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Introduzione
La creolistica è un àmbito delle scienze del linguaggio attualmente tra i più coltivati e
uno di quelli che maggiormente si apre all’interazione con altre dimensioni e altre
prospettive della ricerca contemporanea, quali la tipologia, lo studio degli universali,
la linguistica acquisizionale, lo studio del linguaggio infantile, la sociolinguistica etc.
Non meno importante è il ruolo che la creolistica ha avuto ed ha tuttora relativamente
ad alcune prospettive di certi settori della linguistica, poiché ne ‘scardina’ taluni
modelli operativi: si pensi a quanto lo studio delle lingue di contatto metta in
discussione la possibilità di modellizzare il mutamento, oppure l’idea, fallace, che
esistano grammatiche governate da sistemi finiti di regole. Sono tutti temi di grande
suggestione per specialisti e non che, però, si è scelto di non approfondire in questa
tesi triennale per inevitabili ragioni di sintesi, potendo essi stessi costituire argomenti
di altrettanti elaborati, e perché i miei interessi si sono rivolti ad altri aspetti della
creolistica.
Il presente elaborato tocca, infatti, questo settore della linguistica avendo come
proprio oggetto quel peculiare tipo di lingua di contatto che è il creolo, scelto come
occasione di analisi sia dei meccanismi e dei processi del suo formarsi (si parla in
merito di creolizzazione), sia di descrizione dei caratteri che gli si riconoscono
specifici, sia ancora, e più in generale, come occasione per delineare ed approfondire
le diverse teorie che in rapporto alla sua genesi gli specialisti, nel tempo, hanno
formulato.
A queste tre prospettive di indagine, dunque, ho dedicato i primi tre capitoli
dell’elaborato.
Nel primo capitolo mi sono soffermata sulla nozione di “lingua di contatto” e ho
descritto i diversi tipi di codici che si è soliti attribuire a questa ampia fenomenologia
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linguistica e di cui il creolo rappresenta solo lo stadio ultimo. Ho trattato così le
differenti caratteristiche formali (fonetico-fonologiche, morfosintattiche e lessicali)
dei codici che, con un’espressione che risale ad uno dei primi rappresentanti della
creolistica, il romanista docente a Graz Hugo Schuchardt (1842-1927), vanno a
costituire il ‘ciclo vitale’ di una “lingua di contatto”. In tale ciclo infatti troviamo, e
generalmente in successione, i gerghi, i pidgin, che a loro volta distinguiamo tra
pidgin stabilizzati e pidgin espansi, e che precedono la fase di creolo, l’ultima di tale
“ciclo vitale”.
Proprio il percorso di formazione di un creolo (la creolizzazione, in quanto distinta
dalla nativizzazione) rappresenta uno dei due punti focali della tesi nel suo primo
capitolo. I linguisti concordano nel ritenere che una lingua di contatto possa definirsi
creolo nel momento in cui una comunità la riconosce come codice L1, cioè lingua
materna di una generazione di parlanti nativi che la usano in tutti i possibili contesti
comunicativi (formale, informale, orale, scritto, etc.). Come dice Barbara Turchetta,
si ha un creolo quando “una lingua di contatto assume tutte le connotazioni positive
di una lingua materna, a essa attribuite dai suoi stessi parlanti”
1
.
Tale circostanza comporta che il creolo sia dotato di strutture fonetico-fonologiche e
morfosintattiche di complessità pari a quelle di una qualsiasi altra lingua naturale, e
in ogni caso superiori a quanto osservabile negli stadi precedenti del “ciclo vitale”
(gergo e pidgin stabilizzati ed espansi), e che anche il suo lessico si caratterizzi per
ampiezza ed apertura al fenomeno del prestito. Dal confronto tra le lingue creole
parlate nel mondo emergono poi tendenze spiccatamente condivise, che sono di
particolare interesse per la tipologia e per lo studio degli universali; a livello
morfosintattico, ad esempio, ricordo la presenza del sistema verbale TMA (acronimo
di Tempo, Modo, Aspetto) con le tre rispettive particelle esprimenti queste categorie
morfosintattiche, il sistema degli articoli che prevede una distinzione tra referenti
specifici e non specifici, il valore esistenziale e possessivo realizzato tramite una
1
Turchetta 2009, p. 52.
