Introduzione
Mani grandi, senza fine. Nascita e ascesa del design a Milano: questo è il titolo dello
spettacolo teatrale che vede in scena le storie di sei designer milanesi che hanno
fatto la storia della città di Milano, grazie alle loro opere: i fratelli Castiglioni, Marco
Zanuso, Roberto Menghi, Vittoriano Viganò, Vico Magistretti ed Ettore Sottsass.
Ciascuno di essi è protagonista dello spettacolo teatrale, ma le loro vicende sono
affrontate dall'attrice-autrice Laura Curino da un punto di vista molto particolare,
quello cioè degli oggetti che li hanno accompagnati lungo tutta la loro carriera.
Con questo lavoro si è cercato di fornire un'analisi completa dello spettacolo,
rappresentato per la prima volta in occasione del Cinquantesimo del Salone del
Mobile nelle serate del 11 e del 12 Febbraio 2011, presso il Piccolo Teatro Studio
Expo. Dato il successo riscontrato, lo spettacolo è stato riproposto anche quest'anno
per un'intera settimana, sempre in concomitanza con il Salone del Mobile, dal 17 al
24 aprile.
Una parte centrale della questione era proprio l'unione tra creatività d'artista, di
progettista, di architetto e di aziende che producono. Cioè qualche cosa che ha
cambiato radicalmente non solo le tecniche, ma anche il pensiero di tantissimi
artigiani della Brianza Milanese. Lì è accaduto che attraverso l'incontro non sono
cambiate solo le tecniche, ma è cambiato il modo di pensare e di ragionare di queste
persone, è cambiato il mercato, è cambiato il mondo.
Questi oggetti hanno cambiato il mondo
1
.
In questa affermazione di Laura Curino, si cela la motivazione principale che ha
portato questa grande attrice-autrice ad occuparsi di un argomento come quello del
1. Tratto dall'intervista realizzata con Laura Curino, per approfondimenti consultare l'Appendice
Documentaria C, allegata all'elaborato.
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design in uno dei suoi spettacoli: ciò che l'ha colpita è stato il peso che gli oggetti di
design e i loro creatori hanno avuto sul panorama italiano dell'immediato secondo
dopoguerra. Laura Curino non era in realtà estranea al mondo del design, avendo
già realizzato in passato due spettacoli come Camillo Olivetti: alle radici di un sogno
(1997) e Adriano Olivetti: un sogno possibile (1998), ma si è avvalsa comunque della
collaborazione di un esperto di design come Manolo De Giorgi e di un vecchio
compagno del Laboratorio Teatro Settimo, Lucio Diana.
Nel primo capitolo di questo elaborato è stato fornito il contesto storico che ha
anticipato e influenzato la crescita professionale dell'attrice-autrice Laura Curino.
A partire dal Nuovo Teatro dell'immediato secondo dopoguerra, le cui prime
anticipazioni sono sorte in America, per poi diffondersi anche nel panorama
europeo, sono stati fatti accenni alle principali innovazioni teatrali del periodo: il
Living Theatre, il fenomeno dell'happening e il Teatr Laboratorium di Grotowski,
senza però dimenticare alcuni tra i personaggi che hanno lasciato un'impronta
indelebile nella storia del teatro, come Peter Brook, Carmelo Bene e Eugenio Barba.
Passando poi alle neo avanguardie degli anni '70 – dal passaggio alla drammaturgia
dell'io alla nascita dei gruppi teatrali degli anni '80 – si è indagato con più profondità
sulla nascita e sugli sviluppi del Laboratorio Teatro Settimo: gruppo teatrale nato nel
1981 a Settimo Torinese, che fin dagli esordi ha voluto distanziarsi dalle correnti in
voga nel periodo, alla costante ricerca di un modo diverso per narrare la realtà. In
particolare si è voluto concedere maggiore attenzione allo spettacolo itinerante
Stabat Mater (1989), a cui parteciparono oltre a Laura Curino, anche Lucilla
Giagnoni, Mariella Fabbris e Roberto Tarasco, segnando una svolta nelle loro
carriere di attori: un teatro portato di casa in casa, senza mai togliere gli abiti di
scena, che ha comportato di conseguenza un rapporto diretto e personale con il
pubblico, ottenuto grazie anche alla componente rituale che risultava in ogni messa
in scena.
