I
Introduzione
Questa tesi è nata quasi per caso, da piccoli particolari notati personalmente durante il mio
periodo di stage. Io stesso ho effettuato il tirocinio obbligatorio per un mese presso i Musei
Civici di Padova e trovandomi nella posizione di scegliere il luogo più adatto ai miei interessi,
optai per la Cappella degli Scrovegni. Trovandomi faccia a faccia con l'opera di Giotto, fortu-
natamente non ho potuto far altro che ammirare il suo lavoro anche nei minimi dettagli. Più di
tutto la mia attenzione si è soffermata sul Giudizio universale e su una parte di esso, l'Inferno.
Avevo da poco tempo superato un esame di filologia dantesca ed avevo la convinzione che
l'Inferno di Giotto fosse stato suggerito da Dante. Il mio interesse accrebbe e la curiosità mi
portò ad approfondire la tematica in questione, accostandomi ad una buona mole di materiale
storiografico e critico. Da questi nacque il secondo capitolo della presente tesi, dove traccio
dei lineamenti storici per seguire l'evolversi delle vicende che hanno portato alla costruzione
della cappella e una breve descrizione del ciclo pittorico in essa presente. Quindi, partendo
dall'alto dove iniziano la storia dei genitori della Vergine e dell'infanzia di Maria, scenderò di
registro nella descrizione della vita di Cristo fino all'ultima fascia in basso dedicata alle alle-
gorie delle Virtù e dei Vizi. L'ultima parte del capitolo è riservata alla genesi storica del Giudi-
zio universale e alla sua descrizione. Nel terzo capitolo invece, laddove verte il mio interesse,
ho isolato dal resto del ciclo pittorico l'Inferno, e ho accostato alle immagini dipinte da Giotto
la narrazione della Divina Commedia, offrendo un parallelismo. Ciò che ne deriva è una
straordinaria vicinanza di poetiche tra Dante e Giotto, sottolineando le affinità di alcuni parti-
colari dell'affresco con i rispettivi estratti della Divina Commedia. Il dubbio sorge quando ci si
domanda se Dante abbia potuto influenzare la stesura iconografica del pittore o viceversa. A
questo punto ho allargato il discorso su un possibile punto di incontro tra i due grandi maestri
di questo secolo, tra Padova e Roma. Le fonti storiche offrono una data certa sulla conclu-
sione del lavoro giottesco, il 1305, mentre ancora molti dubbi circondano quella delle prime
cantiche del sommo poeta. Per rispondere a questi quesiti nel quarto capitolo andrò ad inve-
stigare dapprima il periodo in cui la Divina Commedia divenne di pubblico dominio, in se-
guito tenterò di datare il suo componimento, basandomi sull'accurata indagine di alcuni dan-
tisti. Sfortunatamente la mia ricerca termina solo con delle ipotesi, perché prove inconfutabili
5
non accorrono in mio aiuto, quindi la mia ricerca non pretende dare spiegazioni assolute né
tanto meno intende forzare i dati in possesso, piuttosto si offre come una possibile chiave di
lettura. Le mie personali conclusioni giungeranno ad affermare che probabilmente Dante fu
condizionato nella stesura della sua opera dalle innovazioni giottesche. Seguirà quindi un
piccolo apparato fotografico e la bibliografia.
6
II
La Cappella degli Scrovegni
2.1 Cenni storici sulla sua costruzione
Sebbene la storia della cappella abbia radici lontane, il 26 giugno del 1090, quando l'impe-
ratore Enrico IV donò al vescovo padovano Milone dei terreni, specificando la zona dell'Are-
na romana, in verità la chiesa di Santa Maria della Carità fu costruita sull'antica pianta dell'an-
fiteatro solo ai primi anni del Trecento. È da escludere che vi fosse stata un'eventuale cappella
precedentemente lì ubicata
1
. La committenza si deve ad Enrico Scrovegni che dimorava nel
palazzo a fianco
2
. Infatti la chiesa, poi denominata Cappella degli Scrovegni, originariamente
aveva la parete nord addossata direttamente al palazzo familiare che dava la facciata verso
l'interno dell'Arena. Questo fu poi abbattuto dagli eredi, i nobili Gradenigo, nel 1827
3
. Simile
sorte spettava alla Cappella, così come agli affreschi, una volta staccati, poiché erano destinati
alla vendita. Fortunatamente la trattativa del passaggio di proprietà al comune di Padova,
dopo una sessantina d'anni di sforzi, si concluse nel 1880
4
. Chiesa venduta, monumento sal-
vato per i posteri. Ma non esattamente integra, si dovette quindi operare d'urgenza per salvare
il ciclo di affreschi. Infatti si crearono danni irreparabili alla pellicola pittorica, dovuti all'ab-
battimento del palazzo di famiglia e della loggia in facciata, che lasciarono la chiesa in balìa
delle intemperie e delle infiltrazioni.
