INTRODUZIONE
Prendiamo in considerazione la definizione di “società del controllo” applicata
alle contraddizioni che la cosiddetta “governance democratica” attraversa nel
tempo della crisi. L'ipotesi di partenza consiste nel fatto che lo Stato, e il
potere politico statuale in generale, per come si è formato in epoca moderna,
dentro i confini che lo definiscono, stia esaurendo la capacità di esercitare
alcune delle sue funzioni fondamentali. Un processo storico, non lineare ma di
cui è possibile leggere la tendenza, ha minato progressivamente il modello
politico costituito attorno allo stato sociale, quindi alla centralità del ruolo
dello Stato nella regolazione dei rapporti economici, che in qualche modo
aveva assunto un carattere dominante in occidente a partire dal New Deal
americano come risposta alla crisi del '29, e ai presunti difetti del sistema
economico capitalistico nella sua matrice ultra-liberale.
Le risposte governative alle crisi degli anni '70 si sono coagulate attorno a una
ripresa dei capisaldi della dottrina liberale che si è tradotta in una serie di
modelli (da Reagan negli Usa alla Thatcher nel Regno Unito, passando per la
dittatura di Pinochet in Cile) legislativi improntati alla dottrina del
neoliberismo: deregulation dei mercati, privatizzazione dei servizi pubblici,
liberalizzazione dei settori non strategici, abbattimento delle dogane e
promozione della libera circolazione delle merci .
Una serie di processi storici (la caduta del muro di Berlino, l'ascesa economica
di nuove potenze imperiali o ex coloniali come India, Cina e Brasile) ha
sancito il carattere dominante di questa strategia ben oltre l'occidente. Il suo
campo di dispiegamento è divenuto globale, da qui ciò che chiamiamo
globalizzazione.
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L'Europa stessa, che parzialmente aveva ricostruito una sua identità storica e
politica proprio sull'affermazione del welfare state e della pianificazione
economica, sostenuta dalle socialdemocrazie continentali, nel quadro delle
democrazie liberali e di uno sviluppo economico capitalistico, come soluzione
alternativa a quella rappresentata dal blocco sovietico, e in un'ottica di
compatibilità con quello occidentale, è stata prepotentemente investita da tale
processo dalla crisi del '73 in poi.
Una ristrutturazione massiccia del mercato del lavoro, una ridefinizione del
ruolo economico dello Stato-impresa, la finanziarizzazione dei grandi capitali
pubblici e privati, hanno trasformato in pochi decenni i rapporti sociali
derivanti dall'organizzazione fordista della produzione e keynesista dello stato
sociale.
La crisi che stiamo attraversando rappresenta la composizione delle ricadute di
questo processo, ed è impossibile leggerla fuori da un approccio genealogico
generale.
Ovviamente la società non è indifferente a tali trasformazioni, che richiedono
nuove risposte politiche di fronte all'emersione di nuovi bisogni e di nuovi
problemi sociali.
Il nucleo della ricerca consiste appunto nell'indagare la genesi e lo sviluppo di
nuove ricette di intervento sociale da parte dello stato e dei suoi apparati,
nonché dei nuovi organismi della governance globale sorti appunto con la
globalizzazione, affatto diverse da quelle che aveva conosciuto l'ascesi dello
stato sociale. Chiamiamo provvisoriamente e impropriamente “modello
sicuritario” un particolare indirizzo assunto da quest'insieme di ricette,
sperimentate per la prima volta su larga scala ancora negli Stati Uniti, e
tradotte nelle legislazioni dei paesi europei nello scorso ventennio.
Sicuramente l'11 settembre ha avuto un ruolo fondamentale nell'assicurare il
successo del modello sicuritario come strategia globale di governance,
ritagliandole un carattere assoluto nel palcoscenico della lotta al terrorismo e
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della guerra preventiva, slegandola in tal modo dalle condizioni sociali,
economiche, politiche, culturali che a livelli diversi ne costituiscono premesse,
sviluppi, nessi e prospettive.