Una parte consistente del primo capitolo è dedicata al teatro di narrazione, a partire
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dalla svolta rappresentata dagli spettacoli Kohlhass di Marco Baliani (1989),
Passione (1993) di Laura Curino e Il racconto del Vajont (1993) di Marco Paolini.
Questi tre grandi attori-autori si collocano come eredi diretti di un altro grande
affabulatore, Dario Fo, che aveva scoperto il teatro di narrazione con trent'anni di
anticipo, ma che era stato surclassato sia dal Teatro Povero di Grotowski sia dalle
avanguardie.
L'ultimo paragrafo è dedicato all'attività teatrale degli ultimi anni di Laura Curino, che
non ha mai smesso di narrare le sue storie: vicende legate molto spesso al mondo
del lavoro e del sociale, che riescono ad essere sempre di forte impatto, grazie alle
interpretazioni dell'attrice-autrice.
Nel secondo capitolo invece è stata realizzata l'analisi dello spettacolo
teatrale, a partire dalla linea narrativa che percorre l'intero lavoro: qui vengono
sottolineate le origini dello spettacolo, nato come tappa di un progetto intitolato
Realizzare l'improbabile, di Manolo De Giorgi, Andrea Kerbaker e Italo Lupi, in
rappresentanza della Fondazione Bassetti; di seguito viene fatta una panoramica
sull'Italia del secondo dopoguerra, in cui si collocano i sei designer protagonisti e dei
quali è stata realizzata una breve presentazione.
Segue uno schema di analisi della struttura testuale dello spettacolo, che non
presenta una divisione interna evidente, ma ad un'analisi più attenta il testo teatrale
può essere suddiviso in otto sezioni: infatti, a parti prettamente narrative con cui
viene raccontato il contesto storico del dopoguerra, seguono i monologhi dei
personaggi-oggetto, ciascuno col compito di narrare dal proprio particolare punto di
vista, la vita e le opere dei designer a cui sono appartenuti.
Il secondo paragrafo si occupa del testo, composto da parti molto differenti tra loro:
due testimonianze dirette del designer Ettore Sottsass, tre dialoghi immaginari tra
personaggi fittizi, cinque monologhi dei personaggi-oggetto e infine tre citazioni di
opere letterarie. Il linguaggio, particolare fondamentale nel teatro di Laura Curino,
che fin dagli anni del Laboratorio Teatro Settimo ha prodotto testi variamente
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caratterizzati dall'uso del dialetto, viene giustificato grazie alla testimonianza di
Gabriele Vacis, compagno fondatore del Settimo insieme all'attrice.
Nel paragrafo successivo invece viene affrontata l'analisi dell'azione scenica e
dell'uso dello spazio, sottolineando in particolare i movimento sulla scena dell'attrice-
autrice e l'utilizzo singolare di tre diversi leggii durante la narrazione.
Il quarto paragrafo si occupa dell'indagine sui personaggi-oggetto, veri protagonisti
dello spettacolo teatrale: si tratta di oggetti di uso comune e non tutti sono opere dei
sei designer, perché lo scopo di Laura Curino era quello di trovare i personaggi-
oggetto più adatti a descrivere i loro proprietari. Per questo motivo compaiono cinque
oggetti veri e propri, uno per ciascun designer: lo specchio dello studio dei fratelli
Castiglioni, la poltrona Lady di Marco Zanuso, la casa di Vittoriano Viganò, la finestra
dello studio di Vico Magistretti e il coccio di ceramica di Ettore Sottsass. Solamente
Roberto Menghi si distingue dal gruppo, dato che è descritto da Arlecchino, un
personaggio fittizio liberamente ispirato all'Arlecchino servitore di due padroni di
Goldoni e scelto da Laura Curino perché porta lo stesso nome del cinema progettato
dal designer.
