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PREMESSA
L’attuale mercato dei prodotti agro-alimentari vede, accanto alle produzioni di tipo
industriale (o, meglio, agro-industriale), la presenza di una serie di prodotti definiti “tipici” o
“tradizionali”: sono dei prodotti la cui qualità è il risultato di una serie di fattori che derivano
dal territorio d’origine e, quindi, fattori naturali, come il clima e le caratteristiche chimico-
fisiche del suolo, e fattori umani, legati alla cultura ed alla storia, che hanno dato origine ai
metodi di produzione. Le caratteristiche di questi prodotti a forte connotazione territoriale sono
dunque il risultato di una lenta selezione, perfezionatasi nel corso di decenni se non di secoli,
ed hanno raggiunto un livello di peculiarità tale da non essere riproducibili altrove. Il prodotto
alimentare tipico ha dunque una sua specifica origine, rafforzata dalla stretta interdipendenza
esistente tra la qualità della materia prima e la qualità del prodotto finale (Negro, 2003).
I prodotti “agro-industriali” e quelli legati al territorio si basano dunque su due diversi
modi di concepire la produzione, due modi antitetici che danno origine a “versioni” diverse
dello stesso alimento che, fino a poco tempo fa, coesistevano senza grossi problemi sul
mercato, in quanto avevano meccanismi distributivi e canali commerciali differenti. Gli
stravolgimenti del mercato degli ultimi due decenni hanno provocato un sovvertimento di
questi equilibri, ed i due mondi sono entrati in un profondo conflitto: la parte del vincitore è
stata a lungo assegnata ai prodotti “industriali”, o comunque realizzati su vasta scala con criteri
più vicini all’industria che all’agricoltura. Essi hanno pian piano soppiantato quelli legati al
territorio, grazie ai sempre più sofisticati meccanismi del “marketing di massa”. Questo trend,
esaltato dal fenomeno della “globalizzazione” e dalla diffusione della grande distribuzione
organizzata (GDO), ha raggiunto il suo culmine con la crisi economica : la ricerca spasmodica
della convenienza ha ulteriormente favorito i prodotti alimentari di grande massa, più “facili”
da produrre e da commercializzare e, dunque, in grado di stare sul mercato a prezzi
estremamente concorrenziali.
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Il modo di produrre “industriale” tende dunque a ricercare ed esaltare alcune
performances a scapito di altre. Queste performance vengono dettate dal mercato : in un
mercato globale, quelle di maggiore interesse sono soprattutto la assoluta igienicità, la
conservabilità per periodi sempre più lunghi, la “genericità” del gusto (in modo che un prodotto
risulti ben accetto al maggior numero possibile di consumatori), la quota di servizio (facilità e
versatilità di impiego, innanzi tutto) e, come già accennato, la convenienza economica. I
prodotti che per loro natura si “prestano” ad una evoluzione in questa direzione hanno grande
successo e fanno volumi d’affari di grande rilievo a scapito di altri, dai quali magari hanno
persino avuto origine, che restano relegati in nicchie asfittiche in quanto caratterizzati da
“performances” commerciali non adeguate: ad esempio, da eccessiva variabilità delle
caratteristiche commerciali, da shelf-life inadeguata, da standard microbiologici meno rigorosi
o da gusti troppo marcati. Il gusto, infatti, criterio di assoluta importanza nella storia
dell’alimentazione e della gastronomia umana sembra non essere più tra i parametri di
maggiore interesse per il successo dei prodotti alimentari di massa: per questa ragione gli
alimenti stanno diventando sempre più omologati nelle loro performances gustative, e
procedono spediti verso una drastica riduzione della “biodiversità alimentare” (C. Petrini,
2005). Si tratta di una selezione feroce: si impone ad un prodotto alimentare di evolvere (o
addirittura di nascere, nel caso dei prodotti innovativi) esclusivamente per “adattarsi” ai nuovi
stili di vita del consumatore. I prodotti che non procedono in questo senso entrano in difficoltà
e, prima o poi, muoiono. E’ la definitiva “spersonalizzazione” del cibo, l’esatto opposto dei
prodotti legati al territorio, che sono invece fortemente identitari, peculiari, ricchi di contenuti
culturali, poco propensi ad adattarsi ai cambiamenti degli stili di vita. Un Caciocavallo
Podolico non potrà mai essere rivestito di cellophane o di cere, non potrà mai essere prodotto
tutto l’anno, non potrà mai essere modificato nel suo imponente apporto calorico per far piacere
alle esigenze del moderno consumatore medio, distratto e ossessionato da pochi “input”
propinati a livello mediatico.