La chiesa fu costruita grazie alle ricchezze della famiglia Scrovegni, che però non provengono
1 C. Bellinati, Nuovi studi sulla Cappella di Giotto all'Arena di Padova, Padova, Il Poligrafo, 2003, p. 19
2 Ultimamente va intensificandosi l'ipotesi che Enrico fosse stato aiutato dall'Ordine dei Cavalieri gaudenti.
«Se il culto della Vergine Maria e la battaglia contro l'usura sono stati le caratteristiche essenziali di questo
Ordine; ciò che sembra essere stato l'elemento tipologico specifico fu la castità dei Cavalieri gaudenti», ciò
troverebbe conferma nell'Inferno che «sembra brulicare di dannati, spesso religiosi, che hanno compiuto pec-
cati anche contro la castità». G. Lorenzoni, Su alcuni aspetti iconografici dell'Inferno di Giotto nella Cappel-
la Scrovegni di Padova, in «Hortus artium medievalium», 4, 1998, p. 158
3 «Sempre i Gradenigo avevano già lasciato cadere, per non medicata vecchiezza, l'antico portico a tre archi
addossato alla facciata (…) e nel 1829 avevano aggredito la cappella stessa, cominciando con lo scoperchiare
il tetto dell'annessa sacrestia nell'intento di ricavare materiale da costruzione». C. Frugoni, L' affare migliore
di Enrico. Giotto e la Cappella Scrovegni, Torino, Einaudi, 2008, p. 6
4 Dopo lo spettro della vendita degli affreschi all'Arundel Society, il 10 maggio 1880 l'assessore alla cultura
Tolomei spinse il Consiglio all'acquisto del terreno con fabbriche denominato l'Arena dai conti Gradenigo
per 54.921 lire. G. Pisani, I volti segreti di Giotto, Milano, RCS Libri, 2008, p. 25
7
da Enrico, bensì dal padre di lui, Rainaldo o Reginaldo
5
. Il giudice padovano Giovanni da
Nono (1276 ca.-1346), ci narra di un Rainaldo Scrovegni, soprannominato mona di scrofa,
come un giullare intrallazzato con le famiglie più ricche di Padova, che si arricchì con l'usura
accumulando un patrimonio di 500.000 lire. Questi, sposatosi con Cappellina Malacapella
6
,
mise al mondo il futuro committente della chiesa, Enrico.
Le fonti dell'epoca però narrano di una diversa posizione sociale di Rainaldo, ora nominato
vir nobilis ora dominus, che cambierebbero il punto di vista giunto fino ad oggi, così come
forse è errato parlare di usura
7
. Voci invece che probabilmente influirono sulla stesura dell'In-
ferno di Dante, dove compare nel settimo cerchio dei violenti proprio Rainaldo; voci che
condizionarono non solo il sommo poeta, bensì anche Benvenuto da Imola, suo com-
mentatore
8
.
La Frugoni avanza dei dubbi sulla veridicità del peccato di usura della famiglia. Innanzi tutto
gli usurai non potevano esser sepolti in un luogo consacrato, e Rainaldo ha la tomba nella
cattedrale. Si sposò con Cappellina, figlia di una nobile famiglia di Vicenza, così come fece
unire i figli con altre famiglie abbienti, mentre era cosa sconveniente allacciare rapporti matri-
moniali con un usuraio. Il figlio Enrico si sposò con la figlia di Bonifacio da Carrara, il cui
nome non ci è pervenuto, mentre la nipote sua sposò Marsilio da Carrara, futuro signore di
Padova. Fallito il primo matrimonio
9
, Enrico prese in moglie Iacobina d'Este, di famiglia an-
cora più importante. Così come tutti i suo parenti si intrecciarono in famiglie potenti, venne a
crearsi una sorta di banca legale dove circolavano immense ricchezze dovute anche a rein-
vestimenti di terreni nel Veneto. Enrico oltre ai beni giuntigli dall'eredità, accrebbe la sua
5 «Reginaldo era stato l'agente finanziario di Giovanni Forzatè, [che fu] nominato vescovo da Innocenzo IV
Fieschi in funzione antiezzeliniana e protagonista della riconquista pontificia di Padova; ma anche in seguito