Il carcere diviene il luogo simbolico e materiale attorno a cui si modella tale
strategia (o più propriamente tale insieme di strategie, se di governance si
tratta) e si ridefinisce una centralità del potere politico come sovranità, ossia
monopolio della decisionalità attorno all'uso legale della forza, e al tempo
stesso si va costituendo una rete di poteri informali che la sovradetermina e la
produce.
L'emergenza è uno dei dispositivi che ha veicolato tali trasformazioni.
Dopo gli anni d'oro della finanza e dopo un decennio di guerre globali e
ristrutturazioni, con l'acuirsi della crisi economica, il carattere eminentemente
politico di tali trasformazioni assume in maniera evidente significati nuovi che
interrogano l'esistenza stessa degli stati, e gli statuti dell'esercizio del potere
politico (costituzione formale e materiale), di fronte all'evidenza, appunto, che
gli istituti che avevano diretto le transizioni economiche a livello
sovranazionale, determinando di fatto le trasformazioni politiche e le loro
ricadute, assumono oggi esplicitamente un ruolo di direzione politica e di
dominio spesso formalmente illegale, ma materialmente indiscutibile.
Una nuova forza costituente che s'impone sul diritto e sfonda i limiti giuridici
della forma stato per rifondare in modo permanente sul piano materiale le
condizioni dello sfruttamento economico, della proprietà privata e della merce
come statuto regolativo universale dei rapporti economici rispetto all'ambiente
naturale, ai rapporti sociali, alla produzione materiale, si dà l'obbiettivo di
contenere e gestire i conflitti che essa stessa inevitabilmente produce.
Leggere oggi la tendenza di tali trasformazioni è vitale per comprenderne gli
sviluppi che riguardano il futuro degli assetti politici costituzionali
dell'Europa.
Ecco perchè l'ipotesi muove dalla possibilità, a partire dalla ricostruzione della
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genesi e dello sviluppo storico del modello sicuritario come strategia di
controllo e gestione delle contraddizioni sociali emergenti in seno alla società
come prodotto delle trasformazioni economiche intervenute sia sui processi
produttivi sia su quelli redistributivi, quindi come controllo e gestione delle
popolazioni intervenendo proprio sulla povertà, di risalire a indicazioni
riguardanti la fondazione di nuovi statuti del potere politico a livello globale
che siano all'altezza di salvaguardare e riprodurre rapporti di dominio e di
sfruttamento, o di istituirne di nuovi, nello svolgimento sistemico della crisi.
La crisi che stiamo vivendo rende sempre più evidenti le contraddizioni che il
modello di gestione e controllo delle popolazioni, che si è affermato insieme
col modello neoliberista dei rapporti sociali, economici e politici, si porta con
sé.
Mentre assistiamo al progressivo ritrarsi della sovranità nazionale degli stati in
rapporto all'economia e alla gestione dei rapporti sociali, con la distruzione del
welfare state derivante dal keynesismo, e il suo sacrificio al dio uno e trino di
mercati-crescita-competitività, registriamo invece un ritorno del mostro
Leviatanico in chiave autoritaria, in tutto ciò che concerne i dispositivi di
controllo, gestione, normalizzazione, sorveglianza, punizione.
Viviamo un tempo dominato dal mito della sicurezza, vincolato alle sue
rappresentazioni, con cui non solo il quadro politico, ma l'insieme degli
apparati produttivi, le popolazioni, la moltitudine dei soggetti sociali e
l'insieme dei suoi desideri e delle sue rappresentazioni, devono fare i conti.
Con l'acuirsi delle contraddizioni sociali il mantra della sicurezza diviene la
retorica attraverso la quale si sacrificano spazi di libertà e si riporta sotto la
giurisdizione poliziesca qualsiasi fenomeno sociale non governabile secondo
l'astratta giustizia dei rapporti economici fondati sulla proprietà privata.
Il dispositivo dell'emergenza, e il suo funzionamento, ha cambiato
radicalmente il volto delle nostre società, consegnando al modello penale il
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compito di salvaguardare i rapporti di dominio costituiti, gli unici che la crisi
sembra non dover mettere in discussione.
Tale dispositivo ha contagiato con la sua retorica il senso comune, attraverso il
ruolo servile di media mainstream, politici, e apparati polizieschi e giudiziari,
ha innervato i linguaggi di culture politiche anche distanti, da destra a sinistra.
