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INTRODUZIONE
1.1 Zone umide: funzione ed importanza
Non esiste una definizione univoca di zone umide anche se si può osservare che tali
ambienti sono spesso situati nelle zone di transizione fra ecosistemi terrestri asciutti e
sistemi acquatici permanentemente inondati e con acque profonde, come fiumi, laghi,
estuari o oceani. Molti elementi suggeriscono che le caratteristiche uniche delle zone umide
(acqua stagnante o suoli impregnati di acqua, condizioni anossiche e adattamenti di piante
ed animali) possano fornire un terreno di studio che non appartiene nè all'ecologia terrestre
nè all'ecologia acquatica. Due sono le principali definizioni su cui ci si basa per poter
includere anche i maceri (ovvero bacini artificiali di acqua stagnante che venivano utilizzati
in Emilia per la macerazione della canapa) all’interno di questa categoria:
1. La Convenzione di Ramsar relativa alle zone umide di importanza internazionale
(con particolare riguardo alla protezione degli uccelli) stilata nel 1971 e ratificata
dall'Italia con decreto del Presidente della Repubblica n. 448 del 13 marzo 1976 (G.U.
n. 173 del 3 luglio 1976) stabilisce: "Si intendono per zone umide le paludi e gli
acquitrini, le torbiere oppure i bacini, naturali o artificiali, permanenti o temporanei, con
acqua stagnante o corrente dolce, salmastra o salata, ivi comprese le distese di acqua
marina la cui profondità, durante la bassa marea, non supera i sei metri".
2. Il Servizio per la Pesca e la Vita Selvatica degli Stati Uniti afferma: "...Le zone umide
devono avere una o più delle seguenti tre caratteristiche:
a) Almeno periodicamente, il terreno supporta in prevalenza idrofite
b) Il substrato è prevalentemente suolo idrico non drenato
c) Il substrato è non suolo ed è saturo di acqua o coperto da acqua bassa in
qualche periodo durante la stagione di crescita di ogni anno (Mitsch e
Gosselink, 1993).
Le zone umide (torbiere, paludi e marcite, stagni, ecc.), giocano un ruolo vitale e spesso
non abbastanza apprezzato nel ciclo idrologico; la crescita, ove presente, di vegetazione in
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questi luoghi stabilizza il suolo e trattiene l’acqua, evitando o rallentando il processo di
dilavamento (causa principale della presenza di inquinanti derivati dall’agricoltura, nei canali
e successivamente in fiumi e mari) permettendo all’acqua di infiltrarsi negli acquiferi e di
produrre un flusso regolare durante l’anno. Quando le zone umide sono perturbate, la loro
naturale capacità di assorbire acqua è ridotta e l’acqua in superficie scorre rapidamente,
causando allagamenti ed erosione durante le stagioni piovose, e lasciando i letti dei fiumi
asciutti o quasi durante il resto dell’anno. Ciò ha un effetto disastroso sulla diversità e
produttività biologica, oltre ad avere costi economici e sociali (Basset e Rossi, 2003).
Un’altra importante funzione delle zone umide è la conservazione della diversità
biologica di boschi, prati, ecc., grazie al continuo scambio di energia e materia con gli
ecosistemi circostanti che mantiene l’ecosistema in equilibrio.
E' possibile tradurre in termini economici il valore delle zone umide se si considera
l'importanza che esse assumono per le attività produttive (ad esempio, consentono la
sopravvivenza di selvaggina, pesci, legname, piante farmacologicamente importanti). In
alcune aree del mondo, infatti, interi gruppi etnici dipendono dalle zone umide per la loro
sussistenza. Comunque, è inestimabile il valore che esse hanno per il funzionamento degli
ecosistemi regionali e per l'ecosistema globale (contenimento delle ondate di piena fluviali,
miglioramento delle qualità delle acque per decantazione di sostanze organiche e tossiche,
ripristino delle falde acquifere, riciclo di azoto, zolfo e carbonio, sequestro di eccesso di
anidride carbonica, rilascio in atmosfera di metano che scherma la radiazione ultravioletta in
aggiunta allo strato di ozono; Millennium Ecosystem Assessment, 2005).
