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INTRODUZIONE
Attraverso questa ricerca si è cercato di fornire un’interpretazione della fotografia
come fenomeno sociale, dal momento che essa fa parte integrante della vita
quotidiana e sociale, ed è il mezzo di espressione tipico di una società
tendenzialmente razionalistica, fondata su una gerarchia di professioni e di strati
sociali. La fotografia è per la società contemporanea uno strumento di prim’ordine
soprattutto per la sua capacità di riprodurre la realtà, capacità che la fa apparire,
almeno in prima istanza, come il procedimento di riproduzione più fedele e più
imparziale della vita sociale, anche se – come si vedrà – questa esattezza riproduttiva
non può prescindere dai punti di vista e dalle ideologie dei soggetti che riprendono le
immagini, in una sorta di gioco infinito di rimandi fra tecnica e identità,
immaginazione e realtà. In questa prospettiva la fotografia diviene capace di
interagire nei processi di costruzione della realtà che ogni giorno, pur non
accorgendocene, abbiamo. La maggior parte delle volte pensiamo per immagini e i
ricordi delle esperienze che abbiamo avuto e che di volta in volta andiamo a
ripescare per avere delle basi su cui sviluppare i nostri comportamenti futuri sono
fissati nella nostra mente proprio sotto forma di immagini. L’immagine ci permette
di avere delle informazioni dense di significato, come se fossero dei fil zippati in
grado di riassumere particolari esperienze che abbiamo vissuto.
In un certo senso la fotografia è economia. Basta provare a descrivere a voce un
qualsiasi soggetto/oggetto di cui si possiede una foto. Nella maggioranza dei casi, il
linguaggio visivo è molto più diretto, efficace e semplice e, cosa ancor più
importante, è capito da tutti.
Il presente studio è stato sviluppato secondo un approccio teorico basato su diverse
prospettive disciplinari, che vanno dalla sociologia all’antropologia, dalla psicologia
alla storia e alla filosofia in cui, volendo fare qualche nome, spiccano autori come
Barthes, Goffman, Sontag, Benjamin, Berger. Mentre i sociologi hanno focalizzato
l’attenzione sui rapporti che intercorrono tra individuo e società – e, in questo senso,
sull’importanza della fotografia quale ingrediente fondamentale dell’industria
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culturale e della moderna comunicazione di massa – gli studi antropologici hanno
dimostrato complessivamente come la centralità della fotografia nel mondo odierno
risieda essenzialmente nell’aspetto culturale ed ideologico dei suoi messaggi
determinati a priori, ovvero indirizzati, proprio attraverso le ottiche scelte, e che
combaciano in maniera esatta con le diverse ideologie che le classi al potere hanno
storicamente elaborato per esercitare il proprio potere.
L’elaborato è suddiviso in cinque capitoli più un capitolo conclusivo. La prima parte,
in cui il fenomeno viene considerato sotto un profilo più ampio, è dedicata
maggiormente ai contributi teorici e servirà a comprendere la fotografia sotto diversi
punti di vista, in questo caso empirici. La seconda parte invece, sarà dedicata a
tematiche più specifiche e verranno riportati anche alcuni esempi particolari.
Il primo capitolo è dedicato alle origini storiche e visive della fotografia, alla sua
“sfida” perenne con la pittura, ai caratteri dell’ottica e al funzionamento dello
sguardo e della percezione.
Nel secondo capitolo, che – come detto – è un po’ il cuore teorico della ricerca, sono
evidenziati i rapporti che la fotografia viene ad acquisire con la realtà, con la
memoria, con l’identità e con la società. È qui che si metterà in relazione l’identità
con l’immagine e si proverà a comprendere la dinamica, o meglio le dinamiche
messe in atto in questa relazione, determinate in modo sostanziale anche dalla
presenza di un terzo elemento, ovvero la memoria. Sempre in questo capitolo è
approfondito il rapporto tra immagine e potere, e si analizzerà come questa
particolare forma di comunicazione viene gestita – spesso in modo poco neutrale –
dalle società capitalistiche.
Il terzo capitolo, sulla fotografia politica, entra nello specifico delle dinamiche di
potere che l’immagine porta con se e saranno considerati in particolare alcuni periodi
storici interessanti sotto il profilo della gestione delle potenzialità della
comunicazione visiva, ovvero il periodo risorgimentale, il periodo fascista e il
periodo stalinista. Sarà brevemente analizzata anche l’interpretazione della fotografia
in Cina.
