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INTRODUZIONE
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La prima esperienza che può essere ricondotta a una struttura simile ad un hospice
moderno risale all'epoca dell'Imperatore Giuliano detto l'Apostata nel V sec. d.C., quando
Fabiola, una matrona della gens Fabia seguace di S. Gerolamo, fondò un hospitium per
viandanti malati e morenti. La medicina palliativa deriva il suo nome dal termine latino
pallium cioè mantello, con particolare riferimento a quello utilizzato nel Medioevo per
avvolgere il corpo dei defunti (Leone, 1996). La vera capostipite fu però la Dottoressa
Cicely Saunders (1918-2005) che nel 1967 fondò il St. Christopher hospice, realizzando così il
desiderio di David Tasma che avendole lasciato una donazione di 500 sterline, prima di
morire aveva chiesto di essere `una finestra nella tua casa´ riferendosi alla possibilità di
costruire un luogo alternativo nel quale avere cura di chi si trova alla fine della vita. Prende
così vita intorno agli anni '60 in Inghilterra l’hospice movement. Dalle esperienze di
accompagnamento ai morenti, scaturisce la filosofia del `vivere sino alla morte´,
interpretando il cammino finale come un’esperienza preziosa di realizzazione personale
(Saunders, 2003). L’incontro con la drammaticità di queste esperienze ha plasmato una
vera e propria pratica di accoglienza, accompagnamento e cura che grazie alla straordinaria
Dame Cecily Saunders si è diffusa negli Stati Uniti e in tutta Europa. Il primo hospice in Italia
nasce nel 1987 a Brescia, presso la Casa di cura Domus Salutis, mentre la storia delle Cure
Palliative si sviluppa intorno al 1970 all’Istituto Nazionale Tumori di Milano con una serie
di studi sul dolore. Nel 1975 il prof. Ventafridda conobbe Cecily Saunders al Saint
Christopher Hospice , dalla quale apprese quale fosse l’approccio ideale da tenere con i malati
terminali e tornato in Italia nel 1976 istituì la Fondazione Floriani la cui mission é quella di
migliorare la qualità della vita dei pazienti terminali. Nasce così il `modello Floriani´
(Andreoni, 2000), che ha come base operativa l’ospedale ma con l’obiettivo di espandersi
sul territorio mediante l’attività di équipe domiciliari, creando un’integrazione tra ente
pubblico e privato. Nel 1981 l’Istituto Nazionale Tumori, alleatosi con la Fondazione
Floriani promuove la prima Unità di Assistenza domiciliare composta da cinque infermieri
e quattro medici. In questa nuova realtà la famiglia del malato terminale è l’elemento
cardine di tutti i programmi di medicina palliativa domiciliare. Come indicato dal legislatore
nel DPCM 20 gennaio 2000 `Atto di indirizzo e coordinamento recante requisiti strutturali,
tecnologici e organizzativi minimi per i centri residenziali di cure palliative´ relativa alla
realizzazione ed all’accreditamento dei centri residenziali per le cure palliative di pazienti
terminali, all’art.2 comma 1 `Si definiscono centri residenziali di cure palliative le strutture
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Hospice in Italia - http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_716_allegato.pdf
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(hospice), facenti parte della rete di assistenza ai pazienti terminali, per l'assistenza in ricovero
temporaneo di pazienti affetti da malattie progressive ed in fase avanzata, a rapida
evoluzione e a prognosi infausta, per i quali ogni terapia finalizzata alla guarigione o alla
stabilizzazione della patologia non è possibile o appropriata e, prioritariamente, per i
pazienti affetti da patologia neoplastica terminale che necessitano di assistenza palliativa e
di supporto. L’hospice nella sua istituzione `deve rappresentare´ uno dei livelli di assistenza
garantito dalla rete regionale per le cure palliative delle persone nella fase terminale della
vita. Obiettivo principale è accompagnare la persona e la sua famiglia in questa fase, nel
pieno rispetto della dignità del paziente terminale, mediante il migliore controllo del dolore
e dei sintomi fisici e psichici rilevanti per la qualità della vita residua. È una struttura