la posizione della famiglia [Scrovegni] rimase per decenni fortissima nell'area di potere dell'episcopato
padovano». S. Romano, La O di Giotto, Milano, Electa, 2008, p. 149
6 «Il matrimonio con Capellina, figlia di Enrico Malcapelli di Vicenza, gli permise di allargare il suo raggio di
azione e di svolgere una fiorente attività finanziaria col comune vicentino, concedendo a quanti si rivol-
gevano a lui, grossi prestiti. In un momento in cui la bestia dell'usura signoreggiava l'angelo di ogni persona
benestante, nonostante le invettive di Sant'Antonio, Reginaldo seppe talmente volgere a proprio vantaggio i
prestiti del denaro, da essere ritenuto il più grande usuraio del tempo». C. Gizzi, Giotto e Dante, Milano, Ski-
ra, 2001, p. 19
7 Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 14
8 «Uno peraltro di quei signori avea guadagnata fama infame anche presso le plebi, sebbene non fosse scan-
natore di professione. Era costui quel Reginaldo cui Dante dette celebrità imperitura ponendolo nell'Inferno;
e meritò davvero tale poco desiderabile onore, perché tenuto come il più grande usurajo in un tempo nel
quale l'usura era lebbra congenita quasi ad ogni ricco. Se costui non iscorticava il suo simile colla spada, gli
levava la pelle colle usure». P. Selvatico, Visita di Dante a Giotto nell'oratorio degli Scrovegni, in Dante e
Padova, studj storico-critici, Padova, Sacchetto, 1865, p. 107
9 «Lo scioglimento del primo matrimonio di Enrico, non sappiamo se la moglie morì o fu ripudiata per man-
canza di figli maschi, contribuì ad allentare i rapporti con i Carraresi. Enrico contrasse un secondo matri-
monio ancor più ragguardevole perché sposò, certamente prima del 1320, Iacobina d'Este, figlia del marchese
Francesco d'Este e sorella di Azzo IX d'Este». Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 20
8
ricchezza prestando denaro ed addirittura finanziando il comune di Padova. Tra le sue fre-
quentazioni si annoverano il pontefice Benedetto XI
10
, l'imperatore Enrico VII, i marchesi
D'Este e Cangrande della Scala, mecenate dello stesso Dante.
Le attività finanziarie legittime di Enrico a poco a poco superarono i confini patavini, così
come ebbe già fatto il padre, per sfociare nella città di Venezia, dove morì. La sua figura ac-
crebbe sempre più d'importanza in Laguna, tanto è vero che divenne cittadino a tutti gli effetti
della Serenissima.
Enrico costruì nel 1294 nella contrada di San Gregorio la chiesa di Sant'Orsola, per poi in un
secondo momento devolverla ai cistercensi. Sempre a sue spese comprò il terreno dell'Arena e
il palazzo lì ubicato, dal legittimo proprietario in odore di bancarotta Manfredo, figlio di Gue-
cillo dei Dalesmanini, per 4000 denari veneti piccoli. Un affare, poiché il valore dell'Arena
era ormai divenuto irrisorio, infatti i continui spogli per riuso, resero il monumento romano
una vera cava
11
. La scelta ricadde su questa dimora probabilmente dopo una breve sommossa
popolare
12
, ed in seguito Enrico chiese il permesso, tra il 6 febbraio 1300 e il 29 aprile 1302,
di costruirvici una chiesa
13
.
Il peso politico e probabilmente oratorio di Enrico è certificato dalla sua presenza in qualità di
ambasciatore presso Azzo d'Este e di mediatore con Cangrande della Scala. Infatti lo scaligero
nel 1318 con la sua politica aggressiva giunse ad un passo dalla città di Padova. Attraverso
una delegazione composta anche da Enrico, la trattativa terminò il 25 luglio con l'elezione di
10 «Questo papa firmò tre atti che ben mostrano di che tipo di credito godesse in quegli anni Enrico Scrovegni.
