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INTRODUZIONE
Il tema dell’ottimismo è oggi quanto mai popolare grazie alla diffusione e alla crescita
degli studi nell’ambito della psicologia positiva. La domanda da cui questa trattazione ha
preso avvio è se lo stile esplicativo possa influenzare la nostra percezione della vita e degli
eventi, tanto da influenzare anche la capacità di rispondere ad essi efficacemente.
Questa capacità viene definita resiliency, termine che si è preferito utilizzare rispetto
all’italiano “resilienza”, che si avvicina di più alla fisica dei metalli. La resiliency è
comunemente conosciuta come la capacità di resistere agli stress e agli “urti” della vita,
riuscendo poi a riprogettarla in maniera positiva. Questa definizione però non mette in luce
una dimensione che in questa trattazione si è cercato di porre in primo piano, ovvero il
cambiamento.
L’aspetto a parer mio più saliente e interessante per gli sviluppi futuri in questo ambito, è
la potenzialità trasformativa insita in ogni circostanza della vita, positiva o negativa che
sia. Il pessimismo non permette alla persona di cogliere l’opportunità di apprendimento cui
si trova di fronte, vive gli eventi perlopiù come fortuiti in circostanze positive, o come
disgrazie da subire passivamente in casi negativi. Gli ottimisti al contrario sviluppano una
virtù straordinaria, capace di risollevare l’animo delle persone anche dalle situazioni più
avverse: la speranza. Viktor Frankl ne offre un straordinario esempio grazie ai suoi
racconti sull’atteggiamento degli internati nei campi di concentramento.
L’obiettivo principale di questa tesi è evidenziare il legame esistente fra ottimismo e
resiliency, avvalendosi anche di due questionari per la misurazione di questi due costrutti,
cui fanno seguito delle analisi quantitative per verificarne l’effettiva correlazione.
Il primo capitolo tratta lo stile esplicativo nell’età adulta, a partire dalle teorie e dagli studi
iniziali fino al lavoro di un suo grande promotore, Martin Seligman, padre della psicologia
positiva. Ottimismo e pessimismo sono messi a confronto per esplorarne vantaggi e
svantaggi ed effetti sulla vita delle persone. All’ottimismo sono accostate anche alcune
importanti capacità come ad esempio il coping, le strategie di problem solving e la
creatività, che consentono di affrontare i problemi in maniera più efficace.
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Il secondo capitolo è dedicato invece alle implicazioni dello stile esplicativo nell’età
evolutiva. È sottolineato in particolar modo l’influsso della famiglia come primo
imprinting che il bambino apprende per spiegare le cause degli eventi che lo circondano,
che deriva soprattutto dalle reazioni dei genitori ad essi. Una volta formato però, lo stile di
pensiero non è immutabile e determinato una volta per tutte. Le esperienze educative e i
legami significativi che il bambino, prima, e l’adolescente, poi, stringeranno, potranno
modificarlo. In questo modo anche per il pessimista più incallito c’è una speranza, è
sempre possibile imparare l’ottimismo. Non poteva quindi essere esclusa la scuola, tra le
agenzie educative primarie, che ha l’occasione di mettere in campo azioni e progetti per
migliorare la qualità della vita degli alunni a partire dal loro modo di vivere successi e
sconfitte.
Con il terzo capitolo si apre la seconda parte della tesi, incentrata sulle caratteristiche della
resiliency a partire dagli studi e dagli autori principali. In particolare viene esplorato il
modello ecologico e quello della casita della resiliency, che illustra le componenti di essa a
vari livelli e per questo può essere utilizzato nei percorsi di empowement dell’individuo a
partire dalla situazione specifica in cui si trova. Infine sono presentate le indicazioni di
diversi autori circa i fattori di rischio per la stabilità e il benessere dell’individuo e quelli
che invece possono rafforzarlo anche davanti alle avversità, potenziando la capacità di
resiliency. Questa parte è indirizzata in particolar modo a quanti si occupano di soggetti in
età evolutiva, con l’intento di prevenire l’eventuale disagio successivo. La prevenzione è
possibile grazie alla scoperta che la presenza dei fattori protettivi può diminuire se non
addirittura quasi annullare l’effetto nocivo di traumi, stress ed eventi negativi in genere.
Il quarto capitolo è dedicato interamente all’infanzia e all’adolescenza. Come per
l’ottimismo, viene sottolineata la centralità della famiglia, luogo primario degli affetti; con
la loro condotta i genitori hanno il potere di far sentire il bambino sicuro, protetto e amato,
oppure trascurato, insicuro e rifiutato. Tutto ciò che incrementa la sicurezza funge da
fattore protettivo per la resiliency, al contrario tutto ciò che la indebolisce, costituisce un
fattore di rischio, tanto più incidente, quanto più grave è il rifiuto o la trasuratezza.
