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1. Introduzione
1.1 La costruzione sociale del problema di policy in campo tecnologico
Buone poli tiche dipendono unicamente da buone basi di conoscenza, come sembra i ndicare il sempre
maggiore sos tegno attorno all’approccio delle evidence based policies di Pawson [2006]? Varie teorie
s’incaricano di complicare questo assunto, confutando il carattere di naturalità generalmente attribuito ai
dati tecnici. Come mette in risalto Ota de Leonardis [2009] nell’introduzione ad un numero speciale de
La Rivista delle Politiche Sociali dedicato al tema dell’interazione fra conoscenza, informazione e poli-
tica, il comune denominatore di tali approcci sta nel trovare fondamento nell’idea di una costruzione so-
ciale della conoscenza pubblica, secondo cui i dati tecnici, lungi dal rappresentare certezze date per
scontate, sarebbero costruiti attraverso un processo cognitivo e normativo di selezione, classificazione e
definizione di cosa deve essere considerato come dato e cosa no.
L’idea che siano l’interazione e gli accordi convenzionali fra gli attori ad istituire i criteri che stabili-
scono cosa sia pertinente e cosa no, quali linguaggi siano legitti mi e quali interdetti [Borghi e S ebastiani
2012, 6; Regonini 2010, 12], contribuisce a decostruire la pretesa oggettività dei dati tecnici, spingendo
piuttosto ad indagare i processi attraverso cui tali dati sono costruiti. Solo così facendo, sempre seguen-
do de Leonardis [2009], sarebbe possibile portare alla luce le componenti cognitive e normative ad essi
intrinseche, il loro essere fondati su processi di scelta, selezione e giustificazione. Insomma il loro carat-
tere politico già messo efficacemente in risalto da Fischer [1990] oltre vent’anni fa. Dietro lo stesso
“argomentative turn in policy analysis and planning”, come lo hanno denominato Fischer e Forester
[1993], starebbe infatti la presa di coscienza che «la pretesa di saper individuare ciò che è bene per una
società senza fare i conti con le idee degli individui che la compongono, anche quando queste sono con-
traddittorie, ha implicita una tendenza dispotica» [Regonini 2001, 196], e che, per dirla con Lindblom
[1990, 35], «la società deve cercare le buone politiche, o stabilire i fatti e trovare la “verità”, attraverso
la “competizione delle idee”, non attraverso l’abilità analitica di un re-filosofo o di un’analoga élite».
Deve insomma, rifacendosi ad autori come March e Olsen [1997] ed Elster [1998b, 9], tentare di giun-
gere ad un’approssimazione condivisa e pragmatica, piuttosto che pretendere di stabilire la verità in ma-
niera oggettiva.
Su queste basi vengono a convergere, ol tre alle prospetti ve sulla deliberazione (più o meno aderenti
all’idealtipo di Habermas), sul rischio (da M. Douglas fino a Beck), ed una parte dei science studies (in
primis le opere di Latour e Callon), una serie di filoni teorici, in particolare francesi, che da un lato si
rifanno alla tradizione durkheimiana sulla costruzione delle categorie e a Foucault, e dall’altra al concet-
to di conoscenza pubblica come practical inquiry di Dewey, mescolando cos tru tti vismo e pragmatis mo.
Tale letteratura studia i processi entro cui si costruisce la dimensione cognitiva dell’azione pubblica col-
lettiva in stretto rapporto con la dimensione normativa, conducendo un’analisi critica delle evidence ba-
sed policies, indagando i modi in cui sono costruite e giustificate, discutendone gli effetti di depoliticiz-
zazione, analizzando le basi informative degli strumenti di governo e interrogandosi su come i cittadini
destinatari delle politiche siano integrati nella definizione delle basi informative nei processi decisionali
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che li riguardano. Questo allo scopo di indagare il ruolo della costruzione di dati e indicatori
nell’alimentare o minacciare lo statu to democratico delle politiche attraverso l’inclusione o l’esclusione
dei destinatari dalle arene decisionali [de Leonardis 2009].
Secondo l’“approccio della giustificazione” di Boltanski e Thévenot [2006], primo di questi filoni,
nello studio delle politiche in ambito scientifico sarebbe inutile rifarsi ad una scienza ingenuamente og-
gettivistica o a vuote teorie della comunicazione razionale, mentre ci sarebbe bisogno di una riflessione
sulle relazioni sociali sottese, e sui modi in cui vengono fornite le giustificazioni alle questioni dibattute
nel policy-making. Gli autori chiamano “regimi di giustificazione” questi modi, per riferirsi alla costru-
zione dei significati dati alle proprie pratiche da parte degli attori che competono nello spazio pubblico.
In condizioni di modernità politica, secondo Boltanski e Thévenot [ib i d em] le regole della vita politica
sarebbero riconducibili a dinamiche conflittuali, in cui l’azione è messa alla prova e costretta ad essere
giustificata, cioè a fare riferimento a criteri di giustizia ampiamente riconosciuti, ricorrendo al piano del-
le categori e per trovare dei punti di appoggio normativo a sostegno delle proprie azi oni e risalire i n ge-
neralità (tesi sostenuta anche da un teorico della deliberazione come Elster [1998b]). Da qui la centralità
dei compromessi fra le giustificazioni dei vari attori e dunque la natura convenzi onale attribuita ai pro-
blemi, dal momento che i diversi tipi di giustificazioni presenti in un discorso pubblico determinerebbe-
ro le differenti forme di coordinamento che rendono possibile l’azione collettiva, e quindi il risultato
dell’interazione decisionale.
Di queste ultime considerazi oni si occupa l’approccio delle convenzi oni , al tro filone secondo il quale
dati e indicatori avrebbero natura convenzionale, essendo costruiti socialmente entro processi di defini-
zione e classificazione tramite accordi di varia natura
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. Come tali categorie e indicatori sono costruiti,
chi è coinvolto in questa decisione, quali criteri normativi sono sottesi alle scelte e con quali grammati-
che di giustificazione sono tu tti processi materia di conflitto e compromesso, a cui partecipa una plurali-
tà di attori portatori di frames cognitivi, ancor prima che di interessi, differenti e in contrasto fra loro [de
Leonardis 2009]. Da qui la denominazione di “politica degli indicatori” con cui Salais [2006] descrive
tali processi politici, nei quali l’expertise tecnico-scientifica da un lato partecipa come componente do-
minante alla definizione degli obiettivi, mentre dall’altro rappresenta essa stessa la posta in gioco, la
“politica dell’expertise” [Fischer 1990], la “politica dei criteri” [Fischer e Forester 1987].