Il primo è il documento del 13 dicembre 1303, con cui Benedetto XI concede a Giacomo de Malacapellis
[Enrico è suo consanguineo] di poter accedere a ogni carica e beneficio ecclesiastico nonostante la sua
nascita illegittima (…) il fatto che Benedetto XI fosse straordinariamente indebitato, ad esempio con ban-
chieri fiorentini, ed Enrico un ricco possidente uso a prestar denaro, non doveva forse essere elemento estra-
neo all'affezione». Romano, La O di Giotto, cit., 2008, pp. 159-160
11 Bellinati, Nuovi studi sulla Cappella di Giotto all'Arena di Padova, cit., 2003, p. 20
12 Si tramandò che la notte prima del funerale di Reginaldo, la plebe armata di forconi voleva rimpossessarsi di
ciò che l'usuraio privò loro, solo il tempestivo intervento dell'Arciprete, Giovanni degli Abati, riportò la cal-
ma annunciando che Reginaldo voleva investire i soldi in un'opera pia e minacciando con la scomunica chi
non desisteva dai cattivi propositi. Enrico per questo non si sentiva sicuro della propria dimora, senza torri né
mura da castello che potessero difenderlo da un nuovo tumulto, specialmente se infiammato e pilotato da
qualche suo oppositore. Allora scelse il palazzo dei Dalesmanini quando seppe che Manfredo, attanagliato dai
debiti, voleva venderlo. Selvatico, “Visita di Dante a Giotto”, cit., 1865, pp. 101-192
13 «Enrico chiese al vescovo Ottobono de' Razzi l'autorizzazione ad erigere entro il recinto dell'Arena un
cenobio per l'ordine dei Frati Gaudenti e una chiesa da dedicare alla Santissima Annunziata, la cui festività
avrebbe dovuto celebrarsi, con la massima solennità, il 25 marzo di ogni anno. Secondo l'epigrafe dedicatoria
della cappella, tramandata dallo Scardeone, la prima pietra fu posta solennemente il 25 marzo 1303 e il 25
marzo 1305 fu dedicata a Santa Maria de' Caritate, de Harena (…) Quando l'edificio fu condotto a compi-
mento, giunse Giotto, con alcuni suoi discepoli, e come prima cosa fece allungare la struttura della cappella e
chiudere porte e finestre, per ricavare spazio per i progettati affreschi. Sembra inoltre che abbia voluto la
grande trifora romanico-gotica sulla facciata, quale principale sorgente luminosa per tutti gli affreschi».
Gizzi, Giotto e Dante, cit., 2001, p. 47
9
Jacopo da Carrara «protettore e governatore»
14
della città. Stratega illuminato, mediatore
persuasivo, finanziere incallito e quasi profeta, intuì istantaneamente la possibilità di una fama
duratura attraverso un'opera magnifica, ma soprattutto un simbolo che specchiasse il proprio
potere politico e sociale, ben oltre quello che potesse dargli il solo stemma di famiglia.
Perché ciò avvenisse chiamò a sé due tra i più importanti e famosi artisti dell'epoca: Giotto
nell'ambito pittorico e Giovanni Pisano, figlio di Nicola, entrambi scultori. In verità sembre-
rebbe che lo scultore non avesse preso parte fisicamente al progetto della cappella, lavorando
nel proprio studio, per poi spedire a Padova le tre statue dell'altare tra il 1305-06.
La sua gloria prendeva forma e non a caso, nell'epigrafe in latino perduta, che doveva trovarsi
davanti al proprio sepolcro, non è posto alcun accenno da parte di Enrico ai peccati di fami-
glia, anzi sottolinea che un luogo pagano fu convertito al cristianesimo; si poteva leggere
infatti che un miles honestum converitì in res honestas un luogo, loca, plena malis. Fortu-
natamente di questo importante documento se ne ha una copia trascritta da Bernardino Scar-
deone nel 1560
15
.
Le indulgenze di un anno e quaranta giorni concesse dal pontefice Benedetto XI per chi si
pentisse e visitasse la Cappella nelle festività mariane come Nascita, Annunciazione, Purifi-
cazione ed Assunzione, inquadrano il progetto ambizioso di Enrico. D'altronde la chiesa fu
dedicata alla Vergine della Carità.
Con la morte del pontefice amico, i vicini frati eremitani prepararono le contromosse
16
, spinti
dal timore di perdere seguaci, data la continua ascesa di successo della cappella nei cittadini
padovani così devoti alla Vergine e conseguenti ricavi per l'indulgenza plenaria. Così si rivol-
sero per porvi rimedio al vescovo cittadino, Pagano della Torre, specialmente quando i sopru-
si, a detta loro, si esplicavano con la costruzione del campanile.