Infine nel quinto e ultimo capitolo è illustrato lo studio operato su un campione di studenti
della classe prima della scuola secondaria di primo grado e i risultati ottenuti.
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CAPITOLO 1
L’OTTIMISMO NELLA VITA ADULTA
1.1. Teorie principali
L’ottimismo è un costrutto che sta acquisendo spazio crescente all’interno degli studi di
quella branca moderna della psicologia cognitiva, definita “psicologia positiva” dal suo
principale portavoce, Martin Seligman.
In questa prima parte del capitolo saranno presentati alcuni importanti autori, che si sono
occupati di definire il costrutto dell’ottimismo, a partire dalle scoperte e dagli studi di
Seligman, che verranno esposti in modo più dettagliato nel secondo paragrafo.
Lo stesso Seligman collega le sue ricerche e i risultati ottenuti al lavoro preliminare di altri
ricercatori quali Bernard Weiner, che, alla fine degli anni ’60, cominciò a chiedersi il
motivo per cui alcune persone avessero successo ed altre no, a parità di impegno e
d’intelligenza (Seligman, 1990).
Alla fine egli concluse che l’elemento discriminante risiedeva nel tipo di spiegazioni, che
le persone si davano circa le cause dei propri successi o insuccessi. Queste intuizioni
dettero forza alla “teoria dell’attribuzione” di Rotter, che rappresentava una nuova
tendenza rispetto al modello vigente all’interno della psicologia dell’apprendimento del
tempo. Esso aveva al centro il convincimento che dando un rinforzo positivo come risposta
ad una determinata azione di un animale, esso imparava ben presto a metterla in atto
volontariamente, mentre togliendolo esso continuava per un po’ lo stesso movimento e poi
lo estingueva (Seligman, 1990). Con le persone questo non capitava, già dopo la prima
mancata erogazione del rinforzo, alcuni rinunciavano al compito assegnatogli: fenomeno
questo che nessuno sapeva spiegare. Weiner comprese che esso era da ricercare nella
diversa spiegazione che le persone si davano circa quest’evento all’apparenza inspiegabile:
in altre parole quelle che credevano che la causa fosse permanente, dunque immodificabile,
si arrendevano subito o comunque prima di quelli che, invece, pensavano che la causa
fosse temporanea, dunque modificabile.
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In seguito queste intuizioni influenzarono anche l’ambito terapeutico cognitivo, all’interno
del quale Albert Ellis guardava ai malati definiti “nevrotici” da altre scuole, come persone
che avevano acquisito un errato modo di pensare.
La sua conclusione fu che il lavoro terapeutico principale, consisteva nella modifica dei
pensieri disfunzionali. Allo stesso modo, un altro rilevante fautore della terapia cognitiva,
Aaron Beck, trattando i malati di depressione, cominciò a ipotizzare che i pensieri
fortemente negativi, che questi individui avevano su se stessi, sugli altri e sul mondo,
potessero essere la vera causa della depressione piuttosto che una sua conseguenza
(Seligman, 1990). Se questo fosse stato appurato, avrebbe classificato la depressione come
disturbo del pensiero conscio. A partire da queste importanti intuizioni e ipotesi, si
cominciò a considerare la malattia mentale come “un insieme di abitudini maladattive”
(Seligman, 1990, 119) che, pertanto così come erano state apprese, potevano essere
disapprese in maniera permanente.
Questo diede seguito ad un grande ottimismo all’interno della psicologia cognitiva, circa le
possibilità di ognuno di migliorarsi, nonostante l’eventuale difficile ambiente educativo e
di crescita.
Così, durante gli anni ’70, Beck ed Ellis, raccolsero sempre più consensi, affermando che
lo stato delle emozioni è influenzato, se non addirittura causato, dal pensiero conscio, cioè
da tutto il flusso di pensieri che avvengono a seguito di un particolare evento o situazione.
Infine sembra valere quello che in sociologia viene chiamato “effetto pigmalione”, ovvero
la profezia che si autoavvera, cioè l’aspettativa di qualcosa sembra rendere l’evento stesso
più probabile.
Così si plasma la propria vita e la realtà attraverso i pensieri e i belief che si hanno su di
essa. Tutto ciò influenza quindi anche la risposta allo stress e la capacità di resistenza ad
esso (resiliency).
A partire da queste premesse Seligman ha impresso una svolta alla psicologia cognitiva,
invitando quanti vi operano a concentrarsi non più solamente sui casi di patologia e
malessere, ma, in modo del tutto nuovo, sul tipo di pensiero di coloro che nella loro vita
sembrano invece ottenere successi di cui si sentono soddisfatti riportando un buono od
elevato senso di benessere e felicità nella propria vita.
