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INTRODUZIONE
Negli ultimi decenni l’avanzamento delle conoscenze e delle competenze nell’ambito
sanitario è stato notevolemente supportato dal continuo progresso scientifico/tecnologico.
Ci sono però alcuni ambiti dove, nonostante il progresso, alcune problematiche
permangono tali, e fra queste spicca il reperimento dell’accesso vascolare in situazioni di
emergenza-urgenza. Ogni anno, negli Stati Uniti, ci sono 5 milioni di pazienti ai quali non
si riesce a reperire un accesso vascolare, ed altri 7 milioni nei quali l’accesso vascolare
risulta molto difficile da reperire. (Vidacare, 2012)
L’accesso vascolare è pane quotidiano della professione infermieristica; il suo reperimento
e la successiva gestione sono parte integrante del processo assitenziale al paziente, e in
situazioni di emergenza diventa una tecnica salvavita.
La tecnologia ci ha portato, come supporto alla riuscita della tecnica, la guida ecografica e
i dispositivi a infrarossi per visualizzare le vene “difficili”, fino ai dispositivi con
indicatore sonoro di reperimento della vena (VEID: vein entry indicator device). (E.N.A.,
2011)
Nonostante ciò il tasso di successo della tecnica non riesce a coprire la varietà di casi che
possono verificarsi in situazioni di emergenza.
Per fortuna però c’è un’altro tipo di dispositivo che ci permette di ottenere accessi
vascolari, e che riesce, principalmente, in tutti quei casi dove il classico accesso
intravenoso fallisce: è l’accesso intraosseo (IO).
La fisiologia vascolare intraossea e la sua conseguente tecnica di reperimento, sono state
scoperte circa 100 anni fa, e i dispositivi che permettono tale tecnica sono ormai diffusi e
conosciuti in quasi tutto il mondo. È proprio da quel “quasi” che ho scelto l’argomento
della mia tesi.
Ho scoperto l’esistenza dell’accesso intraosseo su internet, ne ho tratto immediatamente
l’estrema utilità nel soccorso, e non vedevo l’ora di incontrare nelle pratica clinica una
tecnica del genere, durante il mio tirocinio formativo. Peccato che non sia mai riuscito a
vederla, perchè nell’Ospedale dove studio non viene utlizzata, e piano piano ho scoperto
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non essere conosciuta dalla maggior parte del personale, e così in molti altri ospedali e
realtà italiane.
Ebbene si, l’accesso intraosseo è largamente riconosciuto e approvato come efficace,
sicuro, veloce, nella maggior parte del mondo, eppure la diffusione in Italia è ancora a
macchia di leopardo, così come il riconoscimento di tale tecnica fra quelle di competenza
dell’infermiere.
Con questa tesi ho voluto quindi approfondire le conoscenze in merito della tecnica,
effettuando una revisione di letteratura, ed oltre a trovare ulteriori conferme ho voluto
cercare di fare luce sulla situazione italiana riguardo la sua diffusione e la responsabilità
infermieristica.
Tutto questo per evidenziare una situazione che accade molto più di quanto ci
immaginiamo o sappiamo, e forse c’è anche un motivo per questo, come afferma Larry
Miller, che conosceremo più avanti: “Sicuramente, ci sono migliaia di persone che, ogni
anno, muoiono a causa del mancato reperimento di un accesso venoso. Ma non è certo
questo, ciò che troveremo scritto sul loro certificato di morte”. (Vidacare, 2012)
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METODOLOGIA
Per la stesura di questa tesi è stata effettuata una revisione di letteratura, principalmente su
due database bibliografici di letteratura scientifica biomedica: PunMed e CINAHL
(Cumulative Index to Nursing and Allied Health Literature).
Sono state utilizzate per la ricerca degli articoli di letteratura le seguenti parole chiave:
Introsseous, IO/device, IO/access, Vascular access, IO/comparison, Bone marrow,
IO/nurse, IO/registered nurse, Therapy free interval, IO/Infusion, IO/emergency,
IO/catheter, IO/training, IO/adult, IO/pediatric, IO/Manual, BIG, FAST, EZ-IO, IO/blood,
IO/ needle, IO/ drug administration, IO/recommendations.
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CAPITOLO 1: CONCETTI GENERALI SUL SOCCORSO IN
EMERGENZA
Il reperimento di un accesso vascolare e la somministrazione di farmaci e liquidi per il
supporto della circolazione e delle funzioni vitali, è uno dei punti cardine del soccorso al
paziente critico insieme al supporto alla ventilazione. Queste priorità valgono sia nelle
emergenze extraospedaliere che nelle emergenze intraospedaliere quando il paziente critico
viene trasportato al pronto soccorso dai familiari, o nei casi di un’emergenza all’interno di
un’ unità operativa (U.O.)
Non a caso le prime tre fasi del soccorso, a qualunque tipo di paziente, sono sempre
identificate da tre lettere:
A: Airway
B: Breathing
C: Circulation
Nelle situazioni critiche nella fase C, durante la valutazione del circolo e del
tamponamento delle eventuali foci emorragiche, si procede con il reperimento di un
accesso vascolare.