Eppure i finti coretti dipinti che si trovano sotto la scena dell'Annunciazione, mostrano un
prolungamento della parete in asse con quella interna e una altezza tale da non permettere l'il-
14 Pisani, I volti segreti di Giotto, cit., 2008, p. 15
15 B. Scardeone, De antquitate Urbis Patavii: Hic locus antiquo de nomine dictus harena| nobilis ara deo fit
multo numine plena.| Sic aeterna vices variat divina potestas| ut loca plena malis in res convertat honestas.|
Ecce domus gentis fuerat quae maxima dirae| diruta construitur per multos vendita mire.| Qui luxum vitae per
tempora laeta sequiti| dimissis opibus remanent sine nomine muti.| Sed de Scrovegnis Henricus miles hone-
stum| conservans animum facit hic venerabile festum.| Namque dei matri templum solemne dicari| fecit ut
aeterna possit mercede beari.| Successit vitiis virtus divina prophanis| caelica terrenis quae praestant gaudia
vanis.| Cum locus iste deo solemni more dicatur| annorum domini tempus tunc tale notatur| annis mille tribus
tercentum marcius almae| virginis in festo coniunxerat ordine palmae. Riportata in Bellinati, Nuovi studi
sulla cappella di Giotto all'Arena di Padova, cit., 2003, p. 34
16 «Sentendosi minacciati, approfittando della morte di Benedetto XI avvenuta il 7 luglio del 1304 e del fatto
che il vescovo Ottobono de' Razzi, che aveva dato ad Enrico il permesso di edificare, fosse stato sostituito [il
29 aprile 1302 verrà eletto patriarca di Aquileia], il 9 gennaio del 1305 si rivolsero con un reclamo assai
energico al [nuovo] vescovo». Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 39
10
lusione di un transetto; questo dimostra che quando Giotto cominciò ad affrescare, l'imposta-
zione muraria era già fissa e conclusa. La scena di Enrico offerente è stata forse l'ultima dipin-
ta, quindi il modellino presenta il progetto realizzato e non quello in fieri
17
.
Nel modellino non compare il campanile, eppure i frati il 9 gennaio 1305 lo dichiarano già
concluso e lo fecero abbattere, quindi la data dell'indulgenza di Benedetto XI, 1 marzo 1304
potrebbe segnare la fine delle decorazioni. Alle modifiche apportate alla struttura seguì una
nuova consacrazione, il 25 marzo 1305; infatti il 16 marzo 1305 Enrico chiese de pannis san-
cti marci al Gran Consiglio di Venezia, città fortemente finanziata da lui. L'ipotesi più getto-
nata di cosa si trattasse, propone che fossero dei paramenti che servissero per riempire parti di
muro non ancora dipinte. Ma la bolla del pontefice è dell'anno prima. Il motivo per cui do-
mandò a Venezia teli ricamati era forse solo per ribadire il grado di eccezionalità con cui gli fu
permesso costruire la chiesa e ovviamente per sfoggiare conoscenze prestigiose. Così come
non appare casuale l'imitazione dello schema iconografico dei mosaici marciani, nelle fasce
delle Virtù e dei Vizi della Cappella, dove ai veri marmi e ori veneziani ora trovano posto imi-
tazioni illusionistiche.
Un piccolo mistero è la statua di Enrico, di data e autore incerti, che offre varie interpreta-
zioni, specialmente quale fosse il suo posto designato. La sua stazione eretta non è convenien-
te per l'interno di una chiesa, così come la frase scritta ai piedi della statua «propria figura do-
mini enrici scrovegni militis de larena»
18
non si confà ad un ambiente religioso, piuttosto è
ragionevole pensare ad una nicchia esterna in facciata.
Ogni anno, il 25 marzo, veniva teatralizzata l'Annunciazione in un vangelo cantato, che creò
fama e popolarità per Enrico. Questo però durò pochi anni, perché a Padova cominciarono
lotte intestine: nel 1311 perse il controllo su Vicenza, mentre dall'altra parte avanzava un
potente Cangrande. Enrico intuì subito con chi istituire alleanze e si avvicinò ai Carraresi
19
, in
continua espansione politica e sociale, nonostante i suoi pronipoti non fossero della medesima
idea. Ma col nuovo tentativo di Cangrande di entrare in Padova nel 1320, e non sapendo chi
poggiare, l'invasore o Giacomo da Carrara, Enrico chiese ospitalità a Venezia.
Dopo che Padova si arrese allo scaligero nel 1328, Enrico tornò proponendosi a Cangrande,
cosa che fece infuriare Marsilio da Carrara e che provocò disaccordi tra i due ex parenti, pro-
17 Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 43
18 Ibid., p. 53
19 «Da tempo del resto lo Scrovegni si era schierato dalla parte dei Carraresi; nell'ambasciata del 1307 si
trovava in compagnia di Ubertino da Carrara, con Giacomo era stato a Milano nel 1311 per l'incoronazione
dell'imperatore. (…) si era schierato con il partito dei Carraresi favorevoli a Baiamonte, dichiarandosi pronto
ad offrire ogni possibile aiuto». Ibid., p. 63
11
vocando la nuova fuga a Venezia dello Scrovