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Introduzione
Osservando la follia in ambito artistico e letterario, si viene trascinati in una
dimensione dove le infinte sfumature della mente umana, paiono esaltare una
diversità che profuma di genio. Penso ai grandi nomi dell’Ottocento e del
Novecento, che hanno condotto esistenze dissennate, e a quello che è stato forse
il risultato anche della loro malattia. Considerati da un punto di vista clinico,
Baudelaire, Soutine, Munch, Bacon, non avevano certo dei disturbi psichici di
poco conto, Virginia Wolf e Vincent Van Gogh morirono togliendosi la vita dopo
che l’instabilità psichica li aveva accompagnati per anni, tra crisi depressive ed
esaurimenti nervosi. Edgar Allan Poe morì, come scrissero i giornali dell’epoca,
per una “congestione al cervello”, dopo che qualche giorno prima era stato trovato
a vagare per le strade di Baltimora, in preda al delirio. A casa nostra abbiamo
conosciuto l’esperienza di Dino Campana, poeta toscano, al quale già a quindici
anni furono diagnosticati i primi disturbi nervosi. Proprio la storia di quest’uomo, a
mio parere, suscita alcune riflessioni.
Egli ebbe una vita quasi normale sino a che concluse gli studi al liceo, entrò
addirittura nella scuola di ufficiali di complemento e si iscrisse all’Università di
Bologna prima e poi di Firenze. I problemi mentali però erano ormai acuti, ed egli
soleva dare sfogo al suo male, allontanandosi dal paese natio per condurre una
vita raminga. Le autorità pubbliche interpretarono da subito questi segnali come
indici di pazzia, e ad ogni fuga di Campana in paesi stranieri, seguiva il recupero
dello stesso da parte delle forze dell’ordine e il ricovero in manicomio giudiziario.
Qui notarono, che il poeta presentava dei tratti somatici “germanici”, e questi,
insieme all’impeto che manifestava discorrendo di poesia e filosofia, costituivano
un ulteriore indice di follia. Dino Campana pubblicò, a sue spese, dopo che il
primo e unico manoscritto da lui consegnato alla redazione della rivista fiorentina
“Lacerba” venne smarrito, la sua prima opera, I ‘Canti Orifici’. Questa raccolta di
componimenti in prosa, lo consacrò tra i grandi poeti italiani del Novecento, ma
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non gli impedì di condurre un’esistenza alternata tra momenti di libertà e ricoveri
in manicomio giudiziario, sino alla fine dei suoi giorni.
Dino Campana rappresenta il folle, l’uomo che prima ancora di dover essere
compreso, dev’essere fermato, in quanto la sua malattia potrebbe renderlo
pericoloso per la società. Dino Campana però è anche un uomo che ha fatto del
viaggio, della fuga, la sua ragione di vita, che ha composto un’opera letteraria di
grande valore, stimato dai grandi talenti a lui contemporanei e postumi. Egli è un
poeta. Cosa si cela nell’animo di un uomo, definito dalla sua stessa madre
“l’anticristo”, che ha dovuto combattere per tutta la vita con una forma acuta di
schizofrenia, ma che dentro di se coltivava un talento che lo ha spinto a comporre
opere letterarie struggenti?
In questa tesi di laurea, tuttavia, non si analizza il tema della follia in senso
letterario, ma si rimane piuttosto vincolati all’aspetto giuridico della questione. I
concetti di imputabilità, colpevolezza, pericolosità sociale, appartengono ad un
linguaggio ma forse sarebbe meglio dire a un mondo, quello del diritto, che forse
non può concedersi il lusso di studiare l’appassionante storia di Campana e
stupirsi per come la pazzia possa coesistere con la genialità, un tema che a suo
tempo affascinò Cesare Lombroso.
Il diritto deve agire, deve porre regole per la sociale convivenza, e per farlo deve
inventarsi delle figure giuridiche alle quali poter ricondurre gli aspetti reali così da
classificarli e individuare la disciplina da applicarsi caso per caso. Queste figure
giuridiche, e i problemi da esse sollevati, saranno studiati nel corso dell’analisi che
seguirà.
Questo percorso, dopo una breve digressione storica, ai tempi in cui parlare di
follia significava chiamare in causa entità soprannaturali, che a seconda dell’epoca
in questione potevano appartenere al divino oppure al maligno, condurrà all’analisi
delle correnti filosofiche, che per secoli si sono interrogate sul problema del libero
arbitrio, e sulla possibilità per l’uomo, di scegliere se stare dalla parte dei ‘normali’
oppure il suo destino “da pazzo” fosse già scritto.