In queste situazioni è fondamentale il tempo, infatti quello che intercorre dal momento
della lesione/insulto fino all’arrivo in ospedale deve essere il minore possibile. Questa fase
è così importante da meritarsi l’appellativo di: Golden hour. Concetto derivato
probabilmente dalle osservazioni fatte dai francesi durante la I Guerra Mondiale, e poi
portato in auge dal chirurgo R. Adams Cowley che afferma: “Vi è una golden hour tra la
vita e la morte. Se si è stati traumatizzati in modo critico si hanno meno di 60 minuti per
sopravvivere. Forse si potrà non morire in quel momento, l’evento mortale potrebbe
verificarsi da 2-3 giorni fino a 2 settimane più tardi, ma qualcosa è successo nel delicato
equilibrio dell’organismo che ormai è irreparabile”. (Cowley Adams R. Shock trauma
center, 2007). Tuttavia, secondo alcuni, dopo un’attenta revisione di letteratura, non ci
sono riscontri sull’effettiva esistenza e validità di questa “golden hour” nella quale
intervenire per salvare i pazienti critici. (Bledsoe BE., 2002)
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L’importanza nel ridurre il tempo di intervento però viene sottolineata anche in cardiologia
con una frase celebre: “Il tempo è muscolo”, perchè più dura l’ischemia cardiaca e più
cellule cardiache muoiono.
Sulla base di questo c’è stato un cambiamento negli ultimi tempi sul metodo di soccorso
extraospedaliero, dove inizialmente l’obiettivo era arrivare il prima possibile sul luogo
della chiamata e portare nel tempo minore il paziente al pronto soccorso: Scoop and run.
Poi però, sempre sulla base della Golden hour, si è pensato a come ridurre al massimo
questo tempo senza trattamento: Therapy free interval, considerando utile agire sul posto,
iniziando il trattamento necessario il prima possibile, e non solo all’interno di una struttura
ospedaliera: Stay and play. (Menghini A. et al.)
Ad oggi siamo consapevoli che l’avanzamento dei mezzi di trasporto (Ambulanze ed
eliambulanze), la migliore e più specifica formazione del personale e lo sviluppo sempre
maggiore della tecnologia (GPS per localizzare le chiamate di soccorso, telemedicina),
possano portare i pazienti, in tempo minore e in condizioni migliori, al trattamento loro
necessario, o a far giungere il trattamento da loro.
Come abbiamo detto, uno step fondamentale del soccorso è il reperimento di un accesso
vascolare, ed appare evidente come il “therapy free interval” dipenda molto dal tempo di
reperimento che preclude l’inizio del trattamento.
Il dispositivo più comunemente usato per reperire un accesso intravenoso (IV) è il catetere
venoso periferico (CVP). Tecnica sicuramente a basso rischio di complicanze e ben
tollerata dal paziente, ma poco affidabile in situazioni di emergenza dove si rivela spesso
poco efficace e troppo dispendiosa in termini di tempo, a causa dei numerosi tentativi
necessari in molti pazienti, soprattutto quelli classificati come “difficili”: obesi, pediatrici,
anziani, ipovolemici, tossicodipendenti, con patologie croniche, vasculopatie e in
trattamento o trattati con chemioterapici. (Costantino TG. et al., 2005) (Blaivas M. et al., 2006)
(Miles G. et al., 2011) (Nafiu OO. et al., 2010) (Lapostolle F. et al., 2007)
Il tempo medio richiesto per il reperimento è compreso tra 2,5 e 13 minuti, toccando, e talvolta
anche superando, quota 30 min nei pazienti difficili. Il tasso di fallimento va dal 10% al 40%.
(Leidel BA. et al., 2009) Nei pazienti pediatrici il numero di tentativi necessari al reperimento di un
accesso vascolare va da 1 a 10. (Katsogridakis YL. et al., 2008)
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L’uso della guida ecografica per il reperimento di un CVP, rende sicuramente l’accesso più facile e
sicuro, ma è necessaria una formazione specifica per l’operatore e molto dipende dalla
dimestichezza nell’uso della guida, oltre al fatto che in molti casi vi è la necessità di due operatori
per effettuare la tecnica. Secondo alcuni aumenta il tasso di successo al primo tentativo, secondo
altri invece la tecnica non è migliore rispetto alla classica. (Costantino TG. et al., 2005) (Stein J. et
al., 2009) (Aponte H. et al., 2007) (Costantino TG. et al., 2010)
L’alternativa al CVP può essere il catetere venoso centrale (CVC) reperito in vena giugulare
interna, succlavia o femorale. Essendo un catetere centrale, farmaci e fluidi giungono direttamente
nella giunzione atrio-cavale e quindi immediatamente nel circolo sistemico, in più rende possibile il
monitoraggio emodinamico. Di contro è necessario personale esperto per inserirlo, bisogno del
controllo radiografico per confermarne l’inserzione, il dispositivo ha un elevato costo come anche
il tempo di reperimento che non differisce da quello di un CVP, anzi, di norma è superiore. Anche
le complicanze non sono affatto trascurabili: trombosi venosa, lesione di arterie, infezione, PNX.
(Leidel BA. et al., 2009) (Reades R. et al., 2011) (Leidel BA. et al., 2011)
Ma c’è un’altra alternativa, sia al CVP che al CVC, con raccomandazione Level A:
È significativamente più veloce da reperire di un accesso IV e dovrebbe essere subito
considerato quando sappiamo o sospettiamo di trovarci davanti un accesso IV difficile.
Nei pazienti coscienti, il dolore da inserzione è stato valutato come basso.
È l’accesso intraosseo. (ENA, (2011)