Il quinto paragrafo si occupa della scenografia, con particolare attenzione per le
immagini e i video proiettati sullo sfondo, mentre l'ultimo analizza l'uso delle luci e
della musica durante la messa in scena.
Infine si possono trovare allegati in appendice una serie di documenti: il
copione dello spettacolo, sulla quale ho basato la mia analisi, argomentata nel
secondo capitolo dell'elaborato;
l'intervista a Laura Curino, realizzata
personalmente grazie alla disponibilità e gentilezza della stessa attrice-autrice; il
libretto di scena, in cui compaiono gli interventi di Laura Curino, di Sergio Escobar –
direttore del Piccolo Teatro di Milano, di Manolo De Giorgi e di Piero Bassetti della
Fondazione Bassetti; in conclusione una raccolta di immagini fotografiche dello
spettacolo, la maggior parte realizzate dal fotografo Attilio Marasco.
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I
Dal Nuovo Teatro al teatro di narrazione:
le radici e il percorso dell'attrice-autrice Laura Curino
I.1 Il teatro del dopoguerra
Per Nuovo Teatro si intende quella vasta e frastagliata area di esperienze teatrali che,
dagli anni cinquanta in avanti, hanno cercato un po' dovunque - dagli Stati Uniti
all'Europa - di contrapporsi al teatro ufficiale, commerciale e di cultura, nel tentativo di
far emergere alternative ad esso non soltanto sul piano del linguaggio, delle forme e
degli stili, ma anche su quello dei modi di produzione
2
.
Il teatro dal dopoguerra a oggi ha subito una lunga serie di cambiamenti e di
innovazioni sperimentali, talmente vari e influenti da dover essere quantomeno
accennati, prima di poter parlare e definire il teatro di narrazione di Laura Curino.
Grazie al lavoro di ricerca effettuato da Marco De Marinis ne Il Nuovo teatro 1947-
1970, tali cambiamenti e sperimentazioni possono essere facilmente individuati.
In America, tra il 1947 e il 1959, si possono individuare le prime anticipazioni di
un nuovo teatro, che finirà per influenzare anche il panorama teatrale europeo. Primo
tra tutti deve essere citato John Cage, che organizzò un evento nel 1952 al Black
Mountain College, presentando al pubblico un'anticipazione dei caratteri più
importanti del futuro Nuovo Teatro: l'interdisciplinarità (danza, musica, poesia…); un
carattere paritario di tale interdisciplinarità (ogni elemento ha perciò la stessa
importanza degli altri); la presenza di elementi improvvisati all'interno dell'evento; e
infine l'assenza della quarta parete, che implica quindi l'assenza di un punto di vista
univoco.
2. De Marinis Marco, Il Nuovo teatro 1947-1970, Milano, Bompiani, 2000, cit., p.2.
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La prima vera svolta che portò al Nuovo Teatro si ebbe nel 1947, quando una
coppia di artisti, Julian Beck e Judith Malina, diede l'avvio al Living Theatre.
L'intenzione dei due era quella di creare un teatro vivente basato sui testi
contemporanei, ma doveva essere anche un teatro di repertorio con un programma
molto vario. Il Living fu per parecchi anni un teatro letterario, quindi un teatro in versi,
ma quando questo tentativo dei primi anni cinquanta si rivelò un fallimento, cercarono
testi che dessero immediatezza al proprio teatro, rivolgendosi in particolare a
Pirandello. Nei primi anni Sessanta il Living si interessò invece al rapporto tra attori e
spettatori, che doveva essere vero e reale: ciò che accadeva in scena doveva essere
vita vera, non finzione, perciò i Beck decisero di conciliare il teatro della crudeltà di
Artaud e il teatro politico di Brecht. Quando la ricerca di una sede stabile divenne
problematica, nel 1963 il Living Theatre abbandonò l'America e si rivolse all'Europa,
dando avvio a una peregrinazione di quattro anni
3
.