È un fatto culturale, ma soprattutto politico, che oggi il consenso per
governare passi dall'esibizione del feticcio della sicurezza.
In Italia, così come in molti altri paesi europei, il modello penale partorito
negli Stati Uniti si è tradotto soprattutto in legislazioni di emergenza per ciò
che riguarda la gestione dei flussi migratori, tuttavia l'emergenza, e la
rispettiva sospensione dei diritti, è stata applicata sistematicamente anche nella
gestione militare del ciclo dei rifiuti (es. Campania), e dei disastri naturali (es.
Abruzzo), sugli stadi, o nella proliferazione di ordinanze e regolamenti che
centinaia di amministratori locali emettono ogni anno, tanto da meritarsi
l'appellativo di sindaci sceriffi!
Tali esempi non sono altro che modelli sperimentali di un controllo sociale che
trasferisce la struttura carceraria all'organizzazione urbanistica delle città, al
disciplinamento del lavoro, all'estensione del controllo sulle forme di vita e
sulla percezione dei bisogni, producendo una vera e propria industria
burocratica, edile e tecnologica del controllo.
Con l'acuirsi della crisi e dei contrasti sociali, la spirale emergenza-
penalizzazione-controllo-repressione diviene una scappatoia per governare
sempre più vasti segmenti sociali, pezzi di popolazione sempre più emarginati
e meno assorbibili nel sistema di welfare assistenzialista basato sul lavoro e la
famiglia, anch'esso messo in crisi dalle politiche di austerity e sostanzialmente
in dismissione, e quindi potenzialmente ribelli.
Lo abbiamo visto di recente in Italia, dopo le manifestazioni che hanno
incendiato Roma e attraversato centinaia di città in tutto il mondo il 15 ottobre
2011, con gli spaventosi rigurgiti di terrorismo mediatico sulle violenze di
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piazza, seguiti puntualmente dalla rievocazione di provvedimenti speciali
come la legge Reale, che decenni or sono ha prodotto centinaia di vittime e si
è portata dietro una scia di decine di migliaia di detenuti, fuggitivi, suicidi, ed
emarginati: è esattamente su questo rimosso storico-culturale e sui tabù che si
porta dietro, che si gettano le basi concrete della retorica sicuritaria, che di per
sé di vero ha ben poco, e molto invece di ideologico e strumentale.
Su questo rimosso è possibile provare a intervenire, utilizzando il punto di
vista di chi al “grande fratello” orwelliano delle nuove strategie di controllo
sociale, e alla retorica della tolleranza zero, cerca di opporre strategie di
resistenza e di tutela degli spazi di autonomia e libertà, di movimento e di
conflitto, provando ad andare a fondo, a non affrontare in maniera isolata la
questione del carcere e della disumanità che si porta dentro, come fosse
sganciata dai rapporti sociali che sperimentiamo ogni giorno, a operare un
disvelamento, a darci come orizzonte la conoscenza e la socializzazione dei
rapporti sapere-potere, degli ordini di discorso come li chiamava Foucault, dei
dispositivi che salvaguardano e riproducono i rapporti di dominio e ne fanno
tecnica di governo.
Bisogna farlo anche attraverso l'esperienza concreta e le sue narrazioni,
unendo inchiesta sociale e ricerca, racconti e riflessioni. Con la prospettiva che
tali percorsi possano moltiplicarsi e rappresentare una risorsa e uno strumento
di intervento sociale e politico nella nostra città e altrove.
L'indagine muove attorno alle tecniche e ai saperi che vengono prodotti e
riprodotti a partire dal sistema penale per ricadere sull'intera società.
Prendendo le mosse dalle ricerche effettuate a partire da Foucault riguardo alla
genesi dei poteri disciplinari nelle società moderne, e dai campi di ricerca che
quest'approccio ha aperto nel secolo scorso in ogni campo del sapere, si tratta
di andare a testare quest'approccio sulla qualità dell'ipotesi descritta in
precedenza, cioè all'emersione di nuovi statuti del potere politico a prima vista
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