1
INTRODUZIONE
Le crisi finanziarie, oltre a creare problemi per gli operatori direttamente
coinvolti, producono effetti sull’intero sistema economico, con conseguenze
negative sulla produzione e l’occupazione. La recente crisi iniziata nel 2007,
con cui buona parte dell’Europa, Italia compresa, è ancora alle prese, non fa
eccezione. In tali scenari si creano malfunzionamenti nei mercati finanziari che
rendono inefficaci, o, perlomeno, depotenziano significativamente i
meccanismi tradizionali di trasmissione della politica monetaria, costringendo
le banche centrali ad adottare politiche e strumenti non convenzionali per farvi
fronte. Compito principale di una banca centrale durante una crisi finanziaria di
enormi dimensioni è, infatti, impedire che deficit di fiducia degli operatori
economici si ripercuotano negativamente su consumi e investimenti, dando
luogo a un vero e proprio circolo vizioso che fa diminuire il valore degli asset
economici e peggiora la recessione.
Questa tesi è divisa in tre capitoli.
Nel primo viene descritta la crisi finanziaria del 2007. Vedremo come
negli Stati Uniti il basso costo del credito abbia stimolato la crescita di una bolla
immobiliare che a sua volta spingeva sempre più persone a indebitarsi oltre i
propri limiti per l’acquisto di un’abitazione. Vedremo le responsabilità degli
istituti di credito che, complice anche un sistema di vigilanza troppo
accomodante, hanno sottostimato i rischi derivanti dal loro comportamento ed
erogato prestiti anche a chi non possedesse sufficienti garanzie per rimborsarli.
Gli istituti hanno adottato modi di operare diversi rispetto al passato, definiti
originate-and-distribute, che permettevano loro di servirsi di società veicolo per
«impacchettare» crediti e creare nuovi strumenti finanziari da collocare nei
mercati, secondo determinati scaglioni di rischio. Ciò ha permesso che, allo
scoppio della bolla immobiliare, il calo del valore degli immobili americani
innescasse pesanti perdite ai detentori dei titoli legati ai mutui ipotecari, creando
reazioni a catena e crisi di fiducia che hanno dotato la crisi di una portata
2
globale, causa la forte integrazione dei mercati finanziari mondiali. Vedremo
quindi l’espansione della crisi al di fuori del suo epicentro americano,
soprattutto in Europa, dove il calo dei consumi, inizialmente compensato
dall’incremento della spesa pubblica, ha instillato seri dubbi negli investitori
circa la capacità di molti Paesi europei di sostenere i propri debiti sovrani, alla
luce di consistenti diminuzioni delle entrate fiscali e di una preesistente già
scarsa sostenibilità delle finanze pubbliche.
Nel secondo capitolo analizzeremo il comportamento delle due principali
banche centrali mondiali: la Riserva Federale americana e la Banca Centrale
Europea. Partendo dalle differenze tra i loro obiettivi istituzionali, osserveremo
le loro diverse modalità di intervento, notando come la FED abbia potuto
avvalersi di una maggiore libertà di agire rispetto alla BCE, proprio in virtù del
fatto che il suo statuto non le assegna una ben precisa gerarchia tra gli obiettivi,
come invece avviene nel caso della BCE, il cui obiettivo primario è il
mantenimento della stabilità dei prezzi. La FED ha da subito potuto avvalersi di
una politica monetaria espansiva accompagnata da una politica fiscale
accomodante, decidendo, anche per non rischiare di ripetere errori commessi in
passato, di dare la priorità al ripristino della crescita economica e alla fiducia
degli operatori, anche a scapito di potenziali aumenti dell’inflazione (che tra
l’altro non ci sono stati). La BCE invece, seppure sin dallo scoppio della crisi
non abbia lesinato iniezioni di liquidità alle banche per far ripartire l’erogazione
del credito a famiglie e imprese, non ha potuto contare sull’ausilio di una
politica fiscale comune all’interno dell’Eurozona, trovandosi a far fronte ai
problemi che insorgono in presenza di shock economici quando Paesi diversi
adottano una moneta comune. Inoltre la BCE ha deciso di ricorrere a programmi
di quantitative easing solo nel 2015, contrariamente a quanto avvenuto in altri
Paesi, e ha deciso di farvi ricorso adottando criteri di condivisione del rischio
tra Paesi membri che, forse, tuteleranno più i «Paesi virtuosi» rispetto a quelli
che hanno più bisogno di aiuto.