In questo panorama, il ruolo assunto nell’Ottocento da Cesare Lombroso, fu
peculiare. La sua produzione scientifica, rappresentò un momento topico per la
scienza criminale, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Egli sfruttò la sua
professione di medico per eseguire centinaia di autopsie su corpi di criminali di
vario genere, per giungere all’individuazione degli elementi morfologici del
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delinquente nato. Le sue idee diedero vita ad una nuova disciplina di studio,
l’Antropologia Criminale, di cui egli è considerato il padre.
L’analisi proseguirà studiando la considerazione che i vari codici penali,
susseguitisi nel nostro paese, dal periodo preunitario ai giorni nostri, hanno avuto
del vizio di mente, come veniva accertata la malattia mentale, e il trattamento
riservato ai criminali folli da vari legislatori.
Addentrandosi nella disciplina del Codice Rocco, particolare rilievo sarà dato al
giudizio di imputabilità e alle problematiche che emergono nell’individuazione della
malattia mentale. Ci si occuperà di come questa patologia si sia, nei secoli
sviluppata, e come sia mutata la concezione di essa dal punto di vista culturale,
ma soprattutto giudiziario.
Un posto di primaria rilevanza in questa esposizione, verrà occupato dai disturbi
della personalità, una sorta di punto di crocevia tra la patologia e le anomalie del
carattere. Da sempre esclusi dal computo dei fattori che diminuiscono la
responsabilità del criminale folle, nel 2005 vengono invece, grazie ad una storica
sentenza della Corte di Cassazione, inseriti tra quei fattori da considerare nel
giudizio di imputabilità, per impedire l’addebito del reato al suo autore, qualora
costui non fosse capace di intendere e di volere a causa del disturbo della
personalità.
Poi la trattazione proseguirà, individuando quelli che sono gli aspetti critici del
rapporto inscindibile tra psichiatria e diritto, unione necessaria affinché il giudice
possa stabilire se, il vizio di mente che il Codice penale gli impone di accertare,
abbia effettivamente impedito al reo, di rendersi conto dell’azione che stava per
compiere, e di volerla liberamente. Il giudice, carente di cognizioni scientifiche,
deve ricorrere al perito, allo scopo di acquisire gli elementi necessari per valutare
se l’imputato fosse in qualche modo disturbato mentalmente al punto di essere
scemato nelle sue capacità intellettive e volitive. Tale ‘aiuto’ fornito dall’esperto al
giudice, va sotto il nome di perizia. La perizia, si caratterizza per essere una
risposta scientifica, ad una domanda posta in maniera giuridica, e per questa sua
natura, lascia dietro di se una serie di polemiche e dubbi sulla sua effettiva
attendibilità.
Un significativo elemento di novità da questo punto di vista, consiste nell’ingresso
delle neuroscienze nel processo penale, proprio attraverso lo strumento della
perizia. Si tratta di quella disciplina che studia il funzionamento del cervello, e che
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oggi dispone di strumenti così all’avanguardia da poter indagare i circuiti neurali
complessi della percezione, della memoria e del linguaggio, al fine di individuare,
quali siano i comportamenti umani già scritti nel cervello di chi li pone in essere. Ci
si chiede quali saranno le conseguenze di una simile innovazione nel giudizio di
imputabilità, se si limiteranno a conferire alla perizia maggior valore scientifico, o
se si spingeranno oltre al punto di mettere in discussione il libero arbitrio
dell’uomo.
Nell’ultima parte di questo scritto, verrà ripercorsa la storia del manicomio
criminale, dal momento in cui venne istituito, fino ad oggi. Queste strutture e la
legislazione che le ha sorrette, si sono contraddistinte, negli ultimi due secoli, per
aver ben saputo valorizzare il momento custodialistico, senza però riuscire a
coniugare l’esigenza di protezione sociale con la finalità terapeutica. Il trattamento,
contrario alla dignità umana oltre che a qualsiasi finalità curativa, al quale sono
stati e sono sottoposti i criminali malati di mente detenuti negli ospedali psichiatrici
giudiziari, ha indotto il Parlamento a disporne la chiusura, prevista per il 31 marzo
del 2013.
Il problema del trattamento del malato di mente, sia in fase processuale che
durante l’esecuzione della pena, concede lo spunto per una riflessione: per secoli,
la convinzione del mondo giuridico, e indirettamente della società, è stata quella di
dover reprimere, di dover proteggere e proteggersi, da un qualcosa che non si
comprende. Oggi come allora, la follia, il disturbo mentale, l’animo umano, la
coscienza, rappresentano qualcosa che non si fa conoscere con sicurezza. La
follia non ha un volto, ha mille volti, e per questo fa paura. La legge, dal canto suo,
ha il dovere di garantire la sicurezza e l’ordine pubblico, ad ogni costo.
Respingere ogni incompreso, annientarlo, per molto tempo, ha significato aver
vinto tante piccole battaglie contro la pazzia.
Quante persone di incredibile valore, la cui stranezza è stata travisata da una
società impaurita, sono marcite all’interno di manicomi, non ci è dato saperlo.
Oggi, forse le cose stanno cambiando. Forse il diritto non ha comunque il dovere
di chiedersi quanti Dino Campana ha condannato a morte all’interno di istituti che
avrebbero dovuto invece provare a restituirgli la libertà dalla malattia, ma la
speranza quantomeno, è che il valore della dignità umana possa trovare pace.
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CAPITOLO PRIMO
I SECOLI DELLA FOLLIA
1. Le basi storiche e filosofiche sulle quali si fonda l’attuale
nozione di ‘infermità mentale’
La Follia rappresenta uno dei temi da secoli al centro di un animato dibattito
culturale su scala globale.
E’ stata ed è protagonista di numerosi scritti letterari, ma si è imposta come
elemento determinante anche in materia medica e giuridica, a partire dal XVII
secolo.
Questo è il periodo in cui, nel contesto europeo, vengono destinate le prime
strutture all’internamento di soggetti
affetti da malattie di qualsivoglia natura, poco
o per nulla conosciute, che si manifestavano in maniera tale da renderli un
pericolo per la società.
Al fine di individuare quali sono le implicazione giuridiche, in ipotesi delittuose,
della malattia mentale, è utile iniziare con una panoramica del percorso che ha
portato a quella che è la considerazione attuale dei soggetti affetti da tali infermità,
e al loro trattamento. Per fare ciò, è utile procedere con particolare attenzione al
mondo filosofico e letterario, che vanta in materia un’ampia produzione.
E’ fondamentale iniziare analizzando in che modo la società considerava nel
passato le persone alienate o mentalmente insane, e a quale sorte costoro
andavano incontro.
Già per l’antica civiltà egizia vi era un legame molto stretto tra la follia e la sfera
sacra, tale per cui questi queste malattie mentali erano considerate
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manifestazione di specifiche divinità e la cura di coloro i quali ne erano affetti,
veniva affidata al sacerdote che ricopriva anche il ruolo di medico.
Durante il periodo greco e romano permane nell’opinione popolare l’idea che
queste ‘instabilità’ fossero espressione di volontà di divinità, si inizia però a
considerare l’ipotesi che talvolta queste divinità siano malvagie o persecutorie.
A determinare queste convinzioni furono probabilmente i comportamenti che
caratterizzavano la pazzia, come ad esempio girovagare senza una meta,
pronunciare frasi senza significato, e altri atteggiamenti irrazionali e talvolta
violenti. Questi atteggiamenti però, venivano spesso considerati anche come
segni di rottura con il mondo ordinario e di elevazione a esperienze mistiche,
tant’è che il folle era circondato da un’aurea di sacralità e mistero, e proprio per
questo rispettato.
Con il trascorrere dei secoli il malato va progressivamente perdendo la sua
dignità, già durante l’ultimo periodo dell’impero romano venivano banditi e
perseguitati, perché considerati pericolosi e non in grado di curare i propri affari,
sia pubblici che privati.
Durante il Medioevo invece, complice l’influsso del Cristianesimo, la demenza
viene definitivamente considerata simbolo del Maligno. I soggetti che tenevano
condotte diverse rispetto a ciò che la società aveva stabilito fosse ‘normale’ erano
considerati ‘corpi corrotti’, e in quanto tali bisognosi di essere esorcizzati dal
demonio che, impadronitosi delle loro carni, impediva allo spirito di manifestarsi
liberamente.
Spesso, l’unico modo per salvare queste persone ‘folli’, era infliggere loro delle
punizioni corporali in modo che la sofferenza fisica riscattasse il male che si era
impossessato di loro. Nei casi più gravi, considerati irrecuperabili, venivano
persino condannati al rogo.
Queste convinzioni hanno contribuito, nel periodo medievale, alla diffusione
dell’eterna dicotomia Spirito-Corpo, che vede penalizzato il fisico terreno per
esaltare lo spirito come simbolo di purezza.
Per il superamento, in parte, di questa separazione, si dovrà aspettare il
Rinascimento.
In questo periodo infatti, vi è un’inversione di tendenza: la valorizzazione
dell’uomo e delle sue potenzialità porta al rifiuto della netta separazione tra ciò che
è dell’anima e ciò che invece è della carne; inoltre la ricerca del piacere terreno