Il grado di democrazia di tali processi dipenderebbe essenzialmente da due fattori. Da un lato
dall’eventualità che i dati vengano naturalizzati e chiusi nella c.d. black box [Latour 1989], o che vice-
versa mantengano visibili i compromessi da cui sono scaturiti lasciando aperta la possibilità di essere
rimessi pubblicamente i n discussione. E soprattu tto dal fatto che venga riconosciuto un ruol o atti vo alla
voice dei destinatari delle politiche, non semplicemente sulle scelte che li coinvolgono, ma anche sulla
definizione delle basi informative a tali scelte sottese [Castelfranchi e Sturloni 2006]. Secondo Hess e
Ostrom [2009b] la conoscenza va concepita come bene comune, la cui democratizzazione si sviluppa
nel passaggio dalla semplice fruizione all’attiva produzione di conoscenza, “conoscenza pubblica” per
dirla con S alais [2006], che val orizzi il sapere non specialistico dei destinatari. Qui sta un incontro con
la teoria deliberativa, in quanto non si tratta di semplice accesso alle informazioni o consenso informato,
e neppure di consultazione, ma di un vero riconosci mento del sapere pratico dei destinatari come fonte
competente (e pertinente) di informazione per realizzare buone policies. La bontà delle politiche si mi-
surerebbe allora non sulla presunta oggettività naturalizzata dei dati, ma sull’oggettività che deriva dalla
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Per un manifesto e una ricognizione di questo approccio, si vedano: Eymard-Duvernay, Favereau, Orléan, Salais
e Thévenot [2005]; Borghi e Vitale [2007].
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democraticità nella costruzione dei dati stessi [Sclavi 2003]. Ossia sulla partecipazione paritaria dei cit-
tadini, che andrebbero coinvolti (non semplicemente perchè stakeholders, portatori di interessi, ma in
quanto portatori di conoscenze), a processi deliberativi in cui si costruisce pubblicamente
un’“oggettività di giudizio” comune, non fondata su dati oggettivi ma aperta a revisioni e conflitti (deli-
berative social inquiry) [Fisch er 20 03, 2 18; Lanz ara 20 05 ].
1.2 Obiettivi e struttura della ricerca
Lo s tudio delle basi informati ve delle poli tiche tecnol ogiche che vengono considerate rilevanti ai fi ni
dell’azione, o che vengono al contrario considerate non rilevanti, diventa dunque fondamentale [Pado-
van 2011, 15]. Il progetto intende indagare, sulla base di questo quadro interpretativo, come la struttura-
zione delle arene decisionali, e nello speci fico l’apertura a soggetti portatori di saperi non speci alistici,
possa influire sulla definizione del problema di policy, nel caso politiche tecno-scientifiche altamente
conflittuali come quelle ambientali. A questo scopo si mettono a comparazione due casi relativi ai fe-
nomeni che si rivelano spesso come i più complessi anche fra i conflitti ambientali, vale a dire quelli di
pianificazione e localizzazione di grandi infrastrutture particolarmente impattanti sul territorio quali le
tratte ferroviarie ad alta velocità. La scelta è ricaduta sui due casi nazionali, italiano e francese, della
progettata linea transfrontaliera Torino-Lione, per gli spunti che essi offrono in termini di rapporto fra
saperi, repertori d’azione collettiva, struttura delle arene decisionali, e nel tentativo di fornire una pro-
spettiva il più possibile originale e completa su un fenomeno sempre più studiato da diverse angolature,
ma su cui non esistono risultati univoci.
Più in generale gli obiettivi della ricerca sono legati alla relazione fra saperi e frames diversi che si
intrecciano nel processo decisionale, all’organizzazione e al coordinamento dei diversi attori, alle corni-
ci cognitive con cui questo processo si costruisce, prende forma e genera significati e senso. Processo
che può essere considerato alla s tregua di uno spazio in cui si prendono decisioni su beni comuni, deci-
sioni cioè relative a domande concernenti quali risorse utilizzare e quali no, quali informazioni e criteri
diventano rilevanti per scegliere e chi li dovrebbe fornire [Jasanoff 1987], in un’arena che comprende
una varietà di voci che concorrono a costruire la scelta: non solo quella degli esperti, ma anche quella
dei diretti interessati e di altri attori. La ricerca vorrebbe verificare se la formazione delle cornici cogni-
tive degli attori sia influenzata dalle pratiche agite all’interno dell’arena decisionale, più ancora che dal-
la collocazione sociale pregressa degli attori stessi. L’approccio che si vorrebbe utilizzare intenderebbe
dunque dare priorità epistemologica all’azione situata degli attori, piuttosto che agli attori che agiscono
sulla base delle loro caratteristiche. Ciò significa definire come gli attori che partecipano al processo ve-
dono e costruiscono la situazione, cercando di capire interpretazioni e significati attribuiti al processo
stesso nel mentre che lo si agisce, processo inteso come azione collettiva basata su pratiche di creazione
di senso e di significati condivisi cui prendono parte diversi attori.
Le decisioni possono così essere considerate come processi interazionali, in cui dimensioni cogniti-
ve, prescri tti ve e simboliche degli attori si incontrano al fine di individuare un corso d’azione piu ttos to
che un altro. Per capire come avvenga tale processo, e quali cornici cognitive guidano l’azione e la giu-
stificano, è necessario ricostruire la scena decisionale, capire quali siano gli attori che vi prendono parte,
con che ruolo e potere, e quali pratiche guidano e modellano l’azione nel suo svolgersi. A questo scopo
di utilizza un framework analitico complesso, che dopo aver pagato il giusto tributo alla storia e alle isti-
tuzioni che delimitano il contesto situato dell’azione, prenda però in considerazione la componente co-
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gnitiva come mediazione indispensabile per comprendere il passaggio dal contesto decisionale alle a-
zioni degli attori .
La prima parte intende inquadrare la questione da un punto di vista teorico analitico. Il capitolo 2
fornisce il quadro teorico entro cui si articola la ricerca, ripercorrendo i possibili contributi che le varie
discipline e i vari approcci danno alla comprensione di fenomeni complessi come i conflitti ambientali e
territoriali, in cui si intersecano una serie di questioni di tipo sociale, politico e tecnico-scientifico. Il ca-
pitolo 3 intende fornire un quadro di riferimento per le analisi dei capitoli successivi sui processi deci-
sionali dei due casi d’indagine, ripercorrendo le tipologie di attori e di arene allargate rintracciate in let-
teratura e ritenute utili ai fini dell’analisi, adattandole e riconfigurandole in alcuni casi per adattarle ai
fini specifici della ricerca.
La seconda parte fornisce le chiarificazioni metodologiche e di contesto su cui si basa la ricerca. Il
capitolo 4 esplicita il quesito di ricerca, il disegno della stessa, la metodologia e le tecniche utilizzate,
l’esplicitazione del framework analitico e una chiarificazione delle scelte che indirizzano l’indagine. Il
capi tol o 5 ri percorre, in una narrazi one densa di interpretazi oni, la cronol ogia degli eventi riguardanti il
caso italiano, indispensabile per mettere a fuoco le questioni ed i passaggi di un caso davvero molto
complesso sotto tutti punti di vista.
La terza e la quarta parte cos ti tuiscono la fase relati va all’analisi dei due casi, rispettivamente i talia-
no e francese, presi nella loro individualità, con riferimento ai primi due campi d’indagine del frame-
work analitico utilizzato. In particolare i capitoli 6 e 8 sono dedicati allo studio degli attori e delle arene
riscontrabili nei due casi, e dei giudizi degli attori stessi nei confronti del processo decisionale attorno a
cui si muovono, dall’interno o dall’esterno. I capi toli 7 e 9 sono invece dedicati allo studio dei frames e
delle grammatiche di giustificazione rintracciate nei discorsi degli attori coinvolti nei due casi.
