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Introduzione
Nell’arco degli ultimi decenni, l’industria automobilistica mondiale ha subito
un processo di trasformazione strutturale profondo, seguito soprattutto dalla
globalizzazione del mercato dell’auto. L’evoluzione della domanda nei mercati
maturi, l’affermazione di nuovi mercati, la nascita di grandi gruppi automobilistici
integrati e globali, la riduzione dei costi di produzione, l’internazionalizzazione, le
cooperazioni industriali, l’evoluzione tecnologica, le problematiche ambientali e i
costi dei carburanti sono tutti fattori che influenzano profondamente le scelte
strategiche dei grandi costruttori mondiali.
La globalizzazione del mercato dell’auto ha imposto a tutti i costruttori di
creare un’importante presenza nei paesi emergenti e nei paesi in via di sviluppo,
dove si realizzano i grandi volumi produttivi e allo stesso tempo, mantenere una
presenza di qualità nei mercati maturi dove si ottengono i maggiori profitti. Nel
mondo globale di oggi, che si caratterizza per una produzione di auto “low cost”
incompatibili con il costo del lavoro in Europa, le aziende sono libere di produrre
dove il costo del lavoro è più basso e gli incentivi statali più alti, come succede oggi
nei mercati est europei.
Il presente lavoro si prefigge lo scopo di analizzare una delle conseguenze
della globalizzazione a partire dagli anni novanta ad oggi, e cioè il processo di
delocalizzazione e gli investimenti diretti esteri nell’industria automobilistica italiana
diretti nei Balcani. La delocalizzazione è un concetto ampio, in quanto si tratta di
un’insieme di diverse strategie che hanno in comune fra di loro il distacco totale o
parziale di attività economiche dal territorio di origine. Si può parlare di
delocalizzazione anche nel caso di aziende che aprano filiali nel proprio stesso
territorio nazionale, ma lontano dalla casa madre: è il caso della Fiat e il spostamento
di parte della sua produzione nelle fabbriche del Sud Italia. Tuttavia, in generale, con
delocalizzazione si intende lo spostamento di attività al di là dei confini dello Stato
ed è solo in tal senso che se ne occupa il presente lavoro.
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Il processo di delocalizzazione si è fortemente esteso negli ultimi anni,
generando un altro processo che caratterizza gran parte dei paesi industrializzati, tra
cui in modo particolare l’Italia: il processo di deindustrializzazione, che rende l’Italia
sempre più disarmata davanti alla crisi economica ed incapace di dare alle giovani
generazioni le prospettive di lavoro e di vita che si attendono.
La sempre maggior apertura dei mercati, associata ad una notevole riduzione
dei costi di trasporto e di comunicazione, ha reso le economie sempre più integrate,
accelerandone gli scambi, gli investimenti e la diffusione della produzione in più
mercati, soprattutto alla ricerca di vantaggi di costo del lavoro nei paesi emergenti.
Inoltre, i produttori di auto tendono a localizzare gli stabilimenti di assemblaggio
finale in prossimità dei mercati di sbocco. Sempre in prossimità di tali stabilimenti è,
nella maggior parte dei casi, localizzata anche la filiera della fornitura di componenti,
almeno di quelli per i quali i costi di trasporto sono più elevati e le esigenze del just
in time sono più necessarie.
Il presente lavoro riguarda la delocalizzazione dell’industria automobilistica e
componentistica nei Balcani, con particolare attenzione al caso italiano della Fiat in
Serbia, alla quale seguirono gli investimenti della filiera italiana ed europea di
componentistica per automobili, in modo da stare in prossimità al proprio cliente.
Come osserva Volpato (2008),
“(..) la Fiat si è trovata prima di gran parte delle imprese italiane
immersa nel processo di globalizzazione dell'economia, ha già
sperimentato la necessità di allargare drasticamente la dimensione
geografica dei propri interessi e di conseguenza da tempo si sta
misurando in un'arena competitiva mondiale, con tutto quanto ciò
comporta in termini di diversità dei mercati da servire e di risposte
competitive da dare, nei confronti sia di concorrenti radicati in
economie altamente industrializzate, come le case auto europee,
americane e giapponesi, sia di concorrenti emergenti da paesi a basso
costo del lavoro (..)" (Bologna, 2008).