Nel capitolo quattro è affrontato il tema relativo al significato e alla lettura della
fotografia. Verrà analizzato come il processo di interpretazione del testo fotografico
sia intriso tanto dall’identità del fotografo, quanto – qualora sia un essere vivente –
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dall’identità del soggetto fotografato nonché dall’identità di chi fruisce l’immagine,
elementi che assieme andranno a formare quell’incontro di individualità e identità
che solo attraverso la fotografia è reso in modo così esplicito. Verranno passati in
rassegna alcuni dei moduli “grammaticali” principali del linguaggio fotografico,
come ad esempio, l’istantanea, il ritratto e la sequenza.
Il quinto e ultimo capitolo argomenta invece le modalità di scrittura e di
organizzazione del testo fotografico e analizza i relativi comportamenti che sono alla
base del discorso fotografico oltre che le differenti fruizioni di esso. Si analizzeranno
alcuni rituali sociali caratterizzati dalla presenza della macchina fotografica e si farà
particolare riferimento ad una delle forme distintive in cui la fotografia viene
organizzata e conservata, ovvero l’album fotografico, di cui verranno evidenziati i
caratteri strutturali tipici che si ripetono di volta in volta, come a voler indicare una
particolare sintassi di scrittura. Verrà poi analizzato l’uso che la pubblicità ha fatto –
e continua a fare – della fotografia “home-mode” per raggiungere livelli di credibilità
maggiori e, di conseguenza, per aumentare l’efficacia e la recezione dei suoi
messaggi.
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CAPITOLO 1. STORIA DELLA FOTOGRAFIA E DELLO
SGUARDO
1.1. LE ORIGINI
Per affrontare e comprendere al meglio qualsiasi studio, la mia opinione è sempre
stata quella di partire dalle origini. In tal senso questo primo capitolo è dedicato alla
storia della fotografia e all’evoluzione e al funzionamento della nostra percezione e
del nostro sguardo.
La fotografia, così come le pitture preistoriche, ha sempre avuto lo scopo di
catturare, di tramandare e di conservare ciò che apparteneva ad un altro periodo, ad
un’altra epoca, al passato. L’importante ambizione della ricerca fotografica è stata la
stessa di quella del pittore delle grotte d’Altamira e Lascaux. L’artista preistorico che
dipingeva animali e scene di vita quotidiana sulle pareti delle grotte, concretizzava
infatti uno dei più antichi sogni dell’uomo: catturare l’aspetto e l’anima del mondo
che lo circonda.
È noto come anche le grandi scoperte e le conoscenze delle leggi che regolano i
fenomeni naturali siano state possibili grazie a una paziente osservazione. In modo
analogo, anche all’origine della fotografia vi è la curiosità umana.
Antenato del moderno apparecchio fotografico è stata la camera oscura, fino alla
scoperta di un supporto fotosensibile; di immagini ottenute con la camera oscura si
ha notizia sin dal tardo rinascimento. Le prime camere oscure erano abitabili, il
pittore o lo scienziato eseguivano il lavoro d’osservazione e di ricalco.
Nel 1700 circa, grazie a Johann Heinrich Schulze, si adattò una lente al foro
stenopeico di una scatola di 61 cm, e si sostituì il fondo con una lastra di vetro
molato. La fotografia più vecchia del mondo risale al 1826 ed è stata scattata da
Nicéphone Niépce e ha necessitato di un’esposizione alla luce della durata di ben
otto ore. Verso il 1837 Jaques Mandé Daguerre perfezionò l’invenzione di Niépce,
migliorando la tecnica di ripresa e la qualità del materiale, al punto da ridurre il
tempo d’esposizione ad un paio di minuti. Dal nome del loro inventore le lastre
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presero il nome di “dagherrotipi”. Il dagherrotipo era un’immagine che trasmetteva
informazioni, ma anche un oggetto da trattare con cura, rivelando così il doppio
status della foto, simultaneamente oggetto e immagine (Clarke, 2009, p. 9).