La quarta parte è dedicata alla comparazione fra i due casi d’indagine. Il capitolo 10 è dedicato allo
studio comparato dell’ultimo campo del framework utilizzato, vale a dire quello dei repertori d’azione
collettiva. Il capitolo 11 fornisce invece una panoramica comparativa, anzitu tto sulla problematizzazio-
ne del processo decisionale che rappresenta l’explanans della ricerca, e secondariamente su quelle che si
sono i ndividuate come le questioni più importanti, e che saranno u tilizzate nella parte finale quali possi-
bili condizioni esplicative di controllo rispetto all’ipotesi in iniziale. Fra queste la generalità dei riferi-
menti cognitivi e delle azioni utilizzate, la fiducia sociale nei confronti delle istituzioni, e soprattutto l’u-
tilizzo di argomentazioni relative al sapere tecnico-scientifico o profano, all’interno del processo di po-
licy-making così come fra gli attori della società civile.
L’ultima parte intende tirare le somme dell’analisi svolta, tentando di dare una strutturazione alle
questioni più importanti e di arrivare ad un’esplicitazione dei meccanismi causali e una classificazione
degli attori sulla base delle dimensioni ritenute rilevanti rispetto al quesito di ricerca, tirando infine le
fila del discorso.
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PARTE I
CONFLITTI AMBIENTALI
E ARENE DECISIONALI
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2. I conflitti ambientali tra scienza e politica
2.1 Le dimensioni del conflitto ambientale e territoriale
2.1.1 Expertise, prot esta, coinvolgiment o
Una delle questioni attualmente più dibattute, nel discorso scientifico quanto in quello politico, è
quella dei cosiddetti movimenti NIMBY (Not-in-my-backyard), gruppi locali creati e tenuti insieme
dall’opposizione a scelte percepite come una minaccia per la qualità della vita locale, specie in campo
infrastrutturale. Tale fenomeno è spesso visto come un conflitto avente le sue radici nel localismo egoi-
stico delle popolazi oni interessate [Andretta 2004], ma a parere di mol ti studiosi [Bobbio 1999; 2002c;
2004c; Trom 1999; Latour 1999] ciò non sarebbe che la metà della questione, considerando che il
“ Nimbysmo” più che essere una sindrome, sarebbe solo la conseguenza della vera patologia: il modello
DAD (decisione-annuncio-difesa) di policy-making [Susskind 1985]. In un tale modello, il potere cen-
trale compie le sue scelte in completo isolamento rispetto alla società civile, e solo a questo punto an-
nuncia tali scelte al pubblico. Così facendo, queste ultime possono eventualmente, anche in caso di pro-
teste, soltanto essere difese, senza alcuna possibilità di cambiamento o al limite con parziali aggiusta-
menti sul “come”, lasciando in un’area di indiscutibilità sia il “dove” sia il “se” [della Porta e Piazza
2008, 103]. I s osteni tori della democrazia parteci pativa, del co nsensus buil din g e dell’Alternative Dispu-
te Resolution suggeriscono invece che potrebbe essere meglio non fidarsi troppo ciecamente della co-
strizione legale e dell’affidabilità tecnica, seguendo il principio del “non svegliare il can che dorme”
riferito alle comunità locali, ma al contrario coinvolgere tu tti i potenziali stakeholders e prendere i n con-
siderazione le proteste prima che sia troppo tardi, evitando di farle scoppiare ad opere già iniziate [Bob-
bio e Zeppetella 1999]. L’idea sottostante si basa sull’ipotesi che non sarebbe più possibile creare
outcomes per un gruppo (specie se negativi) senza allo stesso tempo riconoscere il diritto di tale gruppo
di esprimere il suo punto di vista, secondo il principio guida “nessun impatto senza rappresentanza”
[Bobbio 2002b]. L’approcci o top-down, questa è l’ipotesi, sarebbe certamente in grado di produrre deci-
sioni tecnicamente fondate in tempi brevi, ma, essendo basato sulla forma “prendere o lasciare”, potreb-
be rivelarsi troppo poco flessibile in caso di opposizioni.
L’approccio inclusivo, viceversa, è immaginato come l’unico modo per risolvere le proteste prima
che queste scoppino, perdendo sicuramente più tempo nella fase iniziale, ma evitando situazioni di stallo
ad implementazione già avviata. Da una comunicazione corretta che eviti l’imposizione potrebbe avere
origine, in caso si venga a formare un adeguato setting deliberativo, un comportamento più collaborati-
vo da parte dei destinatari delle poli tiche [Elster 1998c]. Bobbio [2004a, 128-132] sos tiene peral tro che
sia da rigettare l’idea che un processo di scelta in cui molti mettono mano comporti necessariamente
politiche peggiori, con il rischio di cattivi compromessi, allungamento dei tempi, stallo decisionale o
accordi spartitori. Anzi, l’allargamento dell’arena dei decisori porterebbe, in molti casi, a politiche mi-
gliori sotto l’aspetto sia dell’efficacia, sia addirittura dell’efficienza [Giannetti e Lewanski 2006], oltre
che di una più scontata maggiore equità. Sotto quest’ultimo aspetto, è assai probabile che i risultati rag-
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giunti saranno percepiti come equi da tutti i partecipanti, se a questi è permesso l’accesso alle arene in
condizioni di parità, ma anche dal lato dell’efficacia si registrerebbe un innalzamento nella qualità della
progettazione attraverso la tenuta in debito conto delle istanze territoriali all’interno delle previsioni di
trasformazione. Più controverso il caso dell’efficacia, dal momento che allargare le arene decisionali
prevede di per sé risorse aggiuntive in termini sia di costi (a partire dai costi di transazione) che di tem-
pi. Farlo tuttavia permetterebbe spesso, come già anticipato, di abbattere costi e tempi non previsti. Se
c’è qualcosa che può insegnare la vicenda del Tav in Val Susa, anche più di altri conflitti ambientali, è
proprio che decisioni non condivise anticipatamente corrono il rischio, una volta formulate, di andare
incontro a difficoltà talmente forti da dover essere fermate, modificate o abbandonate nonos tante i costi
già sostenuti per prendere la decisione. In questi casi, come si vedrà nel caso dell’Osservatorio istituito
dopo gli scontri del 2005, tempi e cos ti si dilatano in modo i ncontrollabile, per la difficoltà a riprendere
il cammino dopo che una scelta già adottata si riveli impraticabile per qualche ragione, fra cui spicca la
stessa conflittualità locale. È peraltro assai raro che il coinvolgimento venga concesso in seguito alle
mobilitazioni locali e quale cornice per la risoluzione di conflitti già in atto [Sebastiani 2006; Mori
2006a, 3], se non in casi particolari e comunque, visti gli animi ormai esacerbati, con scarsi risultati
[Pomatto e Ravazzi 2011]. Se tutti gli stakeholders vengono invece coinvolti, e nel caso (affatto sconta-
to) in cui questi riescano ad arrivare ad un compromesso, nessuno di loro avrebbe interesse a mettere in
discussione una soluzione raggiunta col loro consenso, dal momento che chi ha sottoscritto un accordo
dovrebbe essere indotto ad una maggiore responsabilità [Pellizzoni 2003]. Oltre a questi possibili van-
taggi in termini di bontà delle scelte, comunque, il coinvolgimento si presenterebbe come un bene in sé,
quale mezzo per ovviare al deficit democratico nelle scelte di realizzazione e localizzazione infrastru ttu-
rale [Brusati n 2011; Rui 2001; Lewanski 2007; Caruso 2006b; Bobbio 1999].
