte specializzazione e omogeneità produttiva,
o in senso istituzionale. Le prime sono identificabili come aree che presentano aggregazioni
convergenti d’interessi, che non hanno necessariamente alcuna base di riferimento
territoriale-amministrativo. Le seconde, al contrario, sono aree precisamente delimitate da
confini amministrativi che, tuttavia, non corrispondono a realtà economiche auto-contenute
(Bramanti & Ratti, 1993).
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Sono altresì da considerare alcune dinamiche di governo in corso di sviluppo, che rendono la
gestione delle policy più complessa e difficile che mai. Queste includono fattori come
l’incrementata interdipendenza tra governo e società; l’aumentato numero di attori e
agenzie coinvolte nel processo di decisione; l’aumentata influenza di entità esterne sulle
decisioni governative, si pensi ad esempio alle agenzie internazionali, alle imprese, alle
opinioni pubbliche; l’aumento del numero di questioni trasversali che i decisori pubblici si
trovano a dover affrontare, quali povertà, sviluppo sostenibile e pari opportunità (Stead &
Meijers, 2009).
Prima della fine della guerra fredda, gli stati nazionali, insieme alle organizzazioni
internazionali, erano gli unici attori sullo scenario internazionale. Le pressioni poste dalle
sfide della globalizzazione e le opportunità nascenti dallo sviluppo dell’Unione Europea
hanno garantito un crescente margine di manovra agli enti regionali, che timidamente col
tempo hanno iniziato ad esplorare. In epoca odierna, le esigenze di collaborazione,
coordinazione e integrazione oltre confine sono pertanto mutate e drasticamente cresciute,
facendo emergere la percezione di questa nuova necessità prima ignorata. Gli argomenti
principali citati a supporto di una migliore cooperazione sono la promozione delle sinergie, la
promozione della coerenza tra le politiche in settori differenti e a differenti livelli di governo,
il miglioramento dei risultati degli obiettivi trasversali, l’incoraggiamento delle innovazioni di
policy e lo stimolo di un generale miglioramento nella comprensione degli impatti delle
politiche (Stead & Meijers, 2009). Sono quindi sorte reti transnazionali regionali, che si
presentano idealmente in forte contrasto con la tradizionale forma di governo gerarchica da
cui le regioni sempre più mostrano il volere di allontanarsi. L’integrazione europea ha
conferito legittimità e fornito risorse alla collaborazione transnazionale, che oggi si presenta
come una realtà densa d’iniziative (Buček & Ryder, 2015). È proprio In tale contesto che le
aree transfrontaliere, poste a ridosso dei confini tra gli attuali stati nazionali, assumono un
ruolo del tutto particolare. Ad esse è affidata la sfida di svolgere il compito di cerniera e
dialogo tra realtà istituzionalmente diverse (Bramanti & Ratti, 1993).
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Confini ed aree funzionali ottimali
“I sistemi di governo non dovrebbero essere più larghi della misura in cui tutti conoscono chiunque altro”.
Aristotele (350 a.C.)
Dando per assodata la sempre più importante esigenza di collaborazione e coordinazione tra
territori, la letteratura scientifica si è molto interrogata nel corso del tempo riguardo
all’esistenza di misure ottimali delle nazioni, delle regioni e più in generale delle aree di
collaborazione e integrazione. L’Europa ben rappresenta le difficoltà insite nella questione:
non è uno Stato, ma alcune politiche sono gestite centralmente e valgono per oltre 500
milioni di persone; altre sono gestite a livello nazionale, differenti quindi in ognuno dei 28
Stati, ciascuno dei quali dotato di caratteristiche, popolazione e territori molto differenti.
Allargando per un momento la visione allo scenario globale, ciò a cui si è assistito è stato un
drastico aumento del numero di stati indipendenti, passati da 51 nel 1946 a circa 195 al
giorno d’oggi. Con una lente storica i confini nazionali si presentano in costante evoluzione,
prova ne sono le istanze separatiste e le richieste più o meno forti d’indipendenza portate
avanti quotidianamente da molti territori. I confini non sono caratteristiche fisse derivanti da
motivazioni geografiche e olografiche, da considerarsi come date, ma sono delle istituzioni
create dall’uomo e frutto delle decisioni e delle interazioni tra individui e gruppi di una
società (Spolaore, 2012). Quali forze guidano quindi la creazione e le modifiche dei confini?
La fornitura dei servizi e dei beni pubblici è soggetta a economie di scala, tendono pertanto a
essere meno costose pro capite se i cittadini che contribuiscono sono più numerosi. Se
questo fosse l’unico fattore rilevante nella definizione dei confini ottimali, Stati più grandi
avrebbero sempre un grado maggiore di efficienza rispetto a Stati più piccoli e l’efficienza
massima risulterebbe nella creazione di un governo mondiale (Spolaore, 2012).
Naturalmente così non è, ed è stato dimostrato come l’allargamento della giurisdizione porti
con sé un incremento dei costi che può facilmente superare i benefici offerti dalle economie
di scala. In particolare, oltre ai maggiori costi amministrativi e di congestione, l’attenzione va
posta all’aumento dell’eterogeneità delle preferenze riguardanti le politiche pubbliche e
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l’impostazione di governo che diversi gruppi di cittadini richiedono. In generale,
l’eterogeneità di una società è associata con maggiori costi e benefici. Questi ultimi derivano
dalle possibilità di apprendimento, specializzazione, scambio culturale e di idee tra persone
con preferenze e caratteristiche diverse. A ciò si associa però l’impossibilità di riconciliare le
politiche pubbliche secondo i voleri di tutti; i cittadini di uno stato sovrano devono
condividere l’apparato di governo, le leggi e le politiche nazionali, che le gradiscano o meno
(Spolaore, 2012). Con l’accentuarsi delle differenze iniziano a insorgere forze disgregative
dell’apparato, che a seconda di come si sviluppano e di come vengono gestite, possono
portare alla secessione o allo sgretolamento di uno stato. Si evidenzia quindi un trade-off tra
le economie di scala ottenibili dall’espansione di uno stato e l’eterogeneità di preferenze
riguardo le politiche pubbliche che un territorio è in grado di sostenere.
“A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene più piccola parte del tutto, e il sentimento
repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo”.
Cesare Beccaria (1764)
In un mondo ideale, i confini verrebbero stabiliti facendo in modo che l’utilità totale di
ognuno venga massimizzata, eguagliando cioè il beneficio marginale sociale derivante dalle
economie di scala al costo marginale sociale derivante dall’eterogeneità (Spolaore, 2012). La
realtà racconta però una storia ben diversa, i confini vengono stabiliti attraverso meccanismi
imperfetti, che conducono inevitabilmente ad alcune inefficienze. I principali evidenziati
dalla letteratura sono tre (Spolaore, 2012):
Confini stabiliti da un risultato democratico, metodo che ha lentamente assunto rilevanza
ideologica in epoca contemporanea con lo sviluppo e l’affermazione delle democrazie.
Nonostante ciò, nella pratica non rappresenta, neppure al giorno d’oggi e in paesi
democratici, la via principale utilizzata. Ne è testimonianza il processo d’integrazione
europeo, che ha visto solamente i cittadini di alcune nazioni coinvolti democraticamente dai
rispettivi governi nelle decisioni, e in alcuni casi, si è addirittura proceduto ugualmente in
senso contrario rispetto al responso delle urne. Un caso recente è tuttavia individuabile nella
secessione avvenuta nel 2011 in Sudan, frutto di un referendum pressoché unanime vinto
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dai secessionisti con oltre il 98% delle preferenze e che ha sancito la nascita del Sudan del
Sud. Il secondo e il terzo metodo di definizione dei confini rappresentano invece processi più
coerenti con la realtà storica.
Confini come risultato delle azioni dei decisori: più comunemente, decisioni riguardanti i
confini, la loro creazione e ogni modifica, sono state nelle mani di forti soggetti decisori,
siano essi monarchi, dittatori o potenze coloniali. Questo tipo di decisori sono mossi
dall’interesse di perseguire i propri obiettivi politici, militari ed economici, prendendo in
considerazione le opinioni di altri soggetti nella misura in cui funzionali all’obiettivo primario.
Atteggiamenti simili hanno portato nella storia alla creazione di stati e imperi molto ampi e
tendenzialmente inefficienti, in contrasto con l’effetto ottenuto dal processo di
democratizzazione, cioè quello di diminuire le dimensioni e aumentare il numero di stati
indipendenti.
Confini frutto di conflitti e guerre: storicamente, la formazione degli Stati e la loro
disintegrazione è stata legata a ragioni di sicurezza e guerre, tendenza che permane anche ai
giorni nostri, come testimonia la difficile storia recente dei paesi Balcani. Minacce esterne
possono quindi agire come forza di coesione e unione politica, così come la loro assenza,
come scrisse già Machiavelli nel 1517, può essere causa di un rafforzamento delle forze
centrifughe di un territorio.
“Non possiamo noi e le nazioni tutte vivere in pace? […] Forse necessitiamo di qualche minaccia esterna,
universale, per farci riconoscere il nostro legame comune”.
Discorso alle Nazioni Unite, U.S. Presidente R. Reagan, 1987.
L’esistenza e la prosperità di stati piccoli è direttamente correlata alla loro possibilità di agire
in un mondo di libero mercato ad alta integrazione economica, mentre dimensioni nazionali
consistenti sono necessarie per avere successo in un mondo connotato da barriere al
commercio e protezionismo. L’evidenza empirica è coerente con tale affermazione, come
dimostrato da ripetuti studi condotti da Alesina, Spolaore, Wacziarg ed altri. Da parecchi
decenni ormai lo sviluppo è caratterizzato da una sempre maggiore integrazione economica,
che riducendo i benefici e la necessità di disporre di un paese esteso, favorisce e rende meno
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costosa la formazione di piccoli stati indipendenti (Spolaore, 2012). Conseguentemente, il
trade-off tra estensione ed eterogeneità di un paese si è spostato in favore di stati più piccoli
e più omogenei. Integrazione economica e disgregazione politica tendono quindi ad essere
due fenomeni profondamente legati (Alesina, 2003).