De Marinis individua nel 1959 l'anno di svolta del Nuovo Teatro, a causa del
gran numero di eventi e novità che lo percorsero: per fare solo alcuni esempi, il '59 è
l'anno di nascita del Teatr Laboratorium di Grotowski, nello stesso periodo esordisce
Eugenio Barba e Kantor pubblica il suo manifesto teatrale. Sempre nel 1959 si
manifestano in America i primi fenomeni del cosiddetto happening, che divenne
presto una moda, sbarcando anche in Europa a inizi anni '60: uno dei suoi caratteri
più importanti è la decostruzione del pubblico, quindi la ricerca di un rapporto più
stretto tra attore e spettatore, rendendo quest'ultimo un partecipante attivo
dell'evento; mentre il suo grande limite, secondo Peter Brook, è l'incapacità di
sfruttare la disponibilità emotiva e percettiva dello spettatore, che si riesce a ottenere
proprio grazie agli choc violenti che compongono l'happening stesso.
Paradossalmente in contemporanea nacque un fenomeno che più di tutti si
opponeva all'happening, cioè il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski: il Teatro
Povero abbandonava ogni mezzo espressivo all'infuori dell'attore, opponendosi
3. Per approfondimenti: Cascetta Annamaria, Peja Laura (a cura di), Ingresso a teatro. Guida
all'analisi della drammaturgia, Firenze, Le Lettere, 2002.
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principalmente al Teatro Ricco, in assurda competizione con il cinema e la
televisione; motivo per la quale Grotowski eliminò tutti quegli elementi non
indispensabili del teatro (costumi, scenografie, trucco…). Per Grotowski infatti era
ben più importante il rapporto tra attori e pubblico: bisogna indurre lo spettatore a
una partecipazione più autentica e profonda all'evento teatrale, rendendolo un
elemento specifico dello spettacolo e integrandolo nell'azione scenica; lo spettatore
deve raggiungere il ruolo di testimone. Fondamentale per il Laboratorium era il
problema della formazione dell'attore e della formulazione degli esercizi: solo così
l'attore può imparare a superare i propri limiti, raggiungendo un'espressività fisica
totale. Ma tali esercizi devono essere individuali e motivati psicologicamente per
essere utili ed efficaci; e inoltre il movimento deve provenire sempre dall'interno del
corpo, non dalle periferie (dita, mani…). Quindi con Grotowski l'accento era posto
sempre sul corpo, mentre la parola veniva messa in secondo piano, poiché era
considerata uno strumento che aiuta a nascondersi, non a svelarsi.
In Inghilterra nello stesso periodo il regista inglese Peter Brook, che all'epoca
dirigeva la più importante compagnia inglese, la Royal Shakespeare Company,
rigenera le opere del bardo ma non ne è pienamente soddisfatto: per rifondare il
teatro, bisogna perciò riesaminarlo fin dalle fondamenta. Per farlo occorre
sperimentare: ecco quindi il motivo per cui Brook entrò in contatto con gli scritti di
Artaud, con l'happening, col Living Theatre e con Grotowski. A partire dagli anni '60
Brook si interessò maggiormente al rapporto tra spettatori e attori, dunque a una
partecipazione più autentica del pubblico: pensò di elaborare da un lato un
linguaggio più violento, diretto, e dall'altro degli argomenti più scottanti e d'attualità,
per focalizzare l'attenzione degli spettatori.
I.1.1 Il Nuovo Teatro
In Italia sul finire degli anni '50 si assiste all'esaurirsi della generazione di artisti che
aveva rifondato la regia in Italia nel dopoguerra, tra i quali Strehler e Squarzina. Un
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personaggio di spicco degli anni '60 è invece Carmelo Bene, che esordisce nel 1959
con Caligola di Camus e che già mostra gli elementi che lo caratterizzeranno: una
recitazione dai movimenti eccessivi e da suoni forti, un forte gusto per la parodia,
una predilezione per la sintesi estrema e la preferenza per il teatro elisabettiano e per
il simbolista. Tra gli altri pionieri del Nuovo Teatro italiano bisogna senza dubbio
citare Carlo Quartucci e Mario Ricci, ma non si può dimenticare l'effetto rivoluzionario
dello spettacolo Zip di Giuliano Scabia, andato in scena nel 1965 a Venezia: è stato il
primo testo italiano del Nuovo Teatro italiano, realizzato per la prima volta grazie alla
collaborazione tra un teatro stabile e un gruppo di avanguardia. Dopo questa messa
in scena, lo scontro tra vecchio e nuovo teatro divenne ufficiale, grazie anche a un
convegno tenutosi a Ivrea nel 1967, intitolato "Convegno per un Nuovo Teatro".