A questi valori sostanziali delle zone umide si può aggiungere l'apprezzamento estetico
per questi ambienti che richiamano un elevatissimo grado di diversità biologica animale e
vegetale, oltre che un importante valore storico e culturale.
Anche le piccole zone umide sono importanti: contribuiscono inoltre alla mitigazione
locale del clima, trattenendo il 30% circa del carbonio della terra, impedendo il suo rilascio
sottoforma di CO
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e forniscono cibo e sostentamento a migliaia di specie inclusi gli uomini;
la produzione primaria annuale di un canneto temperato/mediterraneo raggiunge infatti le
20 tonnellate per ettaro, ovvero 2 Kg/m
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, uno degli ecosistemi più produttivi della terra.
(Bressi, 2008).
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1.2 I maceri nel Comune di Ferrara
Il territorio comunale di Ferrara si estende su di una superficie di 404,35 km
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ed è
pertanto uno dei più vasti in Italia e, in Emilia-Romagna, è il secondo per estensione dopo
Ravenna; la densità abitativa è di 331 abitanti per km
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. L’area è, come tutta la Pianura
Padana, fortemente antropizzata, caratterizzata da agricoltura intensiva; tuttavia, è
attraversata anche da due siti Rete Natura 2000, entrambi in ambito fluviale, ovvero la Zona
di Protezione Speciale e Sito di Interesse comunitario “Fiume Po da Stellata a Mesola e
Cavo Napoleonico” (IT 4060016) e la Zona di Protezione Speciale “Po di Primaro e Bacini
di Traghetto” (IT 4060017). Il territorio è pianeggiante (la pendenza di solito è inferiore allo
0,5%; Bondesan, 2003), salvo per la presenza di dossi rilevati che testimoniano l’evoluzione
del sistema idrografico del fiume Po a Nord, e del fiume Reno a Sud. Una piccola parte del
territorio ad Est è situato poco sotto il livello del mare e comunque la maggior parte del
territorio non supera i 7 m di altitudine (Assessorato Urbanistica, 2004). Il mantenimento dei
terreni dipende dall’azione costante degli impianti idrovori dei consorzi di bonifica che
pompano acqua verso il mare.
Una peculiarità territoriale del comune di Ferrara, come di altre zone della Pianura
Padana orientale, è l’elevata presenza di maceri ovvero biotopi umidi artificiali, resti
dell’antica industria di coltivazione e trasformazione tessile della canapa (Cannabis sativa).
L’ industria della Canapa fu fiorente in Italia per centinaia di anni, fino alla prima metà del
XX secolo; la pianta, conosciuta dall’uomo probabilmente già 10.000 anni fa, venne
introdotta in Italia fra il X e l’VIII secolo a.C. dalle regioni asiatiche attraverso la Russia e i
Balcani e coltivata nelle pianure della penisola, in particolare quella padana e quella
campana. Con la pianta si producevano cordami, oli alimentari e combustibili, medicinali,
isolanti per l’edilizia, tessuti per l’abbigliamento, per la casa e per le vele delle imbarcazioni.
Agli inizi del Novecento l’Italia era seconda solo alla Russia per la produzione di canapa
tessile: nel 1914 la provincia di Ferrara produceva 363.000 quintali all’anno, seguita da
quelle di Caserta (157.000), Bologna (145.000) e Napoli (89.000). (Sitti et al., 2004) e sul
territorio ferrarese erano presenti circa 10.000 maceri (Ferrari et al., 1979).
Le vasche per la macerazione venivano scavate nel terreno con una forma rettangolare,
una profondità media di circa 2 m e un’area che generalmente non superava i 6000 m
2
(Sitti
et al., 2004). Dopo l’inverno, ogni anno, le vasche venivano svuotate per poi utilizzare i
sedimenti organici depositati sul fondo come fertilizzanti per i campi, e liberate dalla
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vegetazione che cresceva sulle sponde. Circa un mese prima del raccolto della canapa
(quindi, a metà luglio) venivano nuovamente riempite d’acqua grazie ai collegamenti con la
rete idrica circostante (Fig. 1).