3
Nel terzo capitolo, infine, verranno analizzate le politiche adottate da
altre due importanti banche centrali: la Banca di Inghilterra e la Banca del
Giappone. Vedremo come Inghilterra e Giappone abbiano adottato strategie più
simili a quanto visto negli Stati Uniti piuttosto che in Europa e che, soprattutto
in Giappone, programmi di QE avvengono ormai da molti anni senza che ciò
abbia generato inflazione, e come questo rappresenti una delle critiche mosse
da molti economisti alle politiche attuate nell’Eurosistema, che proseguono nel
solco dell’austerità fiscale, quando invece le misure da intraprendere
dovrebbero dirigersi altrove.
4
CAPITOLO UNO
LA CRISI FINANZIARIA DEL 2007
1. «Il momento di Minsky»
Se il verificarsi di una recessione di portata globale e dagli effetti
devastanti sulle economie dei principali paesi sviluppati del mondo è
sicuramente un evento che spinge gli economisti a formulare nuove idee e nuove
teorie, è altrettanto vero che la gravità della situazione può portare a rinnovati
apprezzamenti per le idee di alcuni economisti del passato. Uno di questi è
Hyman Minsky, che molto tempo prima della crisi finanziaria del 2008 andava
ripetendo che una crisi di questo tipo sarebbe non potuta accadere, ma sarebbe
sicuramente accaduta. In particolare, con le sue ipotesi dell’instabilità
finanziaria, concentrò i suoi studi sul leverage, ossia sui debiti accumulati
rispetto al reddito o agli asset detenuti dagli individui e dalle imprese, e osservò
come prolungati periodi di stabilità economica li inducano a un incremento del
leverage, in quanto sottostimano il rischio di insolvenza. Minsky, scomparso
nel 1996, era considerato dai suoi colleghi una figura marginale del pensiero
economico. Il ritorno di fiamma delle sue idee e i tanti che invocano il suo nome
e le sue teorie per fornire una spiegazione ex post alla crisi, sono stati definiti
dal quotidiano statunitense New Yorker come «il momento di Minsky».
1
1
CASSIDY J., The Minsky Moment, pubblicato sul New Yorker del 4 febbraio 2008.
http://www.newyorker.com/magazine/2008/02/04/the-minsky-moment
5
2. Il leverage
Ovviamente alti livelli di leverage, ossia alti livelli di indebitamento
rispetto al reddito o al patrimonio, possono creare enormi problemi qualora le
circostanze prendessero una piega negativa. Come vedremo meglio in seguito,
il principale fenomeno che ha innescato la crisi è stato lo scoppio della bolla
immobiliare negli Stati Uniti, bolla che si era eccessivamente gonfiata per la
pericolosa facilità con cui venivano concessi i mutui a chi non era in grado di
offrire sufficienti garanzie di rimborso. Tra le varie tipologie di mutui sub-
prime, di cui parleremo tra breve, ve ne era una chiamata interest-only, ossia
una forma di finanziamento in cui, per un periodo pattuito, si rimborsavano i
soli interessi, rinviando a un periodo successivo il rimborso del capitale. Si pensi
a come una famiglia che abbia acquistato una casa senza anticipo, ricorrendo
integralmente a un mutuo interest-only, possa trovarsi in difficoltà se il mercato
immobiliare registrasse un calo, anche di lieve entità, rispetto a una famiglia che
per acquistare una casa simile abbia versato un anticipo del 20% o 30% e avesse
già iniziato a rimborsare il capitale restante. Quest’ultima famiglia avrà
probabilità molto maggiori rispetto alla prima di sopportare una crisi del
mercato immobiliare. Si pensi ora a cosa potrebbe succedere se molte persone
e imprese sono altamente indebitate rispetto al reddito o al patrimonio. In
presenza di eventi negativi, anche di lieve entità, l’economia nel suo complesso
potrebbe avvolgersi in una spirale funesta, nella quale i tentativi dei debitori di
alleggerire i propri debiti creano un circolo vizioso che finisce per acuirne i
problemi finanziari. Si immagini un numero eccessivo di proprietari di case che
tentano di vendere i propri immobili per rimborsare mutui divenuti insostenibili:
i prezzi delle case crollerebbero e questo metterà in difficoltà altri proprietari di
case facendo aumentare ulteriormente il numero di vendite al ribasso. O si
immagini, per anticipare un tema su cui torneremo in seguito, che le banche si
preoccupano perché possiedono in portafoglio una quantità eccessiva di titoli
del debito pubblico greco, italiano o spagnolo e decidono di ridurre la propria
6
esposizione vendendone una parte: i prezzi dei titoli calano e questo metterebbe
in pericolo la stabilità delle banche, costringendole a vendere altri asset.