La principale ragione che spingerebbe un governo a condividere scelte che gli spetterebbero di diritto
sarebbe, secondo Bobbio [2004a, 16], il fatto che altri soggetti siano in possesso di risorse di cui il go-
verno necessita al fine di raggiungere i propri obietti vi. Il consenso occupa ovviamente un pos to s pecia-
le fra tali risorse, e quindi un campo privilegiato di applicazione delle pratiche inclusive può essere
l’esistenza di forti conflitti, attuali ma soprattutto potenziali. Ciò sarebbe vero in particolare per quanto
riguarda un fenomeno in costante crescita quale i conflitti ambientali, in cui la spinta alla mobilitazione
da parte dei cittadini è più elevata data la percezione di rischio che si ritiene insita nelle politiche in
campo scientifico-tecnol ogico. Tali poli tiche possiedono tuttavia un’al tra peculiari tà: il loro essere fon-
date su basi scientifiche formulate in maniera che si suppone oggetti va da saperi esperti. In questo caso
non sussisterebbe quindi la necessità di rivolgersi al pubblico come avviene in altri campi, ad esempio
quello urbano, dove la risorsa mancante all’amministrazione è la conoscenza, diretta per quanto non
specialistica, che gli abitanti hanno del proprio territorio [Balletti 2007b]. Qui, infatti, il sapere tecnico
si ritiene auto-legittimato dall’essere fondato su solide basi scientifiche.
Dire che un progetto è tecnico sarebbe però, spesso, solo un modo per metterlo al riparo dalla discus-
sione. Al contrario, riconoscere la sua dimensione sociale comporta ammettere la possibilità che esso
venga discusso entro arene politiche più o meno allargate. È in questo panorama che si possono inter-
pretare alcuni fattori quali la richiesta di maggior partecipazione al dibattito e alla presa di decisione da
parte di numerose associazioni di cittadini, la discussione di temi quali “democrazia ecologica” [Ungaro
2006; 2001b], “democrazia tecnologica”e “forum ibridi” [Callon, Lascoumes e Barthe 2009], ed il tenta-
tivo da parte delle istituzioni pubbliche di implementare nuove procedure dirette verso una maggiore
partecipazione del pubblico al dibattito sulle tecno-scienze (proliferazione del sociale). Secondo Beck
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[2000, 256-257] nella prima modernità si assumeva che politica e scienza fossero monopolizzabili e
delimitabili all’interno di istituzioni appositamente progettate: il sistema politico e il sistema scientifico,
quest’ultimo delegato ai soli scienziati e dunque considerato non-politica. In particolare, sotto la coper-
tura del progresso, scienza ed economia sarebbero state sottratte alla legittimazione politica e rese im-
muni alla critica, così che buona parte delle competenze decisionali che strutturano la società sarebbe
sottratta alle regole democratiche e delegata alla libertà di investimento e ricerca. L’avvento della mo-
dernizzazione riflessiva condurrebbe però all’abbattimento dei confini dei due sistemi, dato che i mono-
poli della conoscenza e dell’azione poli tica si sono differenziati, all ontanati dai luoghi prescritti e dive-
nuti generalmente disponibili. All’interno di questi spazi di discussione, di questi “forum ibridi”, i par-
tecipanti ricoprono un duplice ruolo: da un lato, in quanto cittadini, chiedono di poter occupare una po-
sizione sempre più attiva, di poter allargare il collettivo decisionale tradizionalmente costituito dai rap-
presentanti eletti e di affiancare quindi ai meccanismi della democrazia rappresentativa istanze di demo-
crazia partecipativa o deliberativa [Lenzi 2004]. Dall’altro, in quanto profani, sono portatori di una co-
noscenza, benché non esperta, che metterebbe in crisi il carattere naturalizzato delle basi informative, a
sua volta rappresentazione solo di un frame particolare, quello economicistico dell’analisi costi-benefici.
Con la profanazione del loro campo d’azione da parte dei saperi non specialistici [Agamben 2005],
scienza e tecnica vengono pertanto trascinate nella disputa, invece di contribuire a risolvere i conflitti
nati su temi che in precedenza sarebbero stati di loro indiscutibile appannaggio. Diventa oggetto di con-
testazione quindi anche il tradizionale rapporto fra politica ed esperti, o meglio la contrapposizione fra
la politica dei valori e degli interessi e la “politica dei fatti”, capace di compiere scelte efficienti in base
a dati non controversi [Pellizzoni 2011b; 2011c]. Viene così rimessa in dubbio l’autorità degli esperti e
l’idea che esista un sapere neutrale, grazie al quale la scienza dovrebbe dire al potere “come stanno le
cose” [Pellizzoni 2011d]. Attraverso il coinvolgimento dei saperi non specialis tici dei cittadini sarebbe
allora possibile invertire, o quantomeno rendere manifesta, la tendenza a depoliticizzare le basi informa-
tive delle scelte pubbliche, intese come meri dati tecnici che tanto più valgono quanto più pretendono di
fondarsi su evidenze scientifiche. In questo modo si lasciano in una black box i processi di creazione
delle convenzioni cogni tive che stanno dietro tali dati, i quali a loro vol ta rispondono a preferenze nor-
mative. Classificazioni e indicatori costruiscono quindi la propria realtà, proprio nel momento in cui si
tenta di nascondere la loro convenzionalità dietro la scientificità dei dati, non più riconoscibili per le
scelte poli tiche che in real tà sono [Desrosieres 2002; Bonvi n e Rosens tein 2009; Borraz 2009]. Ciò av-
verrebbe in particolare attraverso l’enfasi posta su quantificazione e misurabilità dei problemi, che da un
lato fornirebbe ai policy-makers gli argomenti giustificativi e legittimanti dell’oggettività scientifica,
nascondendo però dall’altro lato la selezione dei problemi, dei dati considerati rilevanti e dei criteri
normativi che guidano tali scelte. Insomma diffondendo una visione data per scontata e sottraendola in
questo modo al discorso pubblico democratico.