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Fortunatamente, da diversi anni è in corso una inversione di tendenza, vi è una
rivalutazione dei prodotti tradizionali, ed una quota crescente di consumatori si interessa a
queste realtà produttive, li considera una fonte di “biodiversità”, e li apprezza anche sotto
l’aspetto culturale oltre che puramente edonistico: cresce insomma la curiosità di riscoprire
sapori ed odori in “via d’estinzione” e la voglia di approfondire la storia che c’è dietro ogni
prodotto tipico. Si parla sempre più di “vissuto” del cibo, riferendosi con questo termine a tutto
quello che c’è dietro di esso, a tutto quello che lo ha “creato” : il prodotto alimentare tipico può
essere considerato dunque il frutto di una creatività che ha una sua spiccata dimensione storica
e una sua specifica ragione d’origine. Inoltre, tali prodotti si incastrano in una eterogeneità
territoriale e strutturale, quale è quella italiana, che sta consentendo lo sviluppo di una nuova
agricoltura, che si adatta più facilmente alle nuove domande poste dalla collettività come il
rispetto della ecosostenibilità, la diversificazione, la valorizzazione della qualità dei prodotti
alimentari e l’esaltazione della loro tipicità (Patruno,2007)
Il mercato sembra essere in movimento, dunque, e si sta giungendo alla consapevolezza
che le produzioni tipiche costituiscono non solo una forma di espressione socio culturale, ma
anche un mezzo importante per offrire possibilità di sviluppo alle diverse ed eterogenee realtà
agroalimentari, in particolare quelle cosiddette marginali. Vi sono pertanto tutte le ragioni
perché la loro produzione venga protetta e la loro continuità venga garantita (Negro, 2003).
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SCOPO DELLA TESI
Il presente lavoro di tesi si occupa di una particolare gruppo di prodotti alimentari legati al
territorio : i derivati del latte. L’Italia è una nazione fortemente vocata alla produzione di
formaggi ed altre specialità casearie, come dimostrato dall’elevato numero di caseifici presenti
(circa 5.000) e distribuiti in modo abbastanza omogeneo abbastanza sul territorio: circa 60 % al
Centro-Nord, 40 % al Sud. La maggior parte di tali caseifici realizza prodotti a forte
connotazione territoriale: l’Italia è il primo produttore al mondo di formaggi DOP. In Puglia i
caseifici sono poco meno di 300 e sono per lo più di piccola dimensione, e realizzano una vasta
gamma di prodotti legati alla tradizione regionale: formaggi a pasta filata, ricotte, formaggi
ovini (www.sierovalore.com).
Obiettivo della presente tesi è stato quello di riassumere, in generale, gli aspetti tecnico-
normativi dei formaggi tipici e di effettuare, in particolare, una rassegna dei formaggi pugliesi a
valenza “territoriale” riportando in sintesi, per ciascuno di essi, la tecnologia, la normativa e lo
stato dell’arte delle conoscenze scientifiche.
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1. PRODOTTI TIPICI E TRADIZIONALI
1.1. L’Europa ed i prodotti tipici.
La storia e le tradizioni dei Paesi europei, in particolare di quelli che si affacciano sul Mar
Mediterraneo sono profondamente intrisi di “cultura agroalimentare”. Per questa ragione i
singoli stati prima, e la Comunità Europea poi, si sono impegnati in misura importante nella
tutela e nella valorizzazione del patrimonio agro-alimentare delle diverse aree geografiche.