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medesima espressione, gli aggettivi impiegati come una sottoclasse di verbi, la copula
volta a realizzare determinate funzioni, l’assenza di una morfologia passiva, etc.
Veniamo al secondo capitolo. Diversità e convergenze di fenomeni linguistici hanno
rappresentano un importante oggetto di analisi per gli studiosi di creolistica, che in
merito hanno formulato diverse teorie sulla genesi dei pidgin e creoli (e a questo tema
è appunto dedicato il capitolo II).
Tra le teorie più accreditate alcune, sostenute da studiosi come Claire Lefebvre e
Peter Mühlhäusler, si rifanno ad una spiegazione monogenetica facendo risalire la
nascita di tutte i creoli ad un’unica lingua progenitrice, individuata nella Lingua
Franca mediterranea. Da questa sarebbe derivato un pidgin portoghese che, venendo a
contatto con diverse lingue europee, avrebbe subito un processo di sostituzione del
materiale lessicale, detto appunto di ‘rilessificazione’, a cui però non sarebbe
corrisposta una sostituzione dell’apparato grammaticale altrettanto drastica.
Altre ipotesi, dette poligenetiche, negano invece l’esistenza di un antenato condiviso
dai diversi creoli del mondo. Si pensi in particolare alla teoria sostratista, che
individua nelle diverse lingue di sostrato le principali componenti che avrebbero
influito sulle strutture fonetico-fonologiche e morfosintattiche e sul lessico delle
diverse lingue creole; oppure si pensi alla teoria universalista, che individua in ogni
parlante tendenze universali che si presentano ogni qualvolta si stia formando una
nuova lingua.
A tal proposito, nel terzo capitolo mi sono soffermata su una specifica ipotesi
universalista che ha destato un grande interesse ed un altrettanto grande dibattito, per
i suoi presupposti e per le sue implicazioni, la cosiddetta Language Bioprogram
Theory. Tale teoria è stata formulata da Derek Bickerton dagli anni ’80 del
Novecento, a partire da studi puntuali sul creolo hawaiiano avente come lingua
lessificatrice l’inglese.
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Bickerton è convinto dell’esistenza in ogni essere umano di una predisposizione
biologica innata in grado di motivare tutte le somiglianze tra le lingue creole.
Secondo lo studioso infatti, poiché il pidgin parlato dagli adulti della comunità non è
un sistema coerente e stabile, esso non può rappresentare un modello efficace per i
bambini in fase di apprendimento. Eppure, dai suoi studi risulterebbe che nel giro di
una sola generazione si formerebbe un creolo, con tutte le strutture di una qualsiasi
lingua naturale. Questo fatto sarebbe per Bickerton l’esito di un fenomeno
‘catastrofico’, cioè immediato e completo nel suo effetto, che però sarebbe spiegabile
solo supponendo che il creolo sia creato da quei bambini ricorrendo semplicemente e
spontaneamente alle proprie capacità linguistiche innate, biologicamente presenti e
indipendenti quindi dalla dimensione interazionale con i loro genitori.
La teoria di Bickerton mi ha offerto la possibilità da un lato di un confronto con le
tesi innatiste di Noam Chomsky, che condividono in effetti il presupposto
dell’innatismo linguistico, dall’altro di una valutazione critica (e non del tutto
assolutoria) dei risultati a cui lo studioso è giunto occupandosi proprio del creolo
delle Hawai’i.
A questa valutazione ho dedicato il capitolo conclusivo, il quarto. Infatti, proprio in
quest’ultima parte mi sono soffermata sul caso specifico dell’Hawai ’i English Creole
(HCE, detto però dai parlanti ‘Pidgin’) a partire dai suoi stadi iniziali e delineandone
brevemente il suo percorso linguistico. Ho accennato anche ad alcuni aspetti
fonologici, morfosintattici e lessicali di base e a possibili influenze linguistiche a cui
tale creolo sarebbe stato sottoposto, mettendo a confronto le conclusioni di Bickerton
con le opinioni, non sempre concordi, di altri studiosi.
