Introduzione
Le motivazioni che mi hanno spinto ad affrontare un tema così spinoso e
complesso come la libertà dell’informazione nella nostra nazione sono
ogni giorno davanti agli occhi di tutti, ma probabilmente se ne parla così
poco - sicuramente non in maniera sufficiente - che passano in secondo
piano nella discussione pubblica del paese delle emergenze.
Coloro che affrontano seriamente il problema si sentono spesso ripetere
che in Italia la libertà di stampa è presente in abbondanza, chi non la
pensa così è cieco e/o interessato. Glissando sulla prevaricazione di
questo modo di ragionare escludente qualsiasi dissenso, ci si chiede allora
perché accadano molte delle cose di cui siamo troppo spesso passivi
spettatori, perché seri professionisti dell’informazione si vedono costretti
ad abbandonare il proprio ruolo e la carriera, per esempio.
Ritengo sia doveroso per chi si appresta a muovere i primi passi in questo
campo affrontare prioritariamente le problematiche legate al margine di
manovra concesso a chi usa la penna per mestiere, quasi un atto
propedeutico alla professione giornalistica tout court.
Il taglio che ho scelto per questa dissertazione, che è necessariamente
una panoramica a volo d’uccello, uno spunto di cui potrebbero essere
approfondite singole parti in maniera più circostanziata, è di storia del
giornalismo. Ho dato qualche cenno delle origini liberali ottocentesche
prima di concentrarmi sulla censura di stato fascista, per poi attraversare
tutto il lungo, grigio periodo democristiano, concludendo con l’era
berlusconiana nella cui propaggine finale gestita da tecnici imposti dal
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano stiamo ancora vivendo.
5
In particolare ho fatto riferimento a tutti quegli eventi ed episodi che ho
ritenuto significativi nell’ottica di mettere in risalto le limitazioni e le
negazioni che la libertà dell’informazione ha di volta in volta subito in
ambito giornalistico, televisivo, radiofonico, ma anche nelle opere
letterarie e cinematografiche.
L’intento rimane quindi quello di tratteggiare più chiaramente i limiti
oggettivi di ciò che è pubblicabile in Italia, vieppiù angusti di questi tempi
soprattutto nell’ambito politico che è sempre più simile a un campo
minato battuto da una guerriglia per bande in cui il diritto di informare è
svilito in propaganda, sia che si decomponga volutamente in essa, come
negli house organs partitici, sia che porti alla luce notizie scomode, quindi
deprecabili e inconfessabili per chi risulti coinvolto e per questo
comodamente ascrivibili alle intenzionalità dell’avversario, sotto forma di
attacco proditorio per interposta testata.
Aggiungo infine che intenzionalmente ho voluto occuparmi di quello che
è stato ed è, invece di quello che hanno provato a fare o stanno facendo,
se non mi fossi limitato lo spazio a mia disposizione sarebbe dovuto
essere infinitamente più vasto. Argomenti scottanti come i vari progetti di
legge-bavaglio presentati negli anni sono molto salienti, anche nel
dibattito recentissimo, ma ho preferito selezionare i fatti puri e semplici e
concentrarmi su quelli.
Per un ritorno a un giornalismo dei fatti, si è voluto affrontare un tema
così deontologicamente fondamentale. In qualche modo questa tesi
rappresenta una sorta di prima difesa della libertà di informare, una
buona dose di anticorpi, poiché anche solo scorrendo una relazione
diacronica dei vari modi in cui si è cercato di imbavagliare il libero
pensiero si è più in guardia contro di essi e contro quelli che verranno.
Buona lettura.
6
1. L’epoca fascista
La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana.
(Benito Mussolini)
1.1 Prodromi e presa del potere
Si può affermare che la prima repressione della libertà di stampa in Italia
risalga alle risoluzioni prese da Benito Mussolini e dai suoi ministri in
merito. Non che prima della marcia su Roma la condizione dell’editoria
fosse totalmente sciolta da vincoli, ma l’Editto albertino, il complesso di
norme redatto da Federico Sclopis che dal 1848 regolava l’attuazione
pratica e i limiti dell’editoria, garantiva un certo margine di manovra che
consentì alla cultura unitaria di affermarsi nel secondo Ottocento.
Precedenti comunque inquietanti e significativi furono casi come quello
del sequestro all’inizio degli anni ’80 del XIX secolo del romanzo Gli
scamiciati (una forte denuncia delle condizioni di vita del
sottoproletariato milanese) di Paolo Valera, che nonostante la vittoria
finale dell’editore in sede giudiziaria, scoraggerà ugualmente a perseguire
certe politiche editoriali, in quanto le copie requisite non vennero mai
restituite. Lo stesso autore avrà fra l’altro anche problemi durante il
fascismo, quando una sua biografia pubblicata nel 1924 e intitolata
7
Mussolini, dipingerà il duce come un voltagabbana venendo così
soppressa dai gerarchi.