Alla base di tale divergenza circa il ruolo delle basi informative nel policy-making vi sono i due prin-
cipali modelli interpretativi del rapporto tra scienza e società. Il deficit model proposto da Davison,
Barns e Schibeci [1997] punta l’indice contro l’ignoranza, affermando che i profani non conoscono né
comprendono la scienza, e pertanto la temono e ne diffidano. L’assunto del modello è che una migliore
informazione conduce a una maggiore comprensione, che a sua volta porta al sostegno della scienza e
all’accettazione dell’innovazione tecnologica. Alla base vi è una concezione di comunicazione scientifi-
ca di tipo diffusionista, in cui il pubblico è considerato come una sorta di recipiente (passivo, disinfor-
mato e superstizioso) dell’“istruzione pubblica” proveniente dal sapere razionale. In direzione opposta si
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sviluppa il modello interattivo o democratico fatto proprio da Cloître e Shinn [1985] in cui emerge il
problema della rilevanza diretta della scienza nelle preoccupazioni quotidiane: mentre da un lato le af-
fermazioni degli esperti riflettono una particolare visione della realtà, dall’altro lato il profano appare
come un soggetto attivo, e capace di elaborare in modo critico e in qualche caso influenzare l’operato
dello scienziato. Il modello partecipativo, tuttavia, mira a superare anche questa seconda visione, pun-
tando non solo alla consultazione, ma ad una vera e propria co-produzione della conoscenza ottenuta in
modo democratico, ad una scienza “post-normale” [Bucchi 2008; 2002].
2.1.2 I conflitti territoriali fra interessi ed idee
La letteratura sociologica sui conflitti può essere suddivisa in due grandi famiglie, a seconda che
l’interrogativo principale sia rappresentato dalle cause del conflitto o al contrario dalla sua dinamica, in
termini relazionali e processuali [Edelman 2001, 288-291; Vitale 2005a, 2-3]. Nel primo caso gli attori
inquadrerebbero la disputa a partire da interessi contrastanti fondati su posizioni inconciliabili nei valori,
e nel corso del conflitto non accadrebbe nulla di diverso da quanto era previsto dovesse succedere. Si
negherebbe però in questo modo il ruolo costituente e qualsiasi autonoma funzione propulsiva alle di-
namiche di conflitto in termini di cambiamento sociale. Ciò che conta sembra essere solo ciò che viene
prima, «appiccicando agli attori sociali un’identità culturale, o stabilendo per gli agenti una posizione
nello spazio sociale: tutto dipenderebbe dalle relazioni che precedono il conflitto e nulla di imprevisto
potrebbe accadere in esso. In questo senso, questa letteratura sospende le proprietà di incertezza
dell’azione nella dinamica del conflitto e considera che tanto gli attori quanto i loro motivi siano dati»
[Dal Lago 2005, 13]. Considerando come date ed oggettive le posizione degli attori, peraltro, tale visio-
ne non offrirebbe spiegazioni all’intrattabilità delle controversie, né tantomeno suggerimenti per la loro
risoluzione [Schön e Rein 1994, 10]. Nel secondo approccio, il conflitto è concettualizzato all’opposto
quale processo generativo, valorizzandone la dimensione processuale seguendo la lezione di Simmel
secondo cui, per comprendere gli esiti di un conflitto, bisognerebbe guardare più alla sua dinamica che
non alle condizioni da cui sorge.
La differenza rispetto al primo approccio consiste sostanzialmente nell’inquadrare i conflitti come
scontro non sol o e non tanto fra interessi, ma fra idee, interpretazioni, rappresentazi oni , concetti e argo-
menti [Hajer 1996, 247; Majone 1989, 2; Beck 1996, 36], o meglio fra preferenze non date e stabili in
termini posizionali, bensì apprese processualmente [March 1998] ed inquadrate cognitivamente nel cor-
so del conflitto [Donati 1992; Benford e Snow 2000]. Ciò non significa negare importanza agli interessi
[Thévenot 1996], ma notare la loro interrelazi one con le interpretazi oni degli interessi stessi, per cui se
gli interessi danno sicuramente forma al quadro definitorio degli attori, è anche vero che il secondo dà
forma ai primi, in un’influenza vicendevole e non deterministica [Schön e Rein 1994, 29], in cui non
solo gli interessi, ma la stessa identità si formerebbe nel corso del processo [Brubaker e Cooper 2000, 6-
7; Hunt, Benford e S now 1994; S now e McAdam 2000] retroagendo poi sul processo stesso [Ghiraldini
2009]. Il che comporta anche l’abbandono del pregiudizio economicistico secondo cui dietro ad ogni
disputa sarebbe all’opera unicamente la razionalità strumentale, la difesa del proprio interesse [Schön e
Rein 1994, 37-38], del proprio giardino per dirla nell’ottica dell’etichettamento Nimby [Cefaï 1996;
Cefaï e T rom 2001; Roccato, Rovere e Bo 2008].
Le controversie sono inevitabili in una società democratica [March e Olsen 1997; Hibbing e Theiss-
Morse 2002; Segatti 2008], e attingendo al secondo approccio ricordato sopra si può notare come esse
11
siano spesso produttive
1
, portando ad un approfondimento di questioni di policy altrimenti date per
scontate [Schön e Rein 1994, 8]. I conflitti sarebbero ineliminabili e produttivi anche in ambito scienti-
fico [Kuhn 1969], quale mezzo per giungere ad una democratizzazione tanto del sapere quanto della
stessa democrazia [Lascoumes 1999; Latour 2004]. In questo caso la funzi one decostruttiva verso il dato
per scontato è tanto più evidente, con le controversie a riportare alla ribalta forme di razionalità che la
storia della scienza non ha ritenu to pertinenti, ma che potrebbero invece fornire utili strumenti di conta-
minazione e apprendimento riflessivo in un momento storico caratterizzato dalla crisi delle certezze
[Nowotny, Scott e Gibbons 2001; Pellizzoni 2004; 2005c; Sancassiani 2004; Pantaleo 2005]. I nuovi
tipi di conflitto, non direttamente attinenti alla sfera economica e politica, sarebbero in questa prospetti-
va utili strumenti di institution building [Bifulco 2005b], portando al rinnovamento tanto di politica ed
economia quanto della scienza, e al loro intersecarsi con la quotidianità e le pratiche sociali. Tali con-
troversie socio-tecniche, che gravitano solitamente attorno a questioni ambientali e alla scala locale,
porterebbero infatti alla “proliferazione del sociale” attraverso l’interazione anche conflittuale fra deten-
tori del potere politico, detentori del sapere scientifico e “ profani”, che avrebbe a sua volta ripercussioni
sull’elaborazione cognitiva collettiva dei problemi di policy. Configurando conseguenze pienamente
politiche [Callon, Lascoumes e Barthe 2009], oltre che rappresentare un’opportunità di empower ment
per le comunità locali
2
[Fedi, Rovere e Lana 2008; Bonvi n e R osens tein 2009].