L’amministrazione europea sostiene e favorisce con sempre maggiore forza il sistema delle
denominazioni di origine, e gli sforzi negli ultimi anni stanno andando verso la protezione
contro imitazioni e abusi e verso l’informazione, aiutando i consumatori a riconoscere e a
scegliere la qualità. Tutti i prodotti a valenza territoriale, tipici e tradizionali, sono dunque
oggetto di particolare attenzione da parte dei governi locali, regionali, nazionali e dell’ Unione
Europea. E sono oggetto di acceso dibattito con i paesi extra-europei. A livello internazionale,
nel 1994, il WTO definì le indicazioni geografiche con l’accordo TRIPS sui diritti della
proprietà intellettuale attinenti al commercio. In particolare, l’articolo 22 stabiliva che le
indicazioni devono identificare “un bene originario di un territorio di uno Stato membro, o una
regione o una località dove una certa qualità, reputazione o altra caratteristica del bene sono
attribuibili essenzialmente all’origine geografica”. L’obiettivo era impedire che errate
comunicazioni potessero generare confusione e/o ingannare il consumatore,e che alimenti
prodotti in altre zone geografiche possano beneficiare di un vantaggio legato a una reputazione
non propria. Dai 10 anni successivi la tutela dei prodotti DOP è stata al centro di numerosi
incontri (e scontri) in ambito WTO tra Europa e resto del mondo. A fronteggiarsi sono due
diverse filosofie:da una parte il Vecchio Continente, assieme a nazioni emergenti, preme per
definire un sistema di regole più restrittive che permettano di valorizzare il suo immenso
patrimonio eno-gastronomico e difenderlo dalla crescente minaccia della contraffazione e
dell’agropirateria; dall’altra, Stati Uniti, Argentina e Australia, ma anche Giappone, Canada e
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Nuova Zelanda, che in nome della libera concorrenza puntano a mantenere immutata la
normativa attuale senza dover concedere ulteriori protezioni particolari ai prodotti tipici. Anzi,
secondo gli USA il sistema di protezione comunitario dei prodotti certificati non tutelerebbe i
diritti dei trademarks pre-esistenti e sarebbe discriminatorio nei confronti dei Paesi Terzi
rendendo difficile un loro accesso al sistema di protezione europeo. Anche per far fronte a
queste critiche nel 2006 l’Europa ha varato due nuovi regolamenti: il 509/06, che disciplina la
normativa sulle Specialità Tradizionali Garantite, e il 510/06, relativo a DOP e IGP. Questi due
regolamenti oltre ad abrogare i regolamenti 2081/92 e 2082/92 sulla tutela dei prodotti DOP,
IGP e STG, hanno apportato una semplificazione dell’iter di registrazione con l’istituzione di
un “documento unico” per la presentazione delle domande, contenente tutti i dati necessari ai
fini della registrazione e dei controlli. Ma la novità più importante è che, per la prima volta, si
fa cenno a Paesi terzi (extra-UE) : durante l’iter di approvazione anche questi paesi possono
eventualmente presentare delle opposizioni alla Commissione valutatrice
(www.cittàdelleciliege.it).
La politica comunitaria della qualità agro-alimentare non mira alla sola valorizzazione
economica dei prodotti, ma di tutta la realtà socio-ambientale in cui vengono ottenuti. La
valorizzazione dei prodotti tipici persegue infatti anche la conservazione di un paesaggio e di
un patrimonio unici.
Classicamente, i prodotti alimentari tipici in senso stretto sono quelli coperti da marchio
DOP o IGP (DOC e IGT per i vini). I paesi europei con il maggior numero di prodotti che
hanno ottenuto il riconoscimento DOP o IGP sono l’Italia e la Francia, che si contendono il
primato con un testa a testa. In questo momento i prodotti italiani riconosciuti sono
complessivamente 182, 117 a denominazione di origine protetta, 65 ad indicazione geografica
protetta. Guardando alle categorie merceologiche, sono al primo posto gli ortofrutticoli, con 55
riconoscimenti; segue l’olio extra vergine di oliva, i formaggi e i caseari (35 DOP), le carni.
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Nazioni DOP IGP STG TOT
Austria 8 4 0 12
Belgio 2 3 5 10
Bulgaria 0 0 0 0
Cipro 0 0 0 0
Danimarca 0 3 0 3
Estonia 0 0 0 0
Finlandia 1 0 3 4
Francia 71 81 0 152
Germania 37 30 0 67
Gracia 61 23 0 84
Inghilterra 13 16 1 30
Irlanda 1 3 0 4
Italia 117 65 1 183
Lettonia 0 0 0 0
Lituania 0 0 0 0
Lussemburgo 2 2 0 4
Malta 0 0 0 0
Paesi Bassi 5 1 1 7
Polonia 0 0 6 6
Portogallo 57 47 0 104
Rep. Ceca 0 4 0 4
Romania 0 0 0 0
Slovacchia 0 0 0 0
Slovenia 1 0 0 1
Spagna 61 43 3 107
Svezia 0 2 2 4
Svizzera 0 0 0 0
Ungheria 0 0 0 0
Tot. 427 314 15 756
(Fonte: Agricoltura on line - Rivista telematica del Ministero
delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali)
I riconoscimenti non riguardano soltanto prodotti freschi o tradizionali, trasformazioni
agricole, ma anche pane, prodotti ittici, essenze non alimentari (Bergamotto) e spezie come lo
zafferano.
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Accanto ai prodotti DOP e IGP, vi sono i prodotti tradizionali. Tra questi ultimi, alcuni
(molto pochi) sono riconosciuti a livello comunitario come STG (Specialità Tradizionale
Garantita). Sono esattamente 22 in tutta Europa (6 polacchi, 5 belgi, 3 finlandesi, 3 spagnoli, 2
svedesi, 1 Regno Unito, Paesi Bassi e Italia). L’unico STG italiano è un formaggio: la
mozzarella tradizionale Reg. CE n. 2527 del 25.11.98. Il marchio STG è decisamente “sui
generis”, in quanto tutela una tradizionalità di processo/prodotto e non una territorialità : esiste
un disciplinare di produzione, esistono specifiche di prodotto, ma non esiste un areale
geografico di riferimento.
Ma la maggior parte dei prodotti agro-alimentari tradizionali sono quelli censiti in seguito
all’emanazione del D.M. n° 350 dell’ 08/09/1999, “Regolamento recante norme per
l'individuazione dei prodotti tradizionali di cui all'articolo 8, comma 1, del decreto legislativo
30 aprile 1998, n. 173”, pubblicato sulla G.U.R.I. n° 240 del 12/10/1999: sono tantissimi,
inseriti in appositi elenchi regionali soggetti periodicamente a verifica ed integrazione (siamo
alla IX revisione). Il requisito per essere riconosciuti come Prodotti Agroalimentari
Tradizionali è quello di essere « ottenuti con metodi di lavorazione, conservazione e
stagionatura consolidati nel tempo, omogenei per tutto il territorio interessato, secondo regole
tradizionali, per un periodo non inferiore ai venticinque anni ». Nel loro insieme rappresentano
un impareggiabile patrimonio storico, tecnologico e gastronomico, importante biglietto da
visita dell’agricoltura italiana di qualità : la regione più “ricca” è la Toscana, con 465
registrazioni; in Puglia i prodotti tradizionali sono 220 (D.D. MiPAAF 05/06/2009). Spesso si
tratta di produzioni con areali di consumo delimitati, ma che, tuttavia, rappresentano una fonte
importante di reddito familiare, oltre che la garanzia di un prezioso quanto delicato rapporto
economico con il territorio. I prodotti tradizionali sono prodotti di nicchia che racchiudono non
solo un alto valore gastronomico ma anche culturale. In genere stiamo parlando di prodotti di
eccellenza strettamente legati al luogo, alle tradizioni e alla specificità della zona territoriale di
produzione, per questo difficilmente assoggettabili agli schemi adottati a livello comunitario.
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Per quanto riguarda i produttori si tratta di tante piccole realtà caratterizzate da una bassa
produzione e da un sistema distributivo essenzialmente organizzato su tre canali:
- vendita diretta
- negozi locali, ristorazione locale, agriturismo
- negozi specializzati
1.2. Aspetti di mercato: punti di forza e di debolezza.
1
Le produzioni tipiche locali godono di vari punti di forza, in quanto, comparativamente ai
prodotti alimentari di massa, consentono di soddisfare meglio i requisiti di originalità e varietà
chiesti dal mondo del consumo, disponendo di aspetti di unicità e di differenziazione intrinseca di
gran lunga più rilevanti di quelli di origine più “industriale”. Si tratta, infatti, di prodotti che
permettono ai consumatori di uscire dai modelli di consumo omologanti della società
contemporanea, dando loro l’opportunità di affermarsi, di distinguersi ed, in certo modo, di
emanciparsi da comportamenti massificati ed anonimi. D’altra parte, le produzioni tipiche sono di
norma percepite dai consumatori come più naturali e rispettose dell’ecosistema in quanto associate
ad attività maggiormente artigianali ed a minore impatto ambientale di quelle “industriali”, oltre
che ricorrenti a materie prime e tecniche produttive più rispettose degli equilibri naturali in termini
di uso di additivi, conservanti, coloranti, ecc. Inoltre le produzioni tipiche locali del nostro Paese
sono anche considerate un veicolo ed un fattore di “italianità” e di “eccellenze nazionali” nei
mercati internazionali, ove l’offerta enogastronomica arricchisce il vasto ed articolato panorama di
prodotti identificati sotto il marchio “Made in Italy”, qualificandosi come prodotti di eccellenza
assai graditi ai consumatori ed agli acquirenti esteri (Pencarelli & Forlani, 2006). I mercati europei,
infatti, sono da sempre stati un punto di riferimento per le produzioni italiane di alta qualità, sia
per la sensibilità dei consumatori al gusto ed allo stile, sia per l’elevato potere di acquisto delle
famiglie. C’è una grande domanda di prodotti enogastronomici italiani di qualità, nel mondo,in
1
Il paragrafo 1.2 è parzialmente tratto da "Il marketing dei prodotti tipici nella prospettiva dell’economia delle esperienze" di
Pencarelli e Forlani, http://www.escp-eap.net/conferences/marketing/2006_cp/Materiali/Paper/It/Pencarelli_Forlani.pdf
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continua crescita. Questa domanda rappresenta una grande opportunità di esportare i prodotti
tipici e tradizionali ai mercati esteri.
Ma, accanto ai punti di forza, vi sono anche alcuni aspetti problematici che spesso limitano le
potenzialità di sviluppo e di affermazione sul mercato delle produzioni tipiche locali, e in
particolare:
- gran parte di esse sono ad elevata deperibilità e di difficile conservazione;
- il loro consumo assume senso, significati e sapori assai differenti e comunque più
appaganti e gratificanti se consumati direttamente nei luoghi di origine piuttosto che in contesti
lontani dai territori di provenienza;
- sono di norma realizzate in quantità relativamente modeste, capaci di soddisfare limitati
volumi di domanda.
- gli attori dell’offerta sono in prevalenza piccole e medie imprese caratterizzate da
limitatezza di risorse umane, tecniche, materiali e finanziarie e da modelli di governo incentrati
sulla figura dell’imprenditore con scarsa o nulla separazione tra proprietà e governo, approcci
intuitivi e non formalizzati alla strategia, orizzonti strategici di breve respiro e debolmente orientati
alla cooperazione ed alla crescita, scarso sviluppo delle funzioni aziendali e segnatamente di quella
di marketing (Marchini, 1995).
Queste difficoltà hanno portato la maggior parte delle piccole imprese delle province delle
regioni italiane ad “accontentarsi” di avere visibilità nel territorio di residenza, di creare azioni
di promozione e di valorizzazione di respiro locale, che non sempre porta risultati in termini di
profittabilità, vista la densità dei produttori sparsi nel territorio italiano. E’ opinione diffusa tra
gli economisti che per allargare le opportunità di sviluppo di questi prodotti si debba operare
energicamente con azioni d’immagine, di comunicazione e di commercializzazione rivolte a
valorizzare aree territoriali, produttori locali e prodotti tipici nel loro insieme. Il percorso
percorribile sembra essere quello di sviluppare forme di cooperazione interorganizzativa a livello
territoriale e concertare azioni collettive condivise e finalizzate in modo uniforme, anche per evitare
inutili dispersioni e duplicazioni di risorse, se non addirittura conflitti tra iniziative (Pencarelli &
14
Forlani, 2006). Tali forme consorziate di commercializzazione sono indispensabili per esistere in un
mercato globale : secondo Cianca (2009), “è il momento che le imprese del comparto agro-
alimentare e eno-gastronomico si rendano conto che l’arena competitiva interna ai confini
italiani non è piu profittevole, a causa dei pochi spazi rimasti dove collocare i propri prodotti.
Il compito delle imprese è quello di prendere coscienza del fatto che gli spazi dove collocare i
propri prodotti e aumentare i profitti sono all’estero”.
In generale, le forme consorziate di commercializzazione non possono prescindere dalla
realizzazione di un marchio: la presenza di un marchio che tutela i prodotti tipici di un territorio
garantisce in primo luogo, la riconoscibilità. Il marchio è, infatti, un simbolo che consente di
identificare il prodotto agli occhi del consumatore comunicandone, al contempo, le
caratteristiche qualitative; è di grande importanza per il consumatore poiché lo protegge dal
pericolo di confusione e dalla continua introduzione di nuovi prodotti sul mercato. E’ dunque il
principale presupposto per la valorizzazione di un prodotto che voglia inserirsi in un mercato
oltre i propri confini territoriali; è l’unico che garantisce un determinato livello qualitativo e che
identifica chiaramente il prodotto differenziandolo da tutti gli altri dello stesso genere. A volte
è solo una parola, ma che evoca emozioni, sapori, informazioni rispetto ad un prodotto
mescolato ad altri prodotti. E’ un simbolo che associa il prodotto ad una premessa di qualità,
genuinità e salubrità (Negro, 2003). Non va tuttavia trascurato il fatto che la realizzazione e/o
l’ottenimento di un marchio (nel caso sia comunitario), non presenta aspetti solo positivi legati
alla qualità, ma anche problemi organizzativi, amministrativi, economici. Quando si decide di
intraprendere un percorso per l’ottenimento del marchio comunitario, ad esempio, la prima
difficoltà che deve essere valutata riguarda l’iter di riconoscimento che, tra le altre cose,è
complesso, richiede molto tempo, costanza e forti motivazioni da parte del soggetto promotore.
Inoltre non bisogna dimenticare i costi diretti, indiretti e nascosti. Da un punto di vista
economico, inoltre, se si vuole che il marchio assuma una valenza di marketing, risulta di
fondamentale importanza affiancare ad esso un efficiente “organo d’azione” (ad esempio il
15
Consorzio) che si occupi attivamente dello sviluppo commerciale e promozionale del prodotto
a marchio, attivi sinergie e relazioni commerciali, sia costantemente impegnato verso la
comunicazione (Pantini,2009).