Fig. 1 - Lavorazione della canapa all’interno di un macero.
I primi gravi colpi alla coltivazione della canapa, e quindi all’interesse per il
mantenimento dei maceri, arrivarono nell’Ottocento, per varie cause: concorrenza di fibre
esotiche (cotone, juta, cocco), squilibrio fra la manodopera necessaria e i ricavi economici,
maggiore convenienza di canape slave e russe, comparsa sulle navi del motore a vapore in
sostituzione delle vele. Nel secondo dopoguerra si affermò anche l’uso delle fibre sintetiche
derivate dal petrolio e questo segnò per la canapicoltura il declino definitivo: la canapa
scomparve dalla Val Padana nel 1958 e nel 1964 anche in Campania. Si aggiunse infine
negli anni ’70 il divieto di coltivazione per via della grandissima somiglianza con la canapa
usata come stupefacente (Corazza, in stampa).
Con il declino e il successivo definitivo abbandono della coltivazione della canapa, molti
maceri vennero chiusi per recuperare terreno agricolo o edificabile. Infatti, anche i maceri,
inseriti negli agroecosistemi (ecosistemi di origine antropica realizzati in seguito all’attività
agricola ma che si sovrappongono all’ecosistema originario mantenendo parte delle
caratteristiche e delle risorse presenti ovvero microclima, profilo e componenti del terreno),
sono soggetti alle conseguenze dell’agricoltura moderna e della forte antropizzazione e
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risultano fortemente minacciati dalla pressione antropica diretta all’acquisizione di nuove
aree coltivabili o edificabili, dall’uso poco accorto che si fa di essi per l’irrigazione, dai
trattamenti antiparassitari dei campi limitrofi e dalla loro trasformazione abusiva in
discariche o scoli fognari. Tuttavia, essi sono biotopi importanti per la tutela della natura e
destano particolare attenzione in un’ottica di conservazione della biodiversità attraverso la
realizzazione di reti ecologiche, poiché sono piccoli surrogati dei vasti ambienti umidi di
acqua dolce che caratterizzavano questa parte di pianura prima delle bonifiche dei secoli
passati; si tratta anche di biotopi che possono introdurre una certa “complessità”
ambientale nel paesaggio (Corazza et al., 2007).
1.3 Normativa sui maceri
I maceri rientrano nella categoria delle cosiddette “piccole acque”, ecosistemi fra i più
minacciati in Europa (Stoch, 2005) e oggetto di una protezione specifica molto discontinua
(E.P.C.N, 2007): infatti neppure la Direttiva Quadro 2000/60/CE sulle acque, che, in teoria,
tutela tutti i corpi idrici superficiali, riesce a proteggere gli specchi d’acqua di più limitata
estensione. Molti stati hanno stabilito al proprio interno che la direttiva può applicarsi
soltanto a corpi idrici di superficie superiore a 50 ha ed anche in Italia ci si sta orientando
nel considerare, come passibili di tutela, solo corpi idrici con una superficie minima di 0,5 o
al più 0,2 km
2
. Tuttavia ci sono evidenze sperimentali che confermano che le piccole acque
a livello regionale possono sostenere un patrimonio in biodiversità superiore a quello delle
altre categorie e alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, hanno recentemente deciso di
includerli tra gli habitat prioritari (UK Biodiversity Action Plan, 2007).
Anche i maceri della Pianura Padana sono stati a lungo privi di una protezione
specifica. Un accordo su base volontaria fra Amministrazione Provinciale di Ferrara e le
associazioni degli agricoltori, siglato attorno al 1990, ha consentito di rallentare il tasso di
chiusura di questi bacini.
Una prima tutela è stata loro conferita dal Pianto Territoriale di Coordinamento
Provinciale (PTCP) entrato in vigore nel 1997: i maceri sono riconosciuti dall’art. 24 come
“Elementi di interesse storico-testimoniale”.