Questo lavoro si svolge in tre capitoli, strettamente collegati tra loro. Il primo
capitolo parte con una trattazione generale delle strategie di internazionalizzazione
delle imprese e le teorie oligopolistiche, le quali forniscono un quadro concettuale
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descrittivo ed interpretativo delle determinanti e delle dinamiche di investimento
estero delle imprese. In seguito, dopo un breve confronto tra gli investimenti diretti
italiani con quelli dei principali paesi dell’eurozona, il capitolo si conclude con una
rassegna degli effetti sul paese di destinazione, sul paese di origine e sulle imprese
dei paesi terzi.
Il secondo capitolo riguarda il contesto di riferimento del presente lavoro nel
senso più ampio, cioè l’industria automobilistica italiana nello scenario
internazionale. Vengono sviluppate le principali alleanze e fusioni e acquisizioni
della Fiat, prestando maggiore attenzione alla relazione storica tra quest’ultimo e il
maggiore produttore di automobili della ex Jugoslavija, Zastava. Quest’ultimo
argomento e la breve trattazione della Fiat nei mercati emergenti annunciano quello
che è l’argomento chiave della presente tesi: la Fiat nei Balcani.
Il terzo capitolo si concentra sulla presenza della Fiat in Serbia e la nascita
della Fiat Automobili Serbia (FAS) a Kragujevac. Dopo un’analisi del quadro socio-
economico della Serbia e le condizioni favorevoli per gli investimenti diretti esteri,
viene trattata in modo approfondito la joint venture di controllo della Fiat (66,3%)
con il governo della Repubblica di Serbia (33,3%), dove la Fiat ha acquisito parte
dello stabilimento di Zastava a Kragujevac nel quale produce il modello 500L. E’ di
significativa importanza in questo capitolo l’impatto economico e sociale della
presenza della Fiat in Serbia: ci sono sia aspetti positivi sia negativi di tale presenza,
per entrambi i paesi.
Nello stabilimento Fiat in Kragujevac oltre al fatto che le autorità serbe hanno
fatto tantissime concessioni a livello di incentivi e terreni, gli operai serbi
guadagnano un quinto dei loro omologhi italiani e lavorano fino a 12 ore al giorno.
Ma la cosa più grave è che la Fiat ha cominciato a chiudere le proprie produzioni sul
territorio italiano. Per questi motivi la delocalizzazione è molto criticata e piace a
pochi, tranne che alle grandi aziende che mirano ad aumentare i loro profitti e
abbassare i costi di produzione che in Europa sono molto più alti che nei paesi
emergenti. In questo modo la delocalizzazione permette di sopprimere posti di lavoro
nelle sedi centrali ma di creare filiali all’estero. Così si riducono i costi, si
conquistano nuovi mercati e al tempo stesso si reinvestono i benefici nel campo
dell’innovazione e della ricerca.
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Accanto alle critiche alla delocalizzazione della Fiat, ci sono anche i
sostenitori di questa scelta. Lo spostamento della sede fiscale della Fiat Chrysler
Automobiles dal Lingotto a Londra ci fa capire le debolezze del sistema fiscale
italiano. La strategia fiscale di un gruppo complesso come Fiat è necessariamente
importante quanto quella industriale. La scelta di Londra non è causale, in quanto i
due paesi, oltre ai trattati di libero scambio siglati, intrattengono relazioni speciali.
Non avendo un’economia basata sulla manifattura, l’Inghilterra di recente ha varato
una riforma del piano fiscale del diritto societario per rendere conveniente ai gruppi
europei il trasferimento a Londra. Per molte imprese italiane che hanno delocalizzato
all’estero, la burocrazia pesa molto meno che in Italia, con conseguenti vantaggi
competitivi. Lo stesso Marchionne ha dichiarato che la strategia di delocalizzazione
può essere molto pericolosa. Chi la segue, deve essere consapevole degli effetti che
provoca sul territorio d’origine, in termini di perdita di posti di lavoro, di competenze
e di stabilità economica. Quindi il timore che accompagna i processi di
delocalizzazione, in particolare quando si trasferisce la produzione verso paesi in cui
il costo del lavoro è molto basso, è che questo fenomeno porti ad una riduzione
dell’occupazione nei paesi d’origine, sia nelle aziende che delocalizzano sia nei loro
fornitori e acceleri il processo di deindustrializzazione.
Un’ultima analisi del presente lavoro riguarda la produzione di
componentistica di automobili in Serbia e in Macedonia. In seguito alla nascita di
Fiat Automobili Serbia (FAS), buona parte dei fornitori della Fiat presenti sul
territorio italiano ed europeo in generale, hanno spostato parte delle loro produzioni
nei Balcani, in modo da ridurre i tempi di consegna ma anche abbattere i costi di
produzione e fruire dei numerosi vantaggi che i paesi dei Balcani offrono agli
investitori.
Oltre alla presenza di un parco fornitori piuttosto numeroso localizzato nella
zona franca di Kragujevac, in prossimità allo stabilimento della Fiat Automobili
Serbia (FAS), molte aziende di componentistica hanno trasferito o, stanno per
trasferire, parte della loro produzione in Repubblica di Macedonia, dove, come
avviene anche nel caso della Serbia, i rispettivi governi hanno messo in atto politiche
favorevoli per gli investitori che rendono la produzione molto più conveniente in
confronto al loro paese di origine.
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Infine, il capitolo si chiude con una rassegna delle maggiori aziende sia del
campo della componentistica per automobili sia di altri settori più svariati, e
l’impatto degli investimenti in Macedonia di questi ultimi sull’economia macedone e
sul benessere della popolazione. Gli indicatori macroeconomici della Macedonia in
seguito all’ingente flusso di investimenti diretti esteri mostrano, in teoria, un
avanzamento del paese nelle classifiche mondiali, ma nonostante la disoccupazione
fosse in calo, una buona parte della popolazione rimane insoddisfatta dagli
trattamenti salariali considerati troppo bassi e poco generosi da parte degli investitori
europei.
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1. L’internazionalizzazione delle attività produttive ed innovative
delle imprese
I processi di frammentazione della produzione e di integrazione dei flussi
commerciali costituiscono fenomeni complementari che stanno ridisegnando la
struttura delle relazioni economiche internazionali. In conseguenza di tali fenomeni,
l’economia mondiale è cambiata drammaticamente durante gli ultimi due decenni,
modificando la natura della concorrenza internazionale. In particolare, tale
frammentazione può essere di due tipi, che possono essere combinate insieme in
quanto si rinforzano a vicenda nel potenziale di frammentazione. Essi sono:
- frammentazione organizzativa, attraverso l’esternalizzazione di alcune
operazioni nell’ambito di una generale strategia di controllo della produzione;
- frammentazione geografica, attraverso la localizzazione della produzione in
vari paesi caratterizzati da differenti regimi di regolamentazione.
1
Il processo di globalizzazione ha prodotto anche una serie di conseguenze che
caratterizzano l’economia odierna, tra le quali la frammentazione della produzione, e
quindi la diffusione della produzione in regioni, paesi e aree caratterizzati da regimi
diversi di organizzazione della forza lavoro, generando in questo modo dei vantaggi
per le imprese (Ietto-Gillies, 2005, cap. 15.3). Per “globalizzazione” si intende un
processo di crescente interconnessione tra imprese, paesi, persone, esperienze e
conoscenze relative a diverse aree geografiche, economiche, culturali. Nel nostro
caso della produzione, una definizione più precisa del termine “globalizzazione” ci
aiuta ad introdurre nel modo appropriato l’argomento che verrà trattato nei paragrafi
successivi.
La globalizzazione economica è un fenomeno complesso tra le cui cause sono
numerose, e riguardano sia aspetti tecnico-produttivi che storico istituzionali: per
quanto riguarda i primi vi sono “i rapidi miglioramenti dei trasporti e delle
comunicazioni; la conseguente riduzione dei costi […], l’evoluzione delle tecniche
favorevoli alla possibilità di parcellizzare i processi produttivi e frammentarne la
1
Grazia Ietto-Gillies, (2005), “Imprese transnazionali. Concetti, teorie, effetti”, Carocci editore, 2005
12
localizzazione in diversi paesi”
2
. Le nuove catene del valore
3
si frammentano, quindi,
geograficamente. Significa che gli impianti produttivi, i laboratori di ricerca, le
attività di marketing e di direzione generale di una data impresa sono sparsi in vari
paesi del mondo. Le diverse fasi della catena di valore possono essere gestite sia
all’interno dei confini proprietari delle imprese, sia attraverso lo sviluppo di alleanze
con partner internazionali che permettono all’azienda di accedere a risorse
complementari attraverso l’esternalizzazione di intere fasi della produzione. Le
catene di valore globali sono attivate, quindi, attraverso investimenti diretti all’estero
ma anche tramite commesse a terzisti o fornitori che operano su scala
internazionale.