residenziale con le caratteristiche di `Casa´ ed è un’offerta socio-sanitaria con limitata
tecnologia, ma con elevata intensità assistenziale (low tech, high touch). A questo proposito tra
le cure infermieristiche complementari che vengono effettuate in alcuni hospice,troviamo il
Reiki che trae le sue radici nel buddismo tibetano, è un antico e semplice metodo di cura
tramite il tocco delle mani. Si ispira ad un modello naturale e olistico di cura, nel quale
l’uomo è visto come unità inscindibile di corpo, mente, spirito e la malattia come
epifenomeno di una condotta di vita (Vitale at al. 2005). Il Reiki interviene sugli elementi
psicoenergetici della personalità e promuove la reintegrazione e il riallineamento del
complesso corpo-mente-spirito. Per questo viene classificato dal National Center for
Complementary and Alternative Medicine tra le terapie della biofield medicine o terapie del
campo. L’assistenza in hospice richiede un intenso lavoro di équipe che vede coinvolti
medici, infermieri, operatori socio-sanitari, assistenti sociali, musicoterapisti, psicologi,
fisioterapisti, assistenti spirituali e volontari. Le cure palliative devono configurarsi come un
approccio olistico alla persona per rispondere adeguatamente alle variegate necessità del
malato e dei suoi familiari, prevedendo un approccio integrato tra discipline diverse. La
World Health Organization (WHO) definisce la medicina palliativa come `un approccio
che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie che si trovano ad affrontare
le problematiche associate a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della
sofferenza, per mezzo di un’identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore
e delle altre problematiche di natura fisica, psicosociale e spirituale´ (WHO, 2002).
Attualmente l’ottica dell’ospedale è quasi del tutto rivolta verso il `guarire´ piuttosto che il
`curare´. L’origine di quest’atteggiamento va ricercata nella formazione della classe medico-
sanitaria orientata solo all’ottenimento della guarigione. La medicina palliativa invece si
rivolge ai pazienti ormai inguaribili, ma considerati tali fino alla fine. La cura costituisce
`l’ultimo stadio della medicina, altrettanto importante quanto la terapia per guarire, di cui
spesso utilizza i medesimi strumenti, ma con obiettivi primari diversi che sono la qualità di
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vita e la dignità di morte dei malati´ (Di Mola, 1994). Occorre a tale proposito evidenziare
due distinzioni fondamentali: la prima tra inguaribilità ed incurabilità, la seconda tra, `to
cure´ (curare) e `to care´(assistere, prendersi cura). Prendersi cura del malato terminale
significa affrontare i diversi aspetti della sofferenza umana attraverso una risposta olistica al
suo dolore totale (Saunders, 2003). La buona riuscita di un intervento di cure è ampiamente
condizionata dalla presenza del contesto familiare, dalle dinamiche psicologiche e
relazionali esistenti al suo interno, dalle trasformazioni dovute alla situazione contingente,
dai bisogni e dalle risorse del caregiver e di tutti coloro che sono coinvolti nell’assistenza del
malato (Mosconi, 2001). Con il termine caregiver s’intende un soggetto che si prende cura di
un altro individuo che non riesce più ad occuparsi di sé stesso in modo autonomo e si
preoccupa di rispondere ai suoi bisogni fisici, psichici e sociali, quando è rappresentato da
un familiare si parla di informal caregiver. Pertanto, il caregiver informale è una persona
inesperta di assistenza che, da un lato deve riuscire improvvisamente a occuparsi di un
proprio congiunto malato, garantendo una cura continua e costante e dall’altro, deve fare i
conti con le proprie paure, il proprio dolore e deve affrontare tutte le difficoltà legate
all’attività di caregiving, quali cambiamenti di ruolo, perdite economiche, riduzione del tempo
libero, aumento dello stress quotidiano (Corli et al. 2005). Nel nostro Paese, così come a
livello internazionale, l’assistenza domiciliare ai malati di cancro è in gran parte a carico
degli informal caregiver. Uno studio condotto sulla popolazione italiana (Giorgi-Rossi et al.