Ricapitolando, finché i livelli di debito sono piuttosto bassi, eventuali
crisi sono poche e distanziate nel tempo. Ciò fa sì che una economia poco
indebitata tenda a considerare sicuro il debito e tale percezione nel tempo porta
ad allentare gli standard di erogazione del credito: famiglie e imprese si abituano
a prendere soldi in prestito e il livello complessivo di indebitamento
dell’economia sale. Quando tale livello è abbastanza alto, qualsiasi evento
negativo, come l’implosione di una bolla immobiliare, una recessione anche
piccola, ecc., può innescare un «momento di Minsky». Al di là delle cause che
lo innescano, le conseguenze sono che i finanziatori si rendono conto dei rischi
del credito e i debitori si vedono costretti a ridurre il loro indebitamento,
venendosi così a creare una spirale recessiva per cui l’economia si riduce,
vengono persi molti posti di lavoro e il debito dei consumatori si accresce
ulteriormente.
3. Il preludio della crisi
Uno dei risultati più importanti ottenuti da Alan Greenspan, Presidente
della Federal Reserve dal 1987 al 2006, fu quello di ottenere una maggiore
stabilità economica per gran parte del suo mandato. Il miglioramento della
stabilità economica fu tale che quel periodo si meritò l’appellativo di «Grande
moderazione», da contrapporsi alla Grande stagflazione degli anni settanta e
alla Grande depressione degli anni trenta.
2
2
Nel 2004, il futuro governatore della FED Ben Bernanke, affrontò il tema della Grande moderazione
in un noto discorso all’Eastern Economic Association meeting a Washington DC, sostenendo che a
supportare il forte calo della volatilità dei dati macro fossero essenzialmente tre elementi: 1) un cambio
strutturale dovuto ai miglioramenti economici e tecnologici che permettevano di assorbire meglio gli
shock 2) un miglioramento nelle performance delle strategie perseguite di politica monetaria 3) una
serie di eventi favorevoli.
Qui il testo del discorso:
7
Figura 1. Crescita del Pil reale, 1950-2007.
Nota: dati trimestrali. Le aree ombreggiate rappresentano intervalli di ±1 deviazioni standard attorno
alla media dei dati rilevati nel periodo, una misura comune della variabilità delle osservazioni.
Fonte: Bureau of Economic Analysis.
La figura 1 mostra la variabilità della crescita del Pil reale dal 1950 al
2007. Se consideriamo il periodo compreso tra il 1986 e il 2007, si nota
immediatamente una significativa riduzione della volatilità, come indicato dalla
riduzione della variabilità media della crescita del Pil. In quei due decenni
l’aumento della stabilità economica ebbe davvero dell’incredibile.
L’attenuazione della volatilità ha interessato non solo la crescita del Pil reale,
ma anche l’inflazione. La figura 2 mostra l’andamento trimestrale
dell’inflazione misurato dal Cpi (consumer price index).
http://www.federalreserve.gov/BOARDDOCS/SPEECHES/2004/20040220/default.htm