Per quanto riguarda la professione, il giornalista politico Carlo Lorenzini
(in arte Collodi) scrisse nel 1873: “È l’arte che consiste nel pensare in un
modo, parlare in un altro, e scrivere diversamente”.
Prima dell’avvento del fascismo, si configura come censore l’editore, che
è anche il più esposto a processi e gravi conseguenze economiche e
d’immagine, questo si percepisce soprattutto rispetto agli autori stranieri,
per i quali la legislazione era più vaga, si applicano quindi ampi tagli e
rimaneggiamenti che nell’intenzione dell’editore servono a incontrare i
gusti del pubblico, salvo rimanendo le costanti maggiori attenzioni degli
esecutivi verso i periodici, considerati più importanti dal punto di vista
socio-politico nell’ambito dell’orientamento dell’opinione pubblica.
Politicamente, contestualmente al controllo preventivo delle
pubblicazioni instaurato fin dall’inizio della seconda guerra mondiale,
l’Italia esce dal conflitto ed entra nel biennio rosso, con gravi rivolte nelle
fabbriche e nelle campagne: sull’onda lunga della rivoluzione russa i
proletari italiani sperano in un cambiamento radicale delle loro condizioni
di vita, in particolare premono contro il blocco degli stipendi. Da questo
periodo d’instabilità nasceranno il 23 marzo 1919 a Milano i fasci di
combattimento grazie all’opera del futuro duce.
Gli italiani, bisognosi di ordine, permetteranno che i loro destini si leghino
indissolubilmente a quelli del “rivoluzionario” nero per più di un
ventennio che tramonterà solo nel sangue della seconda guerra
mondiale.
Fin da subito la violenza si riversa anche verso le sedi dei giornali non
allineati al fascio con intimidazioni, spedizioni punitive, devastazioni,
pestaggi; ma i giornali d’opposizione, i più famosi il socialista Avanti! (che
aveva diretto Mussolini stesso prima della guerra) e il comunista L’Unità
8
continuano a essere pubblicati fra mille difficoltà – minacce, diffide,
sequestri – come gli altri che continuano a rappresentare un giornalismo
indipendente.
Questo fino all’instaurazione della dittatura, col discorso di Mussolini del
3 gennaio 1925; da qui in poi l’obiettivo sarà non tanto eliminare i
principali giornali liberali italiani, bensì fascistizzarli dall’interno, epurando
le redazioni e le proprietà dai personaggi scomodi e inserendo al loro
posto persone di riprovata fede, attraverso la promulgazione di nuove
leggi, tramite interventi della magistratura e con una sempre attenta
riorganizzazione della stampa di partito.
I maggiori sforzi si orienteranno ovviamente verso i due quotidiani più
importanti, il Corriere della Sera di Milano e La Stampa di Torino.
Alberto Albertini, gerente responsabile del giornale milanese che assieme
al direttore e fratello Luigi fu il fautore del suo successo, vistosi già
diffidato e perseguito, viene poi scaricato dai proprietari, i fratelli Mario,
Aldo e Vittorio Crespi, che approfittano di un cavillo legale per sciogliere
l’accordo con gli Albertini. I proprietari hanno già deciso che la via del
fascismo è quella da perseguire e il 28 novembre 1925 uscirà sulle pagine
del giornale il commiato di Luigi Albertini, forse la più grande penna
dell’epoca liberale, in cui egli spiega le pressioni che ne hanno decretato
l’estromissione.
All’interno de La Stampa la situazione è parallela, dopo la soppressione
del giornale voluta dal prefetto di Torino dal 29 settembre al 3 novembre
e il suo ritorno nelle edicole in seguito a un compromesso, Alfredo
Frassati si ritira dalla direzione del giornale, pagando così il suo appoggio
a Giovanni Giolitti.
Ovviamente, l’obiettivo di questa strategia dell’obbedienza e
dell’infiltrazione è sfruttare le casse di risonanza di questi importanti
organi d’informazione a favore del neonato regime, ma si persegue una
9
tattica gradualistica, proprio per evitare che, con una brusca e troppo
sensibile virata autoritaria, quei giornali perdessero la capacità di
penetrazione che avevano.
Frequenti sono i richiami strumentali alla “responsabilità” che torneranno
a fasi alterne anche nella storia repubblicana fino ai giorni nostri, una
responsabilità che si concretizza nel supporto incondizionato al potere,
nella ricerca di una stabilità che, fuori dalla dittatura, non c’è mai stata.
L’Ufficio stampa diventa uno strumento fondamentale che Mussolini
potenzia unificando quello del ministero degli Interni e quello del
ministero degli Esteri, ponendo alla direzione fin dal 1924 Giovanni
Capasso Torre, sua diretta emanazione; sempre da quell’anno l’agenzia
stampa Stefani, la più importante a livello nazionale, viene posta sotto il
controllo di un altro fedelissimo, Manlio Morgagni e contribuirà
notevolmente al rafforzamento e al mantenimento del regime con i
perentori inviti dell’Ufficio stampa diretti ai giornali a servirsi del
materiale, soprattutto politico, diramato da essa.
Una seconda problematica da affrontare era la riottosità di alcuni fogli del
Partito nazionale fascista, troppo spesso espressione delle volontà
personali di singoli gerarchi o di nuclei squadristici, mentre la radio, che
inizia le sue trasmissioni nazionali proprio nel 1925, non viene compresa
appieno nel suo potenziale e rimarrà marginale per qualche anno.
Come sottolinea Maddalena Carli nel suo saggio La cultura fascista: “A
partire dal 1925 e parallelamente alla rivoluzione legislativa che fece da
sfondo all’instaurazione della dittatura – il fascismo intese assicurarsi il
controllo sulla vita intellettuale italiana. La ‘tolleranza estetica’ ostentata
da Mussolini fin dalle settimane successive alla presa del potere fu ben
lontana dall’esaurire gli interventi culturali governativi: le dichiarazioni in
favore del pluralismo stilistico e dell’autonomia dei processi creativi
vennero repentinamente associate alla promozione di una rete di
organismi e istituti pubblici investiti del compito di regolamentare i
10
meccanismi della produzione artistica, attraverso una gestione clientelare
del mercato culturale, la realizzazione di un efficace dispositivo di censura
preventiva e, non da ultimo, la statalizzazione dei luoghi e delle forme di
sociabilità intellettuale”.
1.2 Il periodo fascistissimo
A quei tempi, si diceva che ormai la stampa fosse divisa in nazionale, di
regime (comprendente i fogli cattolici) e fascista, di partito (diretta
emanazione del potere politico). Direttore unico e redattore capo di tutti i
quotidiani è Benito Mussolini, grazie alla legge del 31 dicembre 1925, n.
2307 (figlia delle disposizioni contenute nel regio decreto del 10 luglio
1924), le cui novità principali sono contenute nell’art. 1 che istituisce la
figura del direttore responsabile a sostituzione di quella precedente del
gerente, d’ora in poi sarà prerogativa di Mussolini sceglierli e si accrescerà
la loro responsabilità penale riguardo a ciò che si pubblica, irretendo in
maniera profonda la rimanente libertà di stampa. L’art. 7 invece prevede
l’istituzione dell’Ordine dei giornalisti (nascerà col R. D. 26 febbraio 1928,
n. 384) con il rispettivo Albo, al quale è da ora in avanti obbligatorio
essere iscritti per poter esercitare la professione, occorrendo inoltre
esibire in precedenza un’attestazione di corretta condotta politica
rilasciata dal prefetto. L’Ordine è fortemente voluto da Ermanno
Amicucci, segretario del Sindacato nazionale fascista dei giornalisti, creato
nel 1924 in contrapposizione alla Federazione nazionale della stampa
italiana. Il sindacato è definito nella dichiarazione programmatica
“strumento squisitamente politico agli ordini del Duce e del PNF” e
11
possono accedervi solo coloro che “abbiano dato prova di fedeltà al
Regime”.
La legge insiste oltretutto in maniera pleonastica nella richiesta di
comunicazione annuale dei nominativi di proprietari e membri del
Consiglio d’amministrazione dei periodici nel caso si tratti di società,
prescrizione decisamente inutile in una dittatura, probabilmente inserita
a solo scopo intimidatorio.
Nel gennaio del 1924, al primo congresso del sindacato il duce afferma:
“La libertà di stampa non è soltanto un diritto, è un dovere. Oggi una
semplice notizia di giornale può portare danni incalcolabili alla Nazione.
Se si vuole, come si vuole, che il giornalismo sia una missione, ebbene
ogni missione è accompagnata da un altissimo senso di responsabilità”.
Con un colpo di mano, attraverso la conquista delle diverse associazioni
locali, i giornalisti fascisti che ottengono così il controllo del Consiglio
generale della FNSI votano nella seduta del 6 dicembre 1925, senza un
confronto coi membri del direttivo, una mozione di sfiducia nei loro
confronti, per poi sciogliere la Federazione.
Svuotata dall’interno la FNSI, la strada è aperta per il nuovo sindacato di
Amicucci. Per risarcire i giornalisti della perdita viene fondato l’Istituto
nazionale previdenza giornalisti italiani, il cui primo presidente è il fratello
di Mussolini, Arnaldo. Egli, già direttore del giornale di famiglia, il Popolo
d’Italia, sarà la figura che più influenzerà, direttamente o indirettamente,
la vita della stampa nazionale, pilotando praticamente tutte le operazioni
editorial-finanziarie, suggerendo soluzioni e moderando i fascisti più
accesi.
Dopodiché, per dare l’impressione ai giornalisti di non essere solo meri
dipendenti, la categoria viene collocata nella Corporazione professionisti
e artisti.
12