In conclusione, quanto emerge è, da un lato, l’indubbia complessità fenomenologica
dei creoli, che rispecchia anche una pluralità e varietà di dinamiche, a cui forse
nessuna teoria, se concepita come tentativo di spiegazione globale, riesce a dare
adeguatamente conto. D’altra parte, questa stessa complessità e variabilità
contribuisce a caratterizzare quello della creolistica e quello delle lingue di contatto
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come un àmbito estremamente interessante e tale da arricchire, ma anche da mettere
alla prova gli strumenti ‘tradizionali’ di indagine e di ermeneutica applicati allo
studio delle lingue naturali.
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CAPITOLO I
LE LINGUE DI CONTATTO: GENESI E CLASSIFICAZIONE
I.1 Per una definizione di lingua di contatto
Sarah Thomason, interprete tra i più attenti alla linguistica del contatto, definisce il
contatto linguistico semplicemente come “the use of more than one language in the
same place at the same time”
2
. Ed è certo che quella della compresenza in una data
area di più codici comunicativi in uso tra i parlanti, cioè il plurilinguismo, è
condizione primaria, essenziale, perché si possa parlare di lingue di contatto. D’altra
parte, stante il plurilinguismo, altra condizione richiesta per il formarsi di una lingua
di contatto è che parlanti lingue diverse intendano - e a tal fine si sforzino di -
comunicare l’uno con l’altro, di interagire linguisticamente; è questa una condizione
caratterizzante il linguaggio verbale umano, che inevitabilmente è presente anche in
quelle particolari situazioni che generano lingue di contatto, in cui i locutori si
trovano a parlare lingue non mutuamente comprensibili.
Con le parole della linguista Barbara Turchetta, le lingue di contatto si caratterizzano
per tratti peculiari derivanti dalle specifiche condizioni che ne favoriscono la genesi:
“Le lingue di contatto crescono e si stabilizzano in situazioni dove, non
essendovi altra lingua di comune comprensione per la comunicazione, i
parlanti madrelingua diversa sviluppano dapprima gerghi instabili e poi lingue
2
Thomason 2001, p. 1.
10
pidgin a vario grado espanse e stabilizzate, che possono talvolta raggiungere
estesi domini d’uso”
3
.
Questa definizione da un lato esplicita e pone in rilievo le circostanze per cui le
lingue di contatto nascono, in condizioni di interferenza, sotto la spinta di esigenze
comunicative forti tra parlanti di lingue molto diverse sia geneticamente sia
strutturalmente. Dall’altro lato, tale definizione ricorda come nella ‘categoria’ di
lingua di contatto possano rientrare manifestazioni distinte della comunicazione
verbale tra parlanti lingue differenti e non mutuamente comprensibili: gerghi, pidgin
espansi, pidgin stabilizzati, creoli.
Sono, questi, due aspetti fondamentali quando ci si voglia avvicinare a questa
fenomenologia linguistica e coglierla nella sua varietà e complessità, e a questi si farà
riferimento nelle prossime pagine.
Dapprima dunque la condizione che determina la crescita e la stabilizzazione di una
lingua di contatto, cioè la mancanza di un codice condiviso tra i locutori plurilingui
che garantisca la comunicazione efficace e che spinga a creare un veicolo ‘nuovo’ per
comunicare, un codice in grado di garantire l’interazione linguistica reciproca, a
partire dalle risorse delle lingue materne degli interlocutori.
Questa condizione iniziale, questo ‘requisito’ forte, ci porta a ricordare, sia pure
brevemente, quali sono le situazioni nella storia dell’uomo che hanno determinato e
determinano l’insorgere di lingue di contatto.
Nella storia dell’umanità, occasioni di contatto linguistico e di interferenza si sono
create in seguito a situazioni storico-sociali specifiche quali l’esogamia,
l’immigrazione, la presenza in un dato territorio di un numero consistente di
prigionieri di guerra, il commercio e la schiavitù
4
. Pur non essendo quest’ultima,
come evidente dall’elenco che la precede, l’unica causa della formazione di varietà
3
Turchetta 2005, p. 15.
4
Thomason 2001, pp. 3-4.
11
linguistiche di contatto, la pratica della schiavitù ha rappresentato senza dubbio, nelle
diverse epoche della storia umana, uno dei motori più forti e territorialmente diffusi
per il fenomeno; inevitabilmente, essa richiama in primo luogo le vicende della storia
dei rapporti economici e politico-ideologici tra Occidente europeo e popolazioni
extra-europee. Le conseguenze linguistiche di questa prassi sono state molteplici: non
solo casi di multilinguismo o bilinguismo, ma anche (e soprattutto, dato il tema del
presente lavoro) la formazione di lingue di contatto e, nello specifico, di pidgin e del
loro successivo stadio, le lingue creole.
Osserviamo dunque, brevemente, alcune delle condizioni che, nella storia
dell’umanità, hanno favorito l’emergere di lingue di contatto (pidgin e creoli in
particolare); ci occuperemo poi delle diverse manifestazioni in cui queste ci si
rendono note.
I.2 Il contesto storico-sociale di sviluppo di una lingua di contatto
Momento indubbiamente determinante per la nascita di lingue di contatto sono state
le scoperte geografiche, l’apertura di nuove rotte commerciali verso aree
extraeuropee, in primo luogo il Nuovo Mondo, e lo sfruttamento intensivo dei
territori di recente conquista.
La scoperta del Nuovo Mondo, in particolare, ebbe conseguenze importanti sulla
storia dell’intera umanità. Fin dall’inizio del XVI secolo, gli Europei - principalmente
di origine spagnola e portoghese, seguiti da Francesi, Inglesi e Olandesi - presero a
colonizzare i nuovi territori con il principale obiettivo di sfruttarne le risorse
economiche, in specie i metalli preziosi.
I massacri e l’introduzione della schiavitù furono tra le conseguenze più disastrose
della presenza invasiva e dello sfruttamento di risorse umane e territoriali da parte dei
colonizzatori europei. I conquistadores agivano essenzialmente per i propri interessi
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e, spinti da avidità di ricchezze, uccisero milioni di Indios. Questi, peraltro, furono
sterminati anche a causa di numerose malattie, a loro sconosciute, introdotte dagli
stessi Europei. Perciò, ben presto si avvertì la necessità di ripopolare il nuovo
continente per consentire la continuità dello sfruttamento del territorio: da qui la
deportazione in massa di schiavi neri dall’Africa.
Il periodo della schiavitù fu dunque contrassegnato da una forte riduzione della
popolazione locale, dovuta ad un alto tasso di mortalità e ad un basso tasso di nascita;
viceversa il tasso di immigrazione fu sempre molto alto
5
. Si calcola che durante la
tratta degli schiavi furono catturati dall’Africa e deportati nelle Americhe circa dieci
milioni di Africani
6
. Molti non sopravvissero al viaggio verso il Nuovo Mondo o
morirono poco dopo il loro arrivo.
All’operato dei colonizzatori europei si aggiunse anche quello legato alla presenza sul
territorio delle missioni religiose, che ebbe l’effetto di cancellare le tradizioni della
popolazione nativa, obbligata a convertirsi al Cattolicesimo.
Il risultato ‘linguistico’ di queste complesse e dolorose vicende fu, in ogni caso,
l’incontro tra le lingue africane e quelle dei colonizzatori europei, e la nascita di
lingue di contatto. Contesto privilegiato per questo tipo di processo furono le
piantagioni.
I.3 Il sistema sociale nelle piantagioni
Allo scopo di sfruttare al massimo le risorse del Nuovo Mondo, i coloni europei
costrinsero gli schiavi africani a lavorare duramente nelle loro piantagioni. Questi
luoghi di sfruttamento divennero così, fin da subito, importanti punti di incontro e di
scambio tra popolazioni differenti per origine etnica, geografica e linguistica.
5
Arends - Muysken - Smith 1995, p. 18.
6
Curtin 1969, citato in Arends - Muysken - Smith 1995, p. 17.