2007) rileva che su un campione di 2000 casi di persone decedute per cancro, il 92% è stato
assistito da un informal caregiver (prevalentemente donne) negli ultimi mesi di malattia. Nello
specifico tra i 1.271 caregiver che hanno partecipato all’indagine, il 46% è un figlio, il 31% il
coniuge, il 20% un altro parente o un amico e solo nel 3% dei casi una figura sanitaria
(Giorgi-Rossi et al. 2007), evidenziando che `il cancro non è solo un problema individuale,
ma investe l’intero nucleo familiare sconvolgendone le relazioni, le abitudini quotidiane, i
rapporti sociali´ (Kim, 2008). Diversi studi hanno dimostrato che i familiari di pazienti
oncologici sono soggetti a disturbi psicologici: ansia, depressione, disturbi psicosomatici,
stress fisico (Corli et al. 2005). Una recente review (Kim, 2008), ha messo in luce come lo
stress legato al caregiving abbia ripercussioni sulla salute fisica; in fase di remissione infatti
sembra essere la sfera fisica quella più colpita: circa la metà dei familiar caregiver esaminati a 3
anni e mezzo dalla diagnosi riportano disturbi cardiaci, ipertensione, artrite. Nel caso
specifico di patologie neoplastiche, il caregiver burden (carico delle cure) è stato definito
`un’esperienza soggettiva percepita come stressante dal caregiver che si prende cura della
persona affetta da cancro´ (Scherbring et al. 2002). Gli studi sullo stress del caregiving come
si è accennato in precedenza sono molti e il loro numero sta crescendo di anno in anno. Il
database del Center for Gerontology and Health Care Research, Brown Medical School, ne
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elenca ben 35 da cui prendono forma le relative scale di valutazione (Lovaglio et al. 2003).
Secondo la definizione della International Association for the Study of Pain (IASP), e secondo la
World Health Organization, `il dolore è un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole
associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno´(WHO,
1986). Altro è definire il dolore dell’anima, la sofferenza intesa come stato di afflizione,
angoscia ma anche strazio, supplizio o pena. Nel malato terminale la dualità dei concetti:
creatività e distruzione, nascita e morte, odio e amore , convivono e non sempre il
perdurare nel tempo della sofferenza riesce a `temperare´ questi stati emozionali. Il malato
terminale vive una condizione di sofferenza totale: fisica, spirituale, sociale, culturale,
psicologica, poiché è stata fatta una diagnosi di patologia cronica ad evoluzione incurabile
o se preferiamo infausta, che lo porterà inevitabilmente a exitus (decesso). In questo caso si
parla di dolore totale (Saunders, 2003). Nella malattia neoplastica il dolore è il sintomo più
grave. Il suo mancato controllo rappresenta un problema di ordine sociale per le ovvie
ripercussioni sulla qualità della vita dei pazienti e dei loro familiari. Si stima che il dolore del
cancro abbia un’incidenza del 60-80% e spesso è dovuto a più cause. A sua volta nel 70-
80% dei casi il dolore è legato a un’infiltrazione dei tessuti o delle strutture nervose da parte
del tumore (Mercadante, 2009). Il dolore da cancro viene abitualmente distinto nelle tre
categorie generali delle forme somatiche, viscerali e neuropatiche, anche se la distinzione
appare spesso accademica in quanto vi può essere una sovrapposizione di eventi. Il dolore
da cancro inizialmente è un segnale che porta alla diagnosi di tumore e comunemente tende
a ridursi per l’eliminazione della causa ma in molte situazioni, durante la malattia, la causa
persiste o si ripresenta. Il dolore perde così la sua funzione di avvertimento e assume lo
stato di malattia cronica (Mercadante, 2009). Di particolare interesse, fra le teorie che
considerano fondativo il concetto di bisogno, è l’elaborazione di Helen Yura e Mary B.
Walsh, che include nella propria tassonomia la definizione di `bisogno di libertà dal dolore´
(Yura & Walsh, 1992).La North American Nursing Diagnosis Association (NANDA)
traduce così il dolore in una diagnosi infermieristica. Il Center for Nursing Classification
dell’University of Iowa, responsabile dello sviluppo della Nursing Interventions
Classification (NIC), metodo di ricerca induttiva sulla pratica infermieristica statunitense,
classifica tra le prestazioni comunemente assicurate dall’infermiere il pain management
(approccio interdisciplinare al dolore). Lo stesso Codice Deontologico dell’Infermiere del
2009, all’art 34, nella parte dedicata ai doveri più elevati dell’assistenza infermieristica,
richiama i professionisti ad un intervento diretto sul dolore. `L'infermiere si attiva per
prevenire e contrastare il dolore e alleviare la sofferenza. Si adopera affinché l’assistito
riceva tutti i trattamenti necessari´. Al dolore si deve dunque rispondere mediante
l’integrazione di una pluralità di trattamenti originati dal contributo specifico di una