4
La formazione delle lunghe reti dell’economia globale ha, infatti, diversi
vantaggi per le imprese che ne fanno parte. Innanzitutto, essa permette di ottenere
economie di scala, di ampiezza e di esperienza grazie alla presenza più estesa nei
mercati di sbocco. In seguito, garantisce alle imprese di cogliere i benefici legati ai
divari di produttività e di costo dei fattori (lavoro, materie prime, capitale) fra diverse
aree geografiche e infine permette alle imprese di servire meglio i clienti grazie alla
presenza globale e di accedere a risorse di conoscenza radicate nei mercati più
lontani.
5
Forza trainante nell’ambito di questo processo è, dunque, la delocalizzazione,
con la quale ci si riferisce ad uno spostamento della produzione da imprese poste sul
territorio di un determinato paese ad altre localizzate all’estero. Se, invece, si
considera in una prospettiva più ampia, la delocalizzazione rappresenta un fenomeno
estremamente complesso che può trovare attuazione in varie forme.
La forma più diffusa è quella della sub-contrattazione, che consiste in un
semplice accordo per l’acquisto del prodotto finale di un produttore estero che vanta
2
G. Balcet,(1999) “La globalizzazione, al di là dei miti”, Il Mulino (Bologna), n°381, cit. p.33
3
La “catena del valore” o “value chain” è un concetto introdotto da M. Porter a metà degli anni
ottanta ed è lo strumento principale per comprendere a fondo il vantaggio competitivo. La catena del
valore rappresenta uno strumento di analisi e scomposizione del processo di generazione del valore.
Esso è stato pensato, progettato ed utilizzato nelle aziende come un elemento di supporto alla
pianificazione strategica in quanto, in presenza di una strategia complessiva dell’impresa, esso risulta
in grado di evidenziare i costi per attività elementari e suggerire decisioni alternative in termini di
efficienza ed efficacia /Porter, 1985).
4
G. Tattara, G. Corò, M. Volpe, (2006) “Andarsene per continuare a crescere. La delocalizzazione
internazionale come strategia competitiva”, Carocci editore, Roma, 2006
5
Ivi
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costi di produzione più bassi (mando d’opera, fiscalità ecc). Questa è la cosiddetta
fase leggera della delocalizzazione, che caratterizza gran parte delle imprese piccole
nelle regioni del nord-est Italia.
6
In altri casi, si consegnano invece i prodotti
semifiniti al subappaltare il quale ricompra successivamente i prodotti finiti
(assembly subcontracting). Ad esempio la delocalizzazione operata dai gruppi più
grandi, come nel nostro caso la FCA, avviene attraverso l’acquisizione di aziende
all’estero che diventano sussidiarie del gruppo. Sono frequenti anche i casi in cui la
delocalizzazione viene perfezionata attraverso lo start-up
7
o la rilevazione di impianti
produttivi all’estero.
8
Il processo di delocalizzazione delle attività produttive, che sta
caratterizzando sempre di più le economie avanzate negli ultimi anni, ha messo al
centro del dibattito politico-economico recente un dilemma importante che riguarda i
sentimenti contrastanti dell’opinione pubblica e dei policy maker. Da un lato, infatti,
viene vista con favore la maggiore capacità delle imprese di penetrare i mercati
esteri, ma dall’altro preoccupa lo spostamento di attività economiche e l’apertura di
stabilimenti produttivi all’estero. Riguardo al caso italiano, molte persone ritengono
che la delocalizzazione possa avere come conseguenza l’impoverimento
dell’economia nazionale, con perdita di posti di lavoro e valore aggiunto. Secondo
altri, invece, si tratta di un processo virtuoso di rafforzamento delle imprese italiane
che molto spesso rimane l’unico strumento per assicurare la sopravvivenza
dell’impresa.
9
Dato che i processi di internazionalizzazione della produzione nell’industria
automobilistica italiana assumono un’importanza e rilevanza politica oggetto di
numerosi dibattiti, questo lavoro si propone di fornire un quadro generale del
crescente fenomeno della delocalizzazione dell’industria automobilistica italiana, con
6
www.lindro.it, 3 aprile 2013, “Delocalizzazione: frenata negli ultimi tre anni”,
http://www.lindro.it/0-economia/2013-04-03/77091-delocalizzazione-frenata-negli-ultimi-3-anni
7
“Con il termine start up si identificano le neo imprese dove sono in corso alcuni processi
organizzativi. Le start up sono la culla dei processi di base che faranno di un piccola impresa una
grande impresa, come ad esempio lo studio del mercato per lanciare un determinato prodotto, o lo
studio della struttura interna dell’impresa, una sorta di scheletro sul quale si dovrà appoggiare tutta la
struttura futura di una impresa”. www.pianetastartup.com
8
Ad esempio nel caso della FCA, ci sono impianti produttivi in Repubblica Slovacca, Repubblica
Ceca, Polonia, Serbia, Romania, Turchia, Russia, Brasile, Argentina ecc. L’argomento verrà
approfondito nei capitoli successivi.
9
Cfr. www.progettiefinanza.com, “La delocalizzazione come circuito virtuoso di rafforzamento delle
imprese nazionali”
14
un particolare sguardo al caso della joint venture
10
della FCA in Serbia (a
Kragujevac), di grande attualità e posizioni diverse in Italia e nel mondo.
Prima di procedere all’introduzione dell’argomento e al suo sviluppo, è
importante sottolineare che esiste un processo di autoselezione che fa si che le
imprese che decidono di internazionalizzare l’attività produttiva abbiano
caratteristiche sistematicamente diverse rispetto alle imprese non
internazionalizzate.
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La globalizzazione, quindi, riesce a generare vincitori e vinti,
non solo tra i lavoratori, ma anche tra le imprese di uno stesso settore. Studi recenti,
riferiti a un ampio numero di paesi, mostrano che solo una piccola parte delle
imprese nazionali sfrutta i potenziali benefici della crescente integrazione economica
e intraprende forme di internazionalizzazione, come appunto la delocalizzazione o gli
investimenti diretti esteri. La solita distinzione tra i vincitori e i vinti della
globalizzazione, tradizionalmente riferita ai lavoratori, andrebbe perciò estesa anche
alle imprese.
Dagli studi fatti su due campioni di imprese, quelle che delocalizzano e quelle
che non delocalizzano, emerge chiaramente che gli attori puramente domestici sono i
meno produttivi, mentre le imprese che delocalizzano la produzione di beni finali
sono le più produttive.
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Le spiegazioni a queste differenze di produttività sono
principalmente due: la prima si basa sull’esistenza di costi fissi da sostenere per
avviare il processo di delocalizzazione, ad esempio per la costruzione di uno
stabilimento all’estero o per la ricerca di uno partner locale. Questi costi sono
particolarmente alti e possono essere sostenuti prevalentemente dalle imprese più
produttive. Inoltre, i costi fissi tendono ad essere maggiori nel caso della
delocalizzazione orizzontale rispetto a quelli della delocalizzazione verticale, poiché
comprendono specifiche attività di marketing e pubblicità dei beni finali prodotti.
10
Una joint- venture è una forma di collaborazione tra due o più partner che prevede la costituzione di
una società (equity joint venture) partecipata dai partners o la semplice definizione di accordi
contrattuali (non equity joint venture). Nella maggior parte dei casi, una joint venture viene
interamente costituita con l’obiettivo di realizzare degli investimenti diretti (ad esempio, in impianti
produttivi o in reti di distribuzione) nel paese estero, come nel caso della FCA in Serbia, dove Fiat ha
acquisito in joint venture con la Serbia l’ex “Zastava” di Kragujevac, definita la Mirafiori serba.
L’argomento verrà approfondito nei capitoli successivi.
11
Cfr. D. Castellani, “L’internazionalizzazione della produzione in Italia: caratteristiche delle
imprese ed effetti sul sistema economico” in “L’industria”, marzo 2007
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Cfr. L. Casaburi, V. Gattai, A. Minerva, “Imprese che vincono la delocalizzazione”,
www.lavoce.info,
http://www.lavoce.info/archives/24915/imprese-che-vincono-con-la-delocalizzazione/