Dal 2005 il PTCP prende in considerazione anche la realizzazione di una Rete
Ecologica Provinciale di I° livello, che è stata adottata con delibera di Consiglio n. 50/31902
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del 7/5/2008: tutti i maceri esistenti sono riconosciuti come elementi costitutivi (stepping
stones) della REP, in quanto censiti e perimetrati nel Quadro Conoscitivo della stessa;
inoltre, per una zona con concentrazione particolarmente elevata di maceri (circa 2 per
km
2
), compresa fra i comuni di Cento e di S. Agostino, è stato individuato un “areale dei
maceri” che, al pari di altri areali (delle siepi, delle risaie, ecc.) della REP, svolge un ruolo di
connettivo ecologico diffuso.
Il PTCP ha valore prescrittivo nei confronti dei Piani Strutturali Comunali. Per quanto
riguarda il comune di Ferrara, è stato definitivamente approvato (16 aprile 2009) il nuovo
Piano Strutturale Comunale, che protegge i maceri al titolo IV “Attuazione e gestione del
Piano Strutturale Comunale. Diritti e procedure”, capo i –Vincoli, art. 24 e nell’art. 25.4,
“Tutela Storico Culturale e Ambientale”. La tutela del PSC è estesa anche ai maceri
temporanei, soggetti ad irregolari fasi di prosciugamento.
A queste norme locali si è aggiunta nel 2006 la Legge Regionale n. 15 “Disposizioni per
la tutela della fauna minore in Emilia-Romagna” che stabilisce forme di protezione per le
specie animali di piccole dimensioni, sia vertebrati che invertebrati, e per i loro habitat trofici,
di riproduzione e svernamento. Sono indistintamente protette tutte le specie di anfibi, rettili e
chirotteri presenti nel territorio regionale, con una particolare tutela per le specie incluse
negli Allegati II e IV della Direttiva 92/43/CEE e per quelle di un elenco regionale di specie
rare e/o minacciate che sarà approvato e periodicamente aggiornato dalla Giunta Regionale
(Palazzini, 2007). In questa legge sono quindi compresi anche i maceri, esplicitamente citati
dal comma 3, lettera c del primo articolo della legge, poiché spesso abitati da specie
importanti come anfibi, rettili e varie specie di invertebrati, protetti dalla normativa.
1.4 Il censimento dei maceri nei territori ferraresi
Nel 2004 la Stazione di Ecologia del Museo di Storia Naturale di Ferrara ha ripreso un
antico progetto di censimento dei piccoli luoghi di interesse naturalistico del ferrarese,
concentrandosi sui 404,35 km
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del territorio comunale di Ferrara. Le indagini sono state
condotte in tre anni, con il supporto di volontari del Servizio Civile Nazionale.
Si è tenuta in considerazione la suddivisione territoriale in 8 circoscrizioni comunali,
ancora in vigore nel 2008 (Fig. 2).
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Fig. 2 - Circoscrizioni del Comune di Ferrara.
Le indagini hanno consentito di aggiornare le mappe informatizzate, gestite in Esri©
ArcView, che descrivono la distribuzione geografica e topografica dei maceri e di
raccogliere sul campo importanti notizie ecologiche su quasi tutti i bacini ancora esistenti
nel comune.
Parallelamente, il Servizio Protezione Flora, Fauna e Oasi protette della Provincia di
Ferrara si è interessato con un analogo censimento a tutto il territorio provinciale.
I risultati delle indagini sono questi: dei 5000 maceri che esistevano sul territorio
provinciale nel 1977 (Ferrari et al, 1979) , ne rimangono ora circa 1400, concentrati nei
comuni dell’Alto Ferrarese (Fig. 3) e nei dintorni della città-capoluogo. Quindi, rispetto a
quelli presenti nel periodo di massima espansione industriale della canapa tessile, ne sono
rimasti solo il 14%.
I maceri mancano da sempre nei territori provinciali verso il mare (Fig. 3), terreni un
tempo paludosi e poi bonificati e la cui emersione dipende ancora oggi dal costante lavoro
degli impianti di sollevamento delle acque e, sono assenti anche dal centro storico di
Ferrara (circoscrizioni Centro cittadino e Giardino-Arianuova-Doro); sono presenti invece in
tutte le altre circoscrizioni comunali con aree diverse tra loro (Fig. 4).