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Egli diede il via così alla psicologia positiva, di cui si tratterà largamente nel paragrafo
successivo, individuando due principali stili di pensiero esplicativo: quello ottimistico e
quello pessimistico. Come ricorda Meazzini, sostenitore della psicologia positiva e della
terapia cognitivo-comportamentale, non esiste un ottimista che lo sia in modo totale, ma vi
sono piuttosto diversi tipi di ottimismo (Meazzini, 2007):
L’ottimista ingenuo, è colui che crede nella bontà intrinseca del mondo, non si
lascia abbattere da nessun evento infausto, perché pensa che la sua durata sarà
breve e che poi tutto volgerà al meglio. Questo stile di pensiero denota quindi una
totale assenza di realismo con la conseguenza di esporre la persona a numerosi
rischi di fallimento, dal momento che essa non è capace di valutare tutti gli aspetti
della realtà in modo oggettivo;
L’ottimista passivo, è colui che crede nella bontà del mondo e nel fatto che tutto
andrà sempre per il meglio non tanto per un proprio impegno personale o per
propria responsabilità, quanto per volere del destino o degli altri. Questo stile di
pensiero lo porta a negare aspetti della realtà, anche quando questi sarebbero
evidenti;
L’ottimista dommatico, è colui che volutamente ignora gli aspetti negativi di una
particolare situazione e di segnali di pericolo che gli si presentano, come nel caso
del rischio di infarto o di altre patologie, attribuendo il rischio solo agli altri;
L’ottimista irrazionale, convinto che ogni cosa andrà per il meglio, è portato ad
evitare qualunque tipo di prudenza o di valutazione del rischio, a sentirsi una
persona privilegiata, spesso grazie ai numerosi successi riscontrati in diversi ambiti,
grazie ai quali ha appreso il convincimento di essere immune al fallimento;
L’ottimista cognitivo, che fa parte della tipologia studiata maggiormente dalla
psicologia positiva e da Martin Seligman, si interroga invece sulle due diverse
tipologie di attribuzioni di causalità che la mente opera per spiegare i successi o i
fallimenti (Bonino, 2012):
Il locus of control esterno, grazie al quale la persona ricerca la causa di
eventi positivi o negativi in fattori esterni quali gli altri, il destino, le
istituzioni ecc. Per questo si aspetta da essi la soluzione ai propri problemi;
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Il locus of control interno, è lo strumento cognitivo mediante il quale la
persona si ritiene capace d’influenzare l’andamento e l’esito degli eventi,
sentendosi dunque responsabile sia dei propri successi che dei propri
fallimenti. Per questo è portata ad agire in prima persona per modificare le
situazioni secondo i propri obiettivi. Chi ha quest’atteggiamento “interno”
sembra essere anche maggiormente autonomo rispetto al giudizio sociale.
Il locus of control interno favorisce la fiducia in sé e porta ad agire nella realtà con un
atteggiamento maggiormente ottimista. La variabile del locus of control si combina in
modo particolare nei diversi gradi di ottimismo e pessimismo, come verrà approfondito nel
secondo paragrafo.
Dalle ricerche effettuate in quest’ambito è possibile concludere che l’ottimista a tutto tondo
non esiste, mentre il pessimismo estremo è lo stile di pensiero caratteristico della
depressione grave, definita appunto “maggiore” nel DSM IV-TR, anche se ancora non è
chiaro se ne sia una causa o una conseguenza (Meazzini, 2007).
Altri autori e ricercatori hanno individuato due diverse macro forme di ottimismo: quello
irrealistico e quello realistico (Tartarotti, 2010). Il primo è stato messo in evidenza per la
prima volta da Weinstein nel 1980, che riportò le opinioni degli studenti di college, in cui
la maggior parte era convinta che le probabilità personali di andare incontro in futuro a
fallimenti, malattie, alcolismo e divorzi, fossero minori rispetto a quelle degli altri studenti.
L’ottimismo irrealistico si configurò così come la “convinzione che gli eventi positivi
abbiano maggiore probabilità di accadere a sè stessi rispetto agli altri, diversamente dagli
esiti negativi, che invece tendono ad essere ritenuti appannaggio prevalentemente delle
altre persone” (Tartarotti, 2010, 69). Questo porterebbe gli individui con un simile
ottimismo a non essere prudenti nelle situazioni pericolose o rischiose e ad incorrere più
facilmente in comportamenti avventati per la salute. L’ottimismo realistico invece, sembra
svolgere un’importante funzione adattiva, dal momento che l’individuo considera nella
stessa situazione, sia le probabilità di fallimento che di successo, impegnandosi in prima
persona per “ridurre le difficoltà e aumentare le opportunità” (Todero, 2006).
