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Introduzione
Formalmente la nascita del concetto moderno di privacy si fa
coincidere con il caso Warren-Brandeis. Nel 1890, a Boston, la
moglie dell'avvocato Samuel Warren, per la sua attività salottiera,
attirò l'attenzione della stampa mondana. Questo infastidì Warren
che, insieme all'amico Louis Brandeis,
1
scrisse l'articolo The right to
privacy, pubblicato sulla Harvard Law Review.
Warren e Brandeis ripresero la formula, già presente nel linguaggio
anglosassone ottocentesco, del to be let alone (essere lasciato solo)
e invocarono la tutela della sensibilità, dei sentimenti e dei pensieri
privati come estensione del diritto di proprietà privata. Spazio
interiore e spazio materiale, dunque, alieni dall'intrusione altrui;
recinti giuridici da erigersi a difesa della vita privata, così come da
tempo erano stati eretti recinti materiali
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a difesa dei beni
dell'individuo.
Dunque, possiamo affermare che la privacy abbia origini borghesi:
borghesi erano Warren e Brandeis, borghese era l'idea della
proprietà privata. Attraverso la rivendicazione del diritto alla
riservatezza la borghesia costruiva la propria identità all'interno
della società.
1
Louis Brandeis sarebbe poi diventato giudice della Corte suprema degli Stati
Uniti.
2
Già dal Seicento si era sviluppato in Inghilterra il fenomeno delle enclosures,
chiusure dei fondi.
3
Al di là di quel mondo privilegiato vi erano la promiscuità e
l'abbrutimento dei quartieri operai, colmi di un'umanità ammassata
in pochi metri quadrati e dove ogni parvenza di intimità strideva con
le squallide condizioni in cui si era costretti a vivere; condizioni in cui
parlare di privacy “sarebbe stato come offrire le proverbiali
brioches”.
3
E' solo dopo decenni di lotte che le masse giungono alla
consapevolezza che il diritto alla privacy è imprescindibile dal diritto
alla libertà, alla dignità e all'autodeterminazione di ogni individuo,
libero di operare delle scelte senza essere discriminato.
Con l'avvento dei media elettrici l'intimità tende a trasformarsi in un
nucleo inscritto in una sfera privata che si presenta sempre più
disponibile alla visibilità. L'ideale borghese di privacy entra in crisi: si
appanna il confine che separa la sfera pubblica da quella privata. Lo
schermo televisivo illumina anche le zone d'ombra, mentre la gente
comune invade gli spazi pubblici: tutto viene spettacolarizzato,
anche il dolore.
La rivoluzione digitale dilata enormemente la trasparenza sociale.
Internet promuove rapporti tra individui assenti e ridimensiona il
ruolo dell'interazione faccia a faccia. Il corpo abbandona la sua
dimensione organica, si trasforma in una sorta di simulacro virtuale
di cui ci avvaliamo per interagire con l'ambiente digitale. Di qui la
3
Guido Martinotti, La difesa della privacy, in Politica del cittadino, 1971.
4
pulsione alla visibilità, per esorcizzare l'alienazione prodotta dalla
scomparsa dei corpi in un mondo ipermediatizzato.
Nella società dell'informazione il concetto di privacy ha subito un
processo evolutivo: non si riferisce più soltanto alla tutela della
sfera privata, ma si è esteso al diritto al controllo sui dati personali,
ovvero al controllo sul modo in cui circolano e vengono utilizzate le
informazioni che ci riguardano. Non solo: al diritto a scegliere
liberamente le modalità con cui costruire la propria identità, “a non
essere semplificati, trasformati in oggetto, valutati fuori dal
contesto.”
4
Possiamo affermare che l'evoluzione della nozione di privacy – in
senso fortemente limitativo all'interferenza e al controllo altrui – sia
stata necessaria per sopperire ai problemi rappresentati dalla
crescente globalizzazione dell'informazione, innescata dalle nuove
tecnologie e dalle trasformazioni che queste hanno prodotto e
continuano a produrre nei valori e nei comportamenti della società.
La questione centrale è rappresentata dall'inevitabilità – o meno –
che la nostra sfera privata diventi sempre più “pubblica”, con il
rischio di un continuo impadronirsi da parte degli altri della nostra
stessa vita. Oggi la privacy rappresenta uno dei temi più attuali, in
una società che ha fatto della trasparenza un'ossessione, che
mercifica le informazioni personali e trasforma in merce la stessa
persona a cui dovrebbero appartenere.
4
Jeffrey Rosen, The unwanted gaze. The destruction of privacy in America, 2000.
5
La sorveglianza permea ormai il quotidiano: ogni nostra interazione
con il mondo esterno lascia delle tracce. Anche se Brandeis,
nell'ormai lontano 1928, avvertì che “è poco probabile che i
progressi della scienza nel fornire al governo i mezzi per spiare si
fermino alle intercettazioni telefoniche”, non poteva certo
immaginare fino a che punto anche i momenti più intimi della vita
privata potessero diventare pubblici, grazie alle nuove tecnologie.