La storia della fotografia nell’Ottocento è stata segnata da una serie di contraddizioni
rimaste intrinseche nella foto come immagine e come mezzo figurativo. Daguerre
aveva messo a punto il mezzo per registrare l’immagine, ma il rapido sviluppo della
successiva tecnologia ottocentesca in questo campo, non è stato solo il riflesso
dell’industrializzazione della fotografia nel contesto culturale e ideologico, quanto
anche – cosa fondamentale per la natura stessa dell’immagine fotografica – della
fede nella possibilità di creare il mezzo perfetto per riprodurre l’immagine perfetta,
un’iper-realtà per così dire. In questo senso, la tecnologia si è sempre sposata alla
“magia” delle promesse dell’immagine fotografica.
Ad ogni modo, la fotografia ha posseduto fin dall’inizio, tutto ciò che serviva per
trionfare in un’epoca caratterizzata dall’espansione demografica, dallo sviluppo
industriale e dall’introduzione di rivoluzionari mezzi di comunicazione, nonché, cosa
ancora più importante, in un’epoca in cui parte della popolazione desiderava dare una
nuova buona immagine all’ordine sociale. Naturalmente però, occorsero altre
invenzioni per arrivare alla fotografia moderna.
L’inglese William H. Fox Talbot (1800-1877) inventò un procedimento basato
sull’immagine negativa da cui potevano essere tratte innumerevoli copie. Poi intorno
al 1890, George Eastman lanciò sul mercato la negativa su celluloide e costruì il
primo apparecchio fotografico portatile, che contribuì in modo decisivo alla
diffusione della fotografia. Fu lui a fondare l’azienda Kodak con lo slogan “voi
premete il bottone, noi faremo il resto” (Clarke, 2009, cit. p. 11).
La fotografia ha conosciuto un’evoluzione rapidissima in pochi anni e lo sviluppo
industriale la mise presto alla portata di tutti. La costante evoluzione tecnica e la
conseguente miniaturizzazione suggerì a Oscar Barnak la costruzione
dell’apparecchio fotografico Leica, nel 1930. Questa macchina fotografica
estremamente maneggevole e portatile, aprì nuove strade al linguaggio fotografico.
Il successivo colore poi, ha costituito l’ultima e più decisiva rivoluzione nel campo
delle tecniche fotografiche: con esso l’uomo ha potuto cogliere l’anima della natura e
l’immagine reale delle cose fino in fondo.
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Negli anni novanta l’informatizzazione dilagante ha portato alla realizzazione dei
primi modelli di apparecchi fotografici digitali.
In meno di sessant’anni, dunque, la foto è passata da dominio privilegiato dei primi
progenitori, a uno dei mezzi più accessibili e accettabili di raffigurazione visiva.
In tutti i rami della scienza e delle tecniche moderne, la fotografia continua a fornire
nuovi dati ai ricercatori; la sua presenza è ugualmente decisiva nel campo della
cultura e particolarmente rilevante è la sua influenza sui movimenti pittorici
d’avanguardia: dadaisti e futuristi devono proprio alla fotografia l’ispirazione di
molte loro tele rivoluzionarie.
Come per l’arte, anche per la fotografia il nemico è ciò che è convenzionale, sono le
rigide regole delle istruzioni per l’uso che annullano l’espressione personale, la
propria idea di immagine e di conseguenza anche l’identità del fotografo,
standardizzando la sua ripresa ai canoni vigenti. Di converso, la salvezza della
fotografia sta proprio nella sperimentazione e nel confronto, colui che sperimenta
non ha idee precostituite sulla fotografia. Si può affermare, riprendendo Chéroux,
che gli errori sono banali solo da un punto di vista storico convenzionale (Chéroux,
2009).
La fotografia è stata ed è rimasta ancora la forma d’arte democratica per eccellenza,
dal momento che riesce a rendere tutto e tutti potenzialmente importanti,
consentendo a chiunque di realizzare foto e costruirsi una visione del mondo
individuale, attuando l’imperativo surrealista di adottare un atteggiamento
inflessibilmente egualitario di fronte a qualsiasi oggetto (Sontag, 2004, p. 69).
1.2. L’ETERNA SFIDA
L’idea che la fotografia rimpiazzi la pittura risale a Baudelaire e riflette una reazione
comprensibile davanti alla supposta intromissione della tecnica nella sfera artistica
(Dal Lago, Giordano, 2006, p. 137).