Tra la fine degli anni '60 e gli inizi dei '70, si verificano nel nostro teatro da una
parte gli esiti migliori della neo avanguardia, dall'altro il fallimento del nuovo teatro
italiano nel costituire un'alternativa credibile al vecchio teatro.
Fuori dall'Italia tra i gruppi teatrali del nuovo teatro ha avuto grande longevità l'Odin
Teatret di Eugenio Barba: fondato nel 1964, l'Odin è inizialmente caratterizzato dalla
sperimentazione e dagli spettacoli al chiuso con un numero ristretto di spettatori;
dopo il 1974 invece predilige gli spettacoli all'aperto. Fin dai primi spettacoli il tema
principale è quello della diversità e dell'incontro tra culture differenti. Barba aveva
incontrato Grotowski ed era stato testimone passivo del lavoro del Laboratorium tra il
1961 e il 1964: certamente questo incontro ha avuto un ruolo fondamentale nello
sviluppo del teatro di Barba, in particolare per quanto riguarda il training dell'attore,
considerato dall'Odin fondamentale.
Come già accennato il Living Theatre sbarcò in Europa a metà anni sessanta,
ma invece di limitarsi a predicare il cambiamento, lo praticava al suo interno: questo
implicava di conseguenza l'eliminazione delle distinzioni tra ruoli e compiti, in
particolare quella tra regista e attori.
Il 1970 è indicato da De Marinis come l'anno di conclusione e di crisi definitiva
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del Nuovo Teatro, poiché in questo anno molti suoi esponenti abbandonando la
scena. Con gli anni '70 comincia un nuovo ciclo caratterizzato da una dilatazione del
fatto teatrale, dall'accento sul processo creativo e da una forte diffusione del teatro.
I.1.2 Il teatro delle neo avanguardie degli anni '70 e la drammaturgia
dell'io dei primi anni '80
L'opera di costruzione di un teatro astratto è avvenuta negli anni '70, quando
vengono azzerati tutti gli elementi di scena, a partire dal racconto drammatico e
dall'interpretazione psicologica dei personaggi. La scena diventa astratta perché
rinuncia ad utilizzare il testo letterario in quanto ordinatore dello spettacolo e il
principio di astrazione determina la separazione tra il testo verbale e le azioni dei
personaggi, perché ciò che conta sono «il piano iconografico, gestuale, spaziale,
sonoro, ciascuno fa sistema a sé»
4
. Il teatro delle neo avanguardie è astratto sia
perché non imita la realtà ma la destruttura, sia perché porta in scena sempre
qualcosa di profondamente reale e vero: rifiutando la subordinazione dello spettacolo
al testo drammatico, immette al suo interno arti visive, danza, cinema e musica. Il
teatro degli anni '70 ha sperimentato una drammaturgia non dominata dal testo
letterario, ma da altri elementi espressivi, riducendo il testo a un semplice
componente. Secondo Valentina Valentini il teatro degli anni '70 ha eletto a soggetto
l'environment, perciò ha diviso la scena in parti, spezzando il flusso degli eventi e ha
trattato liberamente il concetto di tempo. Avendo quindi perso la sua funzione
ordinatrice dello spettacolo, il testo ha potuto assumere forme diverse, da quella di
voce narrante, a quella di voce fuori campo.
La differenziazione più grande che si nota nel passaggio tra gli anni '70 e gli '80
è nell'atteggiamento dell'autore rispetto alle sue fonti: negli anni '80 la citazione,
l'appropriazione e il rifacimento di un opera preesistente non appaga più come nel
decennio precedente.
4. Valentina Valentini, Dopo il teatro moderno, Milano, Giancarlo Politi Editore, 1989, cit., p.16.
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