In pratica, si attende esiti positivi dalle sue azioni senza per questo negare o ignorare i
possibili rischi; in questo ambito sono state formulate diverse ipotesi sull’influenza
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dell’ottimismo sul sistema immunitario, sull’umore e in generale sulla salute e gli stili di
vita che la favoriscono. Secondo Colvin (1995) la ragione della relazione tra ottimismo e
benessere risiederebbe nel sostegno sociale che gli ottimisti riescono ad ottenere in misura
maggiore rispetto ai pessimisti. Ciò permette loro di affrontare con più sicurezza le
avversità. È questo uno degli aspetti importanti che lega l’ottimismo alla capacità di
resiliency. Inoltre all’interno di questo filone di studi, l’ottimismo realistico è interpretato
in almeno due modi diversi: l’ottimismo disposizionale e l’ottimismo attribuzionale
(Tartarotti, 2010).
Il primo è stato indagato da Carver e Scheier (1990), che lo definiscono quasi come un
“tratto” di personalità, quindi come una caratteristica relativamente stabile nel tempo e
nelle diverse situazioni, che porta la persona a guardare al futuro e agli eventi con fiducia,
attendendosi prevalentemente risultati positivi. L’aspettativa si può genericamente
considerare come quel “senso di fiducia” riguardo alla possibilità di raggiungere un
particolare obiettivo. L’ipotesi di fondo di questi autori, è quella secondo la quale le
persone si impegnano per raggiungere degli obiettivi fino a quando li considerano
raggiungibili e finché rimangono nella convinzione che il loro agire produrrà gli esiti
desiderati (Ascolese, 2008/2009). Quando, invece, le aspettative diventano sfavorevoli ed
aumentano i dubbi sul raggiungimento dei propri scopi, gli individui riducono il proprio
impegno o addirittura abbandonano il compito.
Gli ottimisti dimostrano così un migliore stato di salute, dal momento che gli eventi
stressanti creano una minore attivazione negativa, aumentando pertanto la resiliency. Per
misurare l’ottimismo come disposizione, gli autori hanno creato un questionario, il Life
Orientation Test (LOT), apparso per la prima volta nel 1985 e in seguito rivisitato.
Il maggior teorico e studioso dell’ottimismo attribuzionale, invece, è Seligman, che in
sintonia con Abramson e Teasdale (1978), lo definiscono anche stile esplicativo,
caratteristico degli individui che tendono ad interpretare gli eventi positivi come più stabili,
più globali e maggiormente attribuibili a sé rispetto a quelli negativi. Essi partono dal
presupposto secondo cui le spiegazioni che le persone forniscono degli eventi influenzino
le loro aspettative circa le esperienze future e il loro modo di reagire ad esse (Ascolese,
2008/2009). Il processo di attribuzione causale è quindi particolarmente complesso, poiché
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comprende la tendenza a spiegare un evento, di volta in volta, come causato da qualcosa di
interno (causa interna soggettiva) o da qualcosa di esterno (causa esterna ambientale). Su
queste considerazioni s’instaura l’ottimismo attribuzionale, caratterizzato da tre dimensioni
fondamentali che sottolineano il modo in cui vengono a formarsi queste attribuzioni: la
stabilità, permanente o temporanea, la pervasività, generale o specifica e la
personalizzazione, interna o esterna. Tutte queste dimensioni saranno chiarite più avanti
nella trattazione e costituiscono alcune delle variabili dello strumento per misurare tale tipo
di ottimismo, l’Attributional Style Questionnaire (ASQ).
1.2. Apprendere l’ottimismo si può! Martin Seligman e “l’impotenza appresa”
a) Lo sviluppo del pensiero: dall’impotenza infantile al controllo adulto
Secondo Seligman, padre della psicologia positiva moderna, alla base del pessimismo c’è
uno stato di impotenza presunta, per cui il soggetto è convinto di non avere potere su
quanto gli accade sia di positivo sia di negativo, con un locus of control decisamente
esterno (Seligman, 1990).
Lo stato di impotenza è normale, quasi fisiologico, all’inizio della vita e nella primissima
infanzia, durante la quale il bambino è dominato da riflessi innati e pertanto fuori dal
proprio controllo. Allo stesso modo gli anziani, nel periodo finale della propria esistenza,
soprattutto se affetti da una qualche patologia, possono tornare a questo stato di dipendenza
totale.
Il resto del percorso di crescita di un individuo consiste nello sviluppo della sua capacità di
assumere il controllo di sé e del proprio ambiente, per cui gli atti del bambino diventano
sempre più intenzionali, come il pianto, il sorriso e via via il linguaggio e la deambulazione
autonoma. In questo modo il bambino impara che ci sono degli aspetti della realtà che
necessariamente sfuggono al proprio controllo, mentre ve ne sono altri sui quali è possibile
e conveniente esercitarlo. Secondo Seligman il modo in cui lo si fa, dipende dal modo con
cui si guarda agli eventi e si attribuisce ad essi una spiegazione.