La fotografia, con la sua pretesa capacità di riprodurre la realtà, sembrava rendere
superflua la pittura. Fin dalle sue origini, però, la fotografia non è mai stata un
linguaggio oggettivo, né un esperanto visivo capace di soppiantare altre forme d’arte.
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La fotografia ha contribuito a liberare la pittura da schemi rigidi e figurativi,
permettendo agli artisti di sperimentare nuovi campi di ricerca; di conseguenza, non
si è mai posta come antagonista della pittura.
Il linguaggio della fotografia, in quanto tale, non ha nulla di più democratico,
massificato e oggettivo di quello della pittura, ma è evidentemente soggettivo e
creativo. Anche Nadar aveva compreso che la fotografia creava un altro mondo in
cui il realismo delle figure e delle scene era solo apparente. È infatti chiarissima in
lui la consapevolezza della fotografia come tipo d’arte autonoma e non sterile
riproduzione della realtà. Se in un certo senso la macchina fotografica coglie
effettivamente la realtà e non si limita a interpretarla, le fotografie sono sempre
un’interpretazione del mondo esattamente quanto i quadri e i disegni.
Tuttavia, l’originalità della fotografia in rapporto alla pittura risiede proprio nella sua
oggettività essenziale dal momento che per la prima volta, un’immagine del mondo
esterno si forma automaticamente senza apparente intervento creativo dell’uomo.
Tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo, solo nella fotografia se ne gode
l’assenza (Costa, 1985, p. 21). Assenza che però è solo fittizia, dal momento che la
presenza dell’uomo nella fotografia si esprime – come si vedrà più avanti –
attraverso la scelta del soggetto e il punto di vista.
L’attenzione alla referenzialità iconica, porta a più esplicita maturazione il principio
duchampiano di ready made e della sua logica di prelievo dalla realtà; il taglio che il
fotografo opera sulla realtà attraverso l’inquadratura, potenziato dagli aspetti iconici
e indicali dell’immagine, è infatti del tutto analogo a quello operato
contemporaneamente dagli artisti che, rinunciando alla rappresentazione con una
precisa scelta intellettuale, avevano prelevato dal mondo reale oggetti già fatti, o
comunque esistenti, perché presentassero se stessi. Un’operazione che, mettendo in
luce l’essenza stessa della fotografia avrebbe portato, con la Pop Art, a considerarla
un “ready made virtuale”, che avviene non attraverso l’azione materiale, ma con la
mediazione di una macchina e attraverso lo scatto, iniziando una prassi che ha
favorito da subito le pratiche avanguardistiche del fotomontaggio, dell’assemblage e
del collage (Miraglia, 2011, p. 86).
La realtà fotografica dei tardi anni Quaranta ha consentito, del resto, una visione
meno chiusa e più tollerante, capace di abbracciare al proprio interno non solo il
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citazionismo da altre epoche, ma anche tutte le manipolazioni di stampa e di
laboratorio.
Negli anni Cinquanta e Sessanta la fotografia soggettiva si è presentata come
momento di passaggio, in cui la ricerca sfugge ancora ad una precisa definizione,
senza un preciso orientamento, sensibile alle influenze della sfera della pittura, del
Surrealismo e delle Narrative artistiche degli anni. La consapevolezza di sé che la
fotografia acquista fra Usa e Europa, in questi anni, diventa una coordinata di
riferimento culturale decisamente centrale, tanto da incidere non solo su realtà
geograficamente lontane dagli epicentri di origine delle nuove idee ma anche, tappa
dopo tappa, su alcune forme espressive e della comunicazione a noi contemporanee.
In una prospettiva simile il critico d’arte John Berger ha posto l’accento sul fatto che
tutte le immagini sono fatte dall’uomo cioè man-made: un’immagine è una visione
ricreata e riprodotta. Ogni immagine contiene in se un punto di vista, anche una
fotografia, perché le fotografie non sono come si pensa una registrazione meccanica;
tutte le volte che guardiamo una fotografia siamo consci anche se in maniera
superficiale della scelta che il fotografo ha compiuto preferendo quell’immagine ad
un’infinità di altre immagini possibili (Berger, 1998).
In tal senso non esistono copie della realtà: ogni disegno, quadro, fotografia o film è
considerato affermazione visuale.