La commisti one fra confli tto poli tico e controversie socio-tecniche trova la massima espressione nei
sempre più diffusi conflitti territoriali, specie in ambito ambientale [Pellizzoni 2011a; Ambiente Italia
2007; Faggi e Turco 2002]. Nella visione di chi si oppone, l o scontro fra grandi progetti e reazioni locali
[Dematteis e Governa 2001; B obbio e Dansero 2008; Trannoy 2007; Fourniau 1999] è legata alla retori-
ca della resistenza del Davide locale all’arroganza del Golia dei poteri forti [Borelli 1999], mentre
nell’ottica dei promotori chi si oppone lo fa solo in quanto spinto da egoismo conservatore. La disputa
in questi casi sembra ancor più accesa nel caso in cui verta su politiche di localizzazione infrastrutturale,
come nel caso delle linee ferroviarie ad alta velocità di cui si occupa la presente ricerca, dal momento
queste presuppongono interventi irreversibili [Dente 2008; Balducci e Tessitore 1999; Klein 1999], per i
quali non può pertanto essere valida la regola di democrazia sostanziale secondo cui nessuna questione
dovrebbe essere chiusa una volta per tutte [Borghi e Sebastiani 2012, 12]. Indipendentemente dalla dife-
sa di interessi privati, sarebbe la stessa percezione nei confronti delle infrastru tture ad essere cambiata.
1
Per una concezione sicuramente positiva sulle facoltà migliorative del conf litto, ma insieme più critica, si veda
Hirschman [1994, 141; 1982; 1983] (cfr. Vitale [2003, introduzione]).
2
Sul concetto di empowerment nelle sue varie accezioni cfr. Bifulco, de Leonardis e Donolo [2001]; Behrouzi
[2005]; Pimbert e Wakeford [2001]; Floridia [2006]. Come il capitale sociale, si connota insieme quale processo e
prodotto, intrinsecamente relazionale, risultato di un’evoluzione di esperienze di apprendimento che portano un
soggetto individuale o collettivo a superare una condizione di impotenza. Si configura come “ saper fare” caratte-
rizzato da una condizione di fiducia, capacità di sperimentare e di confrontarsi attivamente con gli altri. Empo-
werment significa dunque rafforzamento del potere di scelta, miglioramento di competenze e conoscenze in
un’ottica di emancipazione politica [Pieroni 2005, 25]. Si può leggere sia a livello micro, come rafforzamento di
potenzialità individuali, sia a livello meso, come aumento di potenzialità d’azione delle associazioni, sia a livello
macro, come autodet erminazione della comunità locale rispetto a costrizioni esogene e strutturali. A livello comu-
nitario si veda la definizione di Maggio e Selicato [2006, 12]: «Questo community empowerment [...] contribuisce
a f orgiare cittadini migliori, più attivi e abili a rif lettere sui loro problemi, con un più f orte senso di responsabilità,
capaci di produrre decisioni più stabili e legittimate, di migliorare la qualità dei processi di decision-making e di
facilitare l’apprendimento. Inf ine, esso può avere effetti positivi anche sul piano istituzionale, rendendo le istitu-
zioni più permeabili all’influenza della società civile». L’attivazione dei cittadini sarebbe dunque legata al loro
coinvolgimento in un decision-making che, integrando un numero sempre maggiore di attori, diviene allargato e
relazionale, con la creazione di una rete di soggetti depositari del potere decisionale condiviso. La nozione di em -
powerment, seppur raramente richiamata in questi termini, sarà importante nell’analisi del “ laboratorio valsusino”.
12
Per decenni la realizzazione di un’autostrada come la localizzazione di un polo industriale o di una centrale elettri-
ca veniva immediatamente associata ad un idea positiva di sviluppo. Oggi non è più così, o almeno non è scontato
che accada ovunque. Perché è cambiato il rapporto che le comunità hanno con il proprio territorio e la difesa
dell’identità e qualità diventa un fattore che unisce nella dif esa da trasf ormazioni che potrebbero modif icarle [...]
Allora all’ingegneria veniva demandato il compito di costruire un segno tangibile della presenza infrastrutturale,
nella consapevolezza del grande ruolo simbolico e formale. Mentre oggi a ponti, viadotti, svincoli, tangenziali è
associata un immagine il più delle volte negativa, di congestione e inquinamento, oltre che detrattiva di contesti
urbani e paesaggi. In qualche modo l’idea di infrastrutture che allora si associava con un’idea di sviluppo quantita-
tivo e infinito non vale più perché deve fare i conti con i limiti di un territorio prof ondamente trasformato [Zanchi-
ni 2007, 1].
Tornando alla divisione di massima in cui viene suddivisa la letteratura relativa ai conflitti, secondo
una visione strettamente legata agli interessi materiali situazioni di questo tipo vengono solitamente
etichettate come “sindrome Nimby”, che indica
il rifiuto di localizzazioni indesiderate da parte di popolazioni locali, mosse da preoccupazioni prevalentemente
egoistiche relative al rischio percepito di perdita di uno status, della caduta di valori immobiliari del territorio inte-
ressato, o di pericolosità dell’opera per la salute e la qualità della vita. In quest’ottica, i comitati di cittadini impe-
gnati in azioni di questo tipo sono stati def initi come la perfetta illustrazione del comportamento da free-rider, cioè
del rif iuto di pagare i costi necessari al raggiungimento di beni collettivi, e l’atteggiamento dei loro attivisti viene
descritto nei termini della mobilitazione di individui razionalmente egoisti che sul modello dell’homo oeconomi-
cus agiscono in base ad un calcolo dei costi e benefici personali [Caruso 2006a].
Secondo tale concezione il conflitto contrappone la ragione pubblica all’interesse privato [Rawls
1997], coloro che sos tengono di rispondere a bisogni collettivi di sviluppo economico (i buoni e i lun-
gimiranti) a coloro i quali, opponendovisi, sembrano essere guidati solo da egoistici interessi locali
(Nimby) [Padovan 2011, 8]. Per una visione i ngenua di questo ti po, tu tto sarebbe riconducibile ad inte-
ressi economici, alla concentrazione dei costi sociali su un territorio ristretto a fronte di benefici diffusi
[Bobbio 1994; 2002c], e il conflitto facilmente sanabile attraverso la previsione di compensazioni mate-
riali [Maffii e Paroli n 2011]. S econdo Lafaye e Thévenot [1993, 511-512], tu ttavi a, le comuni tà locali è
proprio questo che contesterebbero, vale a dire la visione del territorio come merce, ridotto a questione
tecnica ed economica come nell’analisi classica di Polanyi [2000]. In realtà Bobbio [2011] considera
almeno cinque modi di concettualizzare i conflitti territoriali: a) come manifestazioni particolaristiche
che impediscono il soddisfacimento di interessi generali; b) come l’effetto di attori interessati che stru-
mentalizzano a proprio vantaggio le paure delle popolazi oni; c) come l’esi to della sproporzione tra costi
concentrati e benefici diffusi; d) come reazione a rischi inaccettabili; e) come resistenza dei luoghi ai
flussi che li invadono; f) come richiesta di un diverso modello di sviluppo. Le ultime tre spiegazioni
fanno riferimento a problematiche differenti rispetto ai presunti interessi egoistici delle comunità locali,
le quali invece, in base alla seconda visione del conflitto, arriverebbero processualmente a mettere in
dubbio la stessa sussistenza del presunto interesse generale [Bobbio e Lazzeroni 2002].
Anche la visione “compassionevole” che riconosce agli oppositori la scusante dei costi concentrati,
parte i nfatti dal presuppos to che l ’intervento previsto rappresenti un i ndiscutibile bene in sé (i n base alla
cosiddetta “ideologia delle grandi opere” [Zeppetella 2009]), e il problema alligni solo alla distribuzione
di costi e benefici in termini razionali, non prendendo in considerazione i costi e benefici politici. La
reazione delle comunità etichettate come Nimby è quella di considerare se stesse quali portatrici
dell’interesse generale, e di vedere il problema non in benefici diffusi a fronte di costi concentrati, ma
all’opposto in benefici concentrati sui pochi che avrebbero da guadagnare dalla realizzazione di opere
considerate inutili, secondo il principio che «pochi policy makers considerano il criterio del beneficio
sociale come rilevante rispetto ai loro obiettivi, che sono più limitati. Se il legislatore prende i costi di
una decisione e li spalma su tutti i cittadini, o li camuffa in qualche altro modo, e concentra i benefici su
13
uno specifico gruppo di cui cerca il consenso, il fatto che i costi aggregati eccedano ampiamente i bene-
fici è per lui di scarso interesse» [Regonini 2001, 179].
Al di là che siano economici o politici, concentrare l’attenzione sui soli interessi rischia di non far
comprendere a fondo i meccanismi processuali, cognitivi e normativi, che guidano le azioni degli attori
nel corso delle loro interazioni situate, e alle possibilità evolutive delle stesse istituzioni sulla base di tali
interazioni. Anche perché, nei fenomeni in questione, è evidente più che in altri ambiti il fatto che gli
stessi interessi, e persino l’identità degli attori, non è data in anticipo rispetto alla porzione di realtà rap-
presentata dalla vicenda conflittuale. La principale caratteristica che secondo Magnaghi [2000, 110]
distingue i conflitti territoriali da quelli sociali classici è il loro carattere diffuso, non rappresentando più
movimenti fortemente caratterizzati ideologicamente, bensì comportamenti e pratiche che attraversano
la vita quotidiana. Le questioni ambientali non sono più avanzate solo da gruppi di militanza chiusi
[Jamison 1996], ma da aggregazioni variegate di abitanti che partendo dall’opposizione a qualche inter-
vento evolvono spesso verso forme di cittadinanza attiva, fornita di una spiccata progettualità in grado,
tra l’altro, di costruire trame solidali connotando in senso collettivo il territorio che si sente minacciato.
Il che costituisce la seconda caratteristica che egli [ivi, 111] riconosce a tali esperienze, quella
dell’impossibilità di classificarle entro ambiti d’azione, visto il carattere sempre più integrato delle te-
matiche che insistono su di un territorio, e quindi sui suoi abitanti. Seppure l’iniziale coalizione sia qua-
si sempre stimolata da un problema specifico e nasca in forma strettamente conflittuale, nella grande
maggioranza dei casi essa va incontro ad un più o meno rapido processo di risalita in generalità, tra-
sformandosi in movimento multi-issues portatore di logiche più propositive (frame extension).
È ciò che accade ai comitati di cittadini, che della Porta [2004b, 7] definisce come gruppi debolmen-
te strutturati, formati da individui che si riuniscono su base territoriale prevalentemente per opporsi a
interventi che ritengono danneggerebbero la propria qualità della vita. Simili gruppi sono in continua e
rapida ascesa a partire dagli anni ‘90, e la loro novità rispetto ai movimenti degli anni ‘70 risulta
dall’essere portatori di domande non fil trate in alcun modo dalla poli tica is ti tuzionale, per il progressivo
indebolimento dei partiti politici avvenuto negli stessi anni. Questi perdono infatti la capacità di costrui-
re identità collettive, attività svolta invece da movimenti che poi rivolgono le proprie richieste diretta-
mente alle istituzioni, saltando la mediazione dei partiti e in forma generalmente conflittuale. Secondo
Beck [1994, 69] non sarebbe pertanto esagerato affermare che i gruppi sociali hanno ormai «assunto
tematicamente l’iniziati va. S ono stati loro a porre all’ordine del giorno i temi di un mondo minacciato,
contro la resistenza dei partiti». I partiti sono visti infatti come più sensibili alle pressioni dei poteri eco-
nomici forti che alle richieste della base, e si ritiene che anche le amministrazioni abbiano perso la capa-
cità di ascolto, così che l’unica possibilità per farsi ascoltare risiederebbe nella protesta [della Porta
2004c, 118-119]. Guardando al loro processo di framing, Andretta [2004] mostra però come, ferma re-
stando l ’iniziati va in pri ma persona che bypassa la mediazione dei parti ti, i comi tati si evol vano col pas-
sare del tempo, provando a superare l’appellativo di Nimby, costruendosi un’identità pubblica legittima-
ta a parlare di beni collettivi e a partecipare ai processi di formazione delle politiche pubbliche. Cosa
che nota anche Allasino [2004], trovando nell’istituzionalizzazione dei loro modelli organizzativi verso
la costruzione di networks di comitati anche il passaggio della logica d’azione dalla protesta alla propo-
sta, con il conseguente allungamento dell’orizzonte temporale. Inizialmente i comitati sorgono con
l’obiettivo di bloccare o ottenere una posta in gioco relativamente limitata, ma il successo eventualmen-
te ottenuto in quella campagna può dare nuova fiducia nella capacità di cambiare le cose con le proprie
forze, e spinge a perseverare nella mobilitazione senza chiudersi nell’egoistica soddisfazione per il risul-
14
tato raggiunto a proprio vantaggio ma allargando i temi dell’azione. «Non si tratta solo della volontà di
singole organizzazioni di sopravvivere comunque, diventando esse stesse fini e non più strumenti. La
vitalità e la continuità del comitatismo affondano le loro radici nella democrazia locale, che non si lascia
esaurire nella mera amministrazione o nella delega di rappresentanza, ma rinnova l’esigenza di parteci-
pazione diretta dei cittadini alla vita della polis» [ivi, 69].
Di fronte a tali evoluzioni è del tutto evidente come «i discorsi Nimby tendano a rinchiudere i resi-
denti in una posizione illegittima» [Jobert 1998, 73], e per alcuni autori sarebbe fallimentare non solo il
tentativo di etichettare tutte le reazioni locali come Nimby, ma ancor di più quello di aggirare le proteste
attraverso la centralizzazione delle decisioni e la semplificazione ed efficienza procedurale [Hajer 1996,
256; Bartolomeo e Pacchi 2004]. Per tali ragioni in questa ricerca sarà privilegiata una visione proces-
suale e cognitiva tanto del policy-making quanto delle reazioni sociali, nell’ottica di sviscerare la tra-
sformazione del conflitto in forma di partecipazione attiva [Pellizzoni 2008, 93; Blatrix 2000; Rui
2001], e le sue possibili sfide ai discorsi egemonici in campo politico, economico e scientifico.