Qual è quindi la grandezza ideale di uno stato, di una regione, o di un’area di cooperazione?
L’evidenza empirica conferma un comportamento differente delle aree in base alla loro
grandezza. Paesi piccoli, convenzionalmente intesi come aventi meno di 15 milioni di
abitanti, appaiono tendenzialmente più ricchi, con sistemi di governo più ampi ma
nonostante ciò, più prudenti nella gestione fiscale e meno indebitati. Appaiono fortemente
dipendenti dal commercio estero e dagli investimenti diretti esteri, da ciò ne deriva
un’inevitabile vulnerabilità agli shock esterni e un’elevata volatilità dei tassi di crescita. Stati
piccoli sembrano effettivamente dover affrontare costi pro capite maggiori per la fornitura
di beni e servizi pubblici essenziali, come sanità ed educazione, ma ciò non è vero per quanto
riguarda spese militari e di difesa, dove piccole nazioni mostrano spese inferiori ed una
tendenza molto limitata all’uso delle armi come metodo di risoluzione delle controversie.
Non risultano, infine, maggiori tassi di diseguaglianza tra la popolazione, minori tassi di
democrazia o maggior corruzione. La grandezza di una nazione è quindi importante, in
diversi modi. Ciò che ne emerge in ultima analisi è però l’impossibilità di determinare a priori
la grandezza ottimale di uno stato, una regione o un’area di cooperazione. Dipende dal
contesto, dagli indicatori di performance d’interesse (Damijan, Damijan, & Parcero, 2013),
dalla capacità di dialogare, negoziare, mediare e cooperare di un territorio, dal suo capitale
sociale esistente e dalla qualità degli attori coinvolti.
Queste considerazioni, sebbene riferite nella letteratura principalmente a uno stato
nazionale, contengono insegnamenti validi anche per strutture di collaborazione
transnazionali, soggette a forze e fenomeni simili, di cui a breve tratteremo.
“In una grande Repubblica, il bene comune è sacrificato da centinaia di considerazioni. E’ subordinato a varie
eccezioni. Dipende dal caso. In una piccola Repubblica, il bene comune è più fortemente sentito, meglio
conosciuto, e vicino ad ogni cittadino”.
Montesquieu (1748)
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I costi del non-coordinamento e la “tra ged ia dei beni c om u n i”
La mancanza di collaborazione, coordinazione e integrazione tra territori confinanti è alla
base di alcune inefficienze di sistema e causa di costi e ripercussioni per l’intera collettività.
Di seguito verranno illustrati alcuni esempi delle principali categorie in cui questi costi
possono essere classificati:
Costi di duplicazione, frutto della realizzazione parallela di due infrastrutture, oppure di
servizi collettivi in concorrenza gli uni con gli altri (di trasporto, ma anche sanitari o
assistenziali) tra due regioni confinanti;
Costi da mancato raggiungimento di economie di scala di sistema, derivanti dal mancato
raggiungimento della soglia minima di efficienza al di sotto della quale il costo di esercizio di
reti infrastrutturali (telecomunicazioni, acquedotti, ecc.) non è ottimale. La non
collaborazione tra aree transfrontaliere può impedire il raggiungimento di tale soglia e
generare quindi maggiori costi unitari dei servizi di rete legati al mancato sfruttamento della
capacità di erogazione;
Costi da mancato accordo, emergono nelle situazioni in cui le aree transfrontaliere ritardano
la ricerca di soluzioni coordinate a problemi comuni (ad esempio la bonifico di siti inquinati,
il ripristino di un bacino idrico o lacuale di confine), ripercuotendo sui cittadini della zona i
negativi effetti sociali che tale ritardo comporta;
Costi da programmazione avversa, se le scelte di politica economica tendono verso obiettivi
opposti che, non mediati o quantomeno discussi, possono condurre ad un annullamento
degli effetti positivi delle politiche stesse. Esempi possono essere tratti da politiche del
lavoro diverse e contrastanti, politiche ambientali conflittuali, ecc.;
Costi da diritto di veto, sorgono quando le amministrazioni di aree confinanti intralciano
vicendevolmente la realizzazione, e soprattutto l’utilizzo, d’infrastrutture o di servizi
d’interesse comune, ad esempio ostacolando la mobilità transfrontaliera di merci e di
persone (Bramanti & Ratti, 1993).
Anche in quei casi in cui le conseguenze dei costi del non-coordinamento non implicano
direttamente un maggiore esborso finanziario di utenti e consumatori, appare ad ogni modo
evidente la natura economica degli sprechi e il conseguimento di minori benefici sociali per
la collettività. Emerge quindi con prepotenza l’interesse a cooperare e ad armonizzare le