Il carattere rivoluzionario delle immagini fotografiche, cinematografiche e televisive
è individuabile quindi non tanto nel fatto che esse abbiano liberato la pittura
dall’impegno della rappresentazione fedele del reale, quanto piuttosto di aver
mostrato la non esistenza di quest’ultima, in quanto più che la realtà oggettiva
esistono punti di vista, inquadrature, angolature del reale. Esso in sostanza, non è
altro che una disseminazione di vedute che andrà inteso, in questa prospettiva, come
nuova aura, come necessità messa in atto da parte dei produttori e dei fruitori di
immagini portatrici di distanza critica in rapporto alla stereotipia e alla reificazione
della realtà esistente.
Un altro blocco concettuale risulta dalla connessione, culturalmente accettata, tra
l’interpretazione e la resa artistica.
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Generalmente, il linguaggio con il quale si valutano le fotografie è estremamente
povero. A volte è una traslazione del vocabolario pittorico: composizione, luce
eccetera, più spesso consiste in giudizi estremamente vaghi.
La ragione di questa povertà di linguaggio non è casuale, ma è qualcosa di insito
nelle fotografia stessa ogni volta che la si considera come arte, dal momento che
propone un processo dell’immaginazione e un appello al gusto parecchio diversi da
quelli della pittura. La differenza tra una bella e una brutta fotografia non ha niente a
che vedere con quella tra un bel quadro e un brutto quadro. Le norme di valutazione
estetica elaborate per la pittura dipendono da criteri di autenticità (o contraffazione) e
di abilità, criteri che in fotografia sono più permissivi o addirittura inesistenti.
Tuttavia, uno dei criteri di valutazione che pittura e fotografia hanno in comune è la
qualità innovativa: quadri e fotografie vengono spesso apprezzati perché impongono
nuovi schemi formali o modificazioni del linguaggio visivo. Le nuove fotografie
cambiano la maniera in cui guardiamo le vecchie, ma le oscillazioni del gusto
fotografico contemporaneo non riflettono soltanto processi di rivalutazione coerenti e
conseguenti mediante i quali il simile favorisce il simile, ma esprimono più
frequentemente il valore e la complementarietà di stili e temi antitetici.
Il gusto fotografico tende ad essere, forse, necessariamente globale e universale, e ciò
comporta alla lunga una negazione della differenza tra buono e cattivo gusto (Sontag,
2004, p. 124).
Come l’arte moderna, l’immagine fotografica tecnicamente adeguata, scatena uno
shock davanti al quale non si può restare passivi come davanti a un’opera d’arte
tradizionale. Ma lo sconvolgimento messo in atto dalla fotografia è ancora più
profondo, dal momento che non riguarda solo il bello, ma il valore culturale stesso di
cui il bello non è che una traduzione.
La riproduzione tecnica dell’oggetto estetico, come avviene nella fotografia e nel
film, lo rende accessibile al consumo di massa; l’aura diviene preda della
comunicazione di massa che ha per effetto quello di ridurre la distanza e di superare
la singolarità dell’oggetto estetico (De Paz, 1993, p. 354).
Si pensa spesso che un’insolita sensibilità di vedere, valutare e comprendere
qualcosa, sia stata prodotta da un qualche talento speciale o visione artistica. Questa,
in realtà, è solo una visione elitaristica di un fenomeno – l’interpretazione – presente
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in qualsiasi comportamento simbolico. Questa connotazione particolare serve solo a
separare e ad elevare “culturalmente” un tipo di interpretazione, mentre tutte le altre
capacità umane di interpretare, giudicare e creare immagini significative della vita
quotidiana vengono sistematicamente degradate.
Ad ogni modo, quando un’immagine ci viene presentata come opera d’arte, il modo
di guardarla sarà influenzato dall’insieme di idee precostituite che circolano sull’arte
e che generalmente, riguardano la bellezza, la forma, la verità, il genio creativo, il
gusto, lo status, ecc. Con la macchina fotografica, non è più lo spettatore ad andare al
dipinto, o all’opera, ma è l’opera a viaggiare fino allo spettatore diversificando, in
questi spostamenti, anche il suo significato.
L’avvento della riproducibilità tecnica e la sua diffusione mediante la fotografia
segnano per la prima volta la possibilità di emancipare l’arte rispetto all’ambito del
rituale: venendo meno i valori dell’unicità e dell’autenticità, si apre la possibilità di
conferire all’arte una nuova valenza politica.
Nella fotografia la dissoluzione del valore cultuale in favore del valore di esponibilità
non è ancora completa, in quanto l’aura mantiene una sua ultima forma di
sopravvivenza nel “volto dell’uomo”. Non è un caso che le prime fotografie siano
state soprattutto dei ritratti, miranti a fissare e a tramandare nel tempo l’identità e lo
sguardo dei soggetti fotografati.
Nel corso della storia, nessuna società è mai stata dominata dai messaggi visivi
quanto la nostra. Eppure, paradossalmente, siamo sempre meno capaci di vedere le
immagini per quello che sono. Da un lato accettiamo acriticamente i messaggi della
pubblicità, dall’altro attribuiamo alle immagini dei quadri del passato un’importanza
e un contenuto che va oltre ciò che tali immagini realmente mostrano. Il ruolo sociale
della fotografia, usata come arte o come propaganda è cambiato drammaticamente
nel periodo che stiamo vivendo. Ci sono temi socialmente rilevanti sull’utilizzo della
fotografia da parte dei media quali “La fotografia come propaganda” o la frenesia dei
media dopo l’11 settembre, in cui si è assistito al più alto livello di illusione visiva
degli ultimi tempi.
Da quando l’opera d’arte è diventata riproducibile attraverso mezzi meccanici, essa
ha perso gran parte dell’“aura” che le derivava dall’essere unica e originale. Quello
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che resta sono le semplici immagini, a prescindere da chi le ha create, e il loro
linguaggio, che può essere utilizzato per vari scopi.
La fotografia è diventata l’arte quintessenziale delle società opulente, dissipatrici ed
irrequiete, uno strumento indispensabile della nuova cultura di massa che ha preso
forma in America e ha conquistato l’Europa solo dopo il secondo conflitto mondiale,
anche se i suoi valori avevano cominciato a diffondersi tra i benestanti sin dalla metà
dell’Ottocento.
Tuttavia, mentre l’autorità di una fotografia dipende sempre dal suo rapporto con un
soggetto - dal fatto che è la fotografia di qualcosa - tutti i discorsi sulla fotografia
come arte devono porre l’accento sulla soggettività della visione (Sontag, 2004, p.
61). Come si vedrà proseguendo la lettura di questo capitolo, non è più possibile
immaginare che tutto converga nell’occhio umano come nel punto di fuga
all’infinito; la macchina fotografica ha dimostrato che il centro non esiste,
cambiando il modo di vedere degli esseri umani (Berger, 1998), rivelando che la
nozione di scorrimento temporale è inseparabile dall’esperienza visiva (fatta
eccezione per la pittura). Ciò che si vede, dipende da dove si è, e in quale momento.
Essa imita l’occhio umano nella sua struttura puramente meccanica, ma quello che
rivela è inaccessibile alla visione naturale.
Il “declino” e il “venir meno” dell’aura – determinato dall’avvento dei mezzi di
riproduzione tecnica delle opere – sarebbe il sintomo, secondo Benjamin , di un più
vasto mutamento “nei modi e nei generi della percezione sensoriale”. Ad ogni
periodo storico corrispondono infatti determinate forme artistiche ed espressive
correlate a determinate modalità della percezione, per questo la storia dell’arte deve
essere accompagnata da una storia dello sguardo (Benjamin, 2000).
1.3. QUESTIONE DI OTTICA
La fotografia, in quanto pratica della rappresentazione si basa, per formalizzare
l’immagine, sull’uso congiunto di tre particolari applicazioni scientifiche: l’ottica, la
meccanica e la chimica. Questi tre elementi sono rimasti invariati in tutta la storia
della fotografia, a partire dalle sue origini fino all’avvento del digitale e delle
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pratiche non analogiche, nelle cui camere rimangono comunque costanti le lenti per
la definizione del piano focale, il diaframma per regolare la quantità della luce,
l’otturatore per il controllo dei tempi espositivi e l’imprescindibile necessità di poter
disporre di supporti sensibili in grado di ricevere e conservare l’input della luce e i
suoi segni, con un passaggio tecnologico che, com’è noto, nel nostro contemporaneo
ha sostituito l’elettronica alla chimica.
Tuttavia, l’elemento che per eccellenza lega la fotografia digitale a quella analogica è
individuabile prevalentemente nell’ottica monoculare del medium, in grado di
operare una sostanziale ma tematizzazione dell’osservato, una selezione e una
conseguente restituzione illusionistica del reale, del tutto analoga alla
rappresentazione della prospettiva lineare quattrocentesca, anch’essa basata su una
visione esclusivamente monoculare (Miraglia, 2011, p. 14).
La rappresentazione fotografica, da un lato ordina la realtà secondo logiche
bidimensionali – che determinano uno scarto informativo molto elevato
modellandosi secondo distorsioni verticali e orizzontali dipendenti dall’ottica
impiegata – e dall’altro riorganizza lo spazio secondo linee proprie, che poco o nulla
hanno a che vedere con la realtà.
La memoria identitaria si costruisce su immagini mentali che provengono quasi
sempre da mezzi meccanici; in questo senso, la macchina fotografica costringe
l’occhio all’interno di uno schema prospettico rigido, in cui le cose si dispongono
secondo ordini di importanza gerarchica, in relazione con il maggiore e minore grado
di vicinanza con il punto di osservazione.
Al fine di garantire l’identità rappresentativa di sguardo e immagine infatti, è
necessario che una fotografia, nel momento in cui la si contempli, si trovi
esattamente nel “punto di incrocio” dei raggi preso come fondamento della sua
costituzione. Tenendo conto che la stampa ottocentesca avveniva nel formato 21x27
e che la distanza focale “normale” in relazione a tale formato era di circa 34 cm, il
“normale” era l’unica ottica che potesse tener conto della distanza media della lettura
– circa 34 cm – per l’evidente coincidenza fra angolo di ripresa e angolo di visione in
fase di lettura dell’immagine, non a caso alcuni fotografi tra i quali Vasari,
sostituirono la vecchia nomenclatura “album” una volta attribuita al formato 21 x 27,
con quella più pertinente di “normale” che, mentre indicava l’obbiettivo utilizzato
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per la ripresa, esprimeva parallelamente l’esplicita volontà di mantenersi nello
specifico della norma, ossia nella neutralità dello sguardo che con chiara forzatura
veniva a coincidere con le convenzioni rappresentative del Quattrocento e con le
abitudini visive della committenza e dell’utenza (Vogel, 2010).
Tutta la fotografia delle origini, indipendentemente dai generi trattati, si è avvalsa di
obbiettivi “normali”, cosa che ebbe come conseguenza quella di ribadire quale unica
prerogativa del mezzo, proprio la sua presunta facoltà mimetica.
Se la stereometria
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, con il suo sistema ottico binoculare sembrava mimare lo sguardo
umano e la sua capacità di collocare gli oggetti della raffigurazione nella profondità
dello spazi, l’ottica “normale” pur muovendosi nell’ambito più classico della
convenzionalità rappresentativa, veniva a esaltare più di altri, la mimesi e il carattere
di trasmettitore neutro e falsamente naturale attribuito alla fotografia (Miraglia, 2011,
p. 54).
Chiaramente, le conoscenze ancora esigue circa l’ottica applicata alla fotografia
giocarono un ruolo molto forte nell’individuare nel “normale” l’obbiettivo più usato,
dal momento che la scelta era in un certo senso obbligata. È anche vero però, che il
“normale” riprendeva dalla tradizione la concezione scientifica della “veduta”, il cui
precursore storico è da individuare in quella concezione quattrocentesca
antropocentrica dello spazio, capace di garantire l’aspetto razionalizzante e
l’universalità rappresentativa del processo conoscitivo nonché la sua capacità
selettiva e di sintesi intesa proprio come artificio prospettico di restituzione del reale.
Interessante in tal senso, è osservare come ogni volta che la borghesia si sia
affacciata o si sia imposta nella storia sociale e politica, l’ottica della “veduta” si è
configurata nuovamente come forma unica e privilegiata della rappresentazione
simbolica in grado di presentare come verità assoluta la visione del mondo e la
gerarchia di valori che il potere ha adottato di volta in volta come strategia visiva per
l’esercizio del proprio dominio.
È anche per queste ragioni che verrà affrontato nei prossimi capitoli il tema relativo
alla fotografia in alcuni periodi politici importanti e, nello specifico, come questi
hanno saputo sfruttare il mezzo per fornire al popolo le proprie versioni della storia.
1
La stereometria è quella parte della geometria che si occupa dello studio delle figure nello spazio.