Chiunque può mettere insieme “pezzi” del nostro passato e creare
un montaggio casuale della nostra storia, ovvero espropriarci del
diritto all'oblio, un diritto non scritto, ma necessario per affermare
la nostra identità, per costruire la nostra personalità in un contesto
libero da un presente congelato in un passato onnipresente.
Il mondo è ormai unificato in un villaggio digitale globale,
sorvegliato tramite le nuove tecnologie, per cui appare legittimo il
dubbio espresso da Stefano Rodotà: “la privacy non sarà stata una
parentesi tra il villaggio tradizionale e il villaggio globale?”
5
5
Stefano Rodotà, Intervista su privacy e libertà, 2005.
6
La vita in vetrina
la resa della privacy alla trasparenza
1.1. Società antidrammaturgica e vetrinizzazione
Nel modello drammaturgico delle moderne relazioni sociali,
teorizzato da Erving Goffman,
6
il confine tra pubblico e privato
coincide con quello che separa ribalta e retroscena.
Per entrare in relazione con gli altri, senza essere costretto a
condividere la propria vita privata, l'individuo-attore recita un
proprio ruolo, che gli permette di essere trattato in un certo modo;
al contrario, nel retroscena “può rilassarsi, abbandonare la sua
facciata, smettere di recitare la sua parte”.
7
In realtà, l'individuo
dev'essere in grado di interpretare un numero elevato di ruoli,
indossando maschere diverse a seconda del contesto in cui recita.
Affinché la rappresentazione sia credibile, il pubblico – sempre
attento a rilevare tracce della personalità “autentica” dell'attore –
non deve accedere al retroscena. Fortunatamente l'attore non è
solo durante la recita: con lui collabora quella che Goffman chiama
“equipe”, un insieme di persone “complici nel far sì che la situazione
appaia quella che essi vogliono”.
8
6
Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, 1969.
7
Ibidem.
8
Ibidem.
7
Secondo Goffman, la vita urbana è un paradiso della libertà se
paragonata a quella senza segreti del villaggio tradizionale, in cui si
era costantemente sottoposti agli sguardi altrui. Indossando delle
maschere, infatti, l'individuo può liberarsi dal “condividere fatiche,
preoccupazioni e segreti.”
9
Tuttavia, in alcuni periodi storici si
sviluppano tendenze sociali di carattere antidrammaturgico, in cui,
cioè, si indebolisce il confine tra ribalta e retroscena, viene meno la
complicità dell'equipe, i segreti finiscono per essere svelati. Gli
ultimi decenni della nostra era rappresentano, appunto, uno di tali
periodi. Più che di superamento del modello drammaturgico
goffmaniano, sarebbe più corretto parlare di un cambiamento
radicale nelle regole della messa in scena, prodotto dall'abolizione
della distinzione tra ribalta, vista come il luogo della finzione, e
retroscena, idealizzato come il luogo dell'autenticità del sentire. Ciò
costringerebbe il soggetto ad una “recitazione permanente”,
10
per
legittimare le proprie richieste di riconoscimento da parte degli altri,
pena l'indifferenza ed il fraintendimento, se non il rifiuto.
L'attacco al modello drammaturgico arriva innanzitutto dagli effetti
provocati dai media elettrici. Questi, infatti, raccogliendo individui
diversi in un unico “luogo” di rappresentazione, contribuiscono da
un lato a rendere sempre più labile la distinzione tra figure
pubbliche e figure private, dall'altro favoriscono la destrutturazione
9
Erving Goffman, op. cit.
10
Carlo Formenti, Se questa è democrazia, 2009.
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dei ruoli sociali tradizionali e la loro contaminazione. Non solo:
promuovono rapporti sociali tra individui assenti, ridimensionando il
ruolo dell'interazione faccia a faccia. Di qui la pulsione quasi
irrefrenabile alla visibilità e, in tal senso, soddisfano questo
desiderio, permettendo di esorcizzare l'alienazione prodotta dalla
scomparsa dei corpi in un mondo ormai ipermediatizzato: la stessa
vita quotidiana si trasforma in spettacolo, l'intimità si offre senza
pudori sulla vetrina della società.
Analizzando il processo che ha portato alla sostituzione della
bottega artigiana con il moderno esercizio commerciale, Vanni
Codeluppi
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si sofferma sulla nascita della vetrina (XVIII sec.):
mentre prima la compravendita della merce era affidata al rapporto
di fiducia tra l'artigiano e i propri clienti, con la vetrina la merce
viene esposta in modo che gli acquirenti siano sedotti dalla sua
immagine. Questa singolare carica erotica degli oggetti si lega al
concetto marxiano di “feticismo delle merci”, ma più ancora a
quello di “sex-appeal dell'inorganico”, proposto da Walter
Benjamin.
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Codeluppi preferisce parlare di “vetrinizzazione”: si tratta di una
metafora il cui senso va ben al di là delle pratiche di esposizione
della merce, dal momento che contempla anche l'esposizione del
proprio corpo e di ogni momento della propria vita privata. Questa
11
Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale, 2007.
12
Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, 1996.