2.1.3 Il conflitto come reazione ad un modello tecnocratico e decisionista
Il modello decisionale cui viene attribuito il maggior grado di affidabilità, tanto dai decisori quanto
dagli analisti, fa riferimento al paradigma razionale-burocratico, definito anche, in un’accezione carica
di valutazione negativa e che fa maggiormente leva sul versante conoscitivo, come decisionista [Majone
1989, 12] o tecnocratico
3
[Fischer 1990]. S econdo tal e concezione le decisioni riguardanti la cosa pub-
blica vengono prese all’interno delle strutture dell’attore pubblico ad ogni livello, il quale elabora le
politiche che ritiene opportune in totale isolamento dalla società civile, sulla base di criteri tecnico-
scientifici ma anche del mandato popolare che lo erge a rappresentante unico e legittimo della cittadi-
nanza di riferimento. Tali politiche vanno poi implementate da parte di enti sottoposti sempre
nell’ambito del settore pubblico, secondo una rigida catena gerarchica. Una visione top-down di questo
genere presuppone che gli anelli funzionalmente o territorialmente più bassi siano meri esecutori delle
decisioni provenienti dal centro, mentre il versante privato e i cittadini non avrebbero voce in capitolo:
Un’amministrazione tecnica centralizzata, iscritta in una logica di produzione tecnocratica delle politiche pubbli-
che, intesa a programmare la società al fine di razionalizzare la precedente logica territoriale. Il numero di soggetti
legittimati ad intervenire nel processo decisionale è ridotto. Lo spazio della decisione è ristretto e non visibile. Gli
ordini professionali dei tecnici sono ai comandi, mentre la politica esegue [Rui 2004a, 33].
Nell’idealtipo burocratico netta è la separazione pubblico/privato: da un lato stanno attori pubblici
monolitici nella veste di policy-makers, anche se spesso meri esecutori di scelte tecniche demandate ad
esperti, dall’altra il settore privato. I cittadini, in mezzo a tale dualismo, non sono che destinatari passivi
delle decisioni prese dall’autorità (policy-takers), utenti di servizi progettati dall’alto su quelli che sono
considerati i loro bisogni, che non hanno influenza sulle scelte politiche salvo nelle tornate elettorali o a
meno di non costituirsi in lobby, e possono semplicemente limitarsi a protestare una volta che queste
siano state prese. In caso di scontento, possono fare affidamento, nella terminologia di Hirschman
[1982], solo alla vo ic e, essendo loro preclusa, trattandosi di non-vol unt ary clients [Lipsky 1980], la s tra-
tegia dell’exit
4
.
La definizione razionale di democrazia porta con sé una anche una definizione economicistica di
competizione poli tica, secondo il modello di S chumpeter [1964, 257] per cui «il metodo democratico è
3
Padovan [2011] utilizza invece il termine “ espertocrazia”.
4
A meno che, per le scelte localizzative di cui ci si occupa qui, non si prenda in considerazione l’opzione di ab-
bandonare il territorio di residenza.
15
lo strumento istituzionale per giungere a soluzioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono
il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare». Tale visione lega-
le-burocratica ha tuttavia lasciato il passo sempre più ad un nuovo modello che vede ridimensionato di
molto il ruolo di decisore unico attribuito ai poteri pubblici, in favore di una commistione sempre mag-
giore con il settore pri vato inteso tu ttavi a, ancora una vol ta, non come partecipazi one della società civile
largamente intesa, ma dei soli interessi forti di carattere economico. La spinta economicistica ed esclu-
siva già presente nel modello burocratico sarebbe così accentuata, lasciando del tutto inalterato il carat-
tere di indiscutibilità attribuito agli esperti. Sarebbe questo il cosiddetto “paradigma post-democratico”
[Crouch 2003; Borghi 2006a, 15-16], dominante a partire dall’ascesa negli anni ‘80 dell’ideologia neo-
liberista. Esso si rifà da un lato alla concezione negativa dello Stato propria della tradizione liberale, e
dall’altro alla visione elitista e tecnocratica che alimenta la sfiducia nella crescente attivazione dei citta-
dini nei processi decisionali, insistendo invece sul ruolo dei tecnici e del mercato. Quest’ultimo, in par-
ticolare, diviene il modello alla cui razionalità la vita sociale deve essere sottoposta, attribuendo impor-
tanza a preferenze individuali che si suppongono esogene rispetto alla vi ta colletti va, e sottratte in que-
sto modo all’ambito dell’agire politico. La politica viene ridotta così a problem-solving delegato a tecni-
ci esperti, esclusivo appannaggio di ristrette élites in grado di condizionare l’intera agenda, e non solo le
scelte economiche vici ne agli interessi di cui sono portatrici . In una simile prospetti va ogni al tra voice è
percepita come ostacolo al pieno dispiegamento di tale razionalità, e la politica viene ridotta ad uno
spettacolo nel quale il dibattito si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da gruppi rivali
di esperti
5
, condotto da questi e da loro strettamente controllato, mentre la massa dei cittadini svolge un
ruolo passivo, acquiescente ed apatico [Crouch 2003]. Il discorso tecnocratico, deviando l’attenzione dal
suo essere discorso, e dunque politico, adotta un idioma tecnico che tende ad oscurare le potenzialità
democratiche, immaginando una realtà stabile e oggettiva codificabile e controllabile attraverso un lin-
guaggio neutro, che delegittima ogni altra possibile pratica discorsiva che potrebbe aiutare ad identifica-
re e ris olvere i problemi pubblici [Torgerson 2003, 120-122]. Nelle parole di Rancière [2007, 98]
dichiarandosi semplici gestori delle ricadute locali e della necessità storica mondiale, i nostri governi si industriano
a eliminare il supplemento democratico. Inventando istituzioni sovra-statali che non sono responsabili di fronte a
nessun popolo, i nostri governi realizzano il fine immanente alla loro stessa pratica: depoliticizzare le questioni
politiche, sistemarle in luoghi che non lasciano spazio all’invenzione democratica di luoghi polemici. Così gli stati
e i loro esperti possono intendersela tranquillamente f ra loro.
La post-democrazia è pertanto prima di tutto depoliticizzazione del dibattito pubblico in favore della
delega incondizionata al sapere tecnico in generale, e all’economico in particolare, «cultura del consen-
so che ripudia gli antichi conflitti, abituando a oggettivare senza passione i problemi che a corto e a lun-
go termine le società incontrano, a chiedere soluzioni agli esperti e a discuterle con i rappresentanti qua-
lificati dei grandi interessi sociali» [iv i, 91].
I processi di partecipazione su scala locale, che Sabel [2001] chiama “sperimentalismo democrati-
co”, sembrano potersi collocare nella cornice di malessere che quel paradigma suscita in frange, sia pur
minoritarie [Ambrosini 2005], della popolazione. La varietà di esperienze raggruppabili sotto questa
definizione è riconducibile alla comune convinzione che la democrazia si alimenta attraverso un’attiva
partecipazione collettiva all’elaborazione e al trattamento dei problemi che in essa si generano, e che
essa prosperi, come afferma Crouch [2003],
quando aumentano per le masse le opportunità di partecipare attivamente, non solo attraverso il voto ma con la
discussione e attraverso organizzazioni autonome, alla definizione delle proprietà della vita pubblica; quando le
5
Rivalità comunque relativa e che si rifà a diverse interpretazioni all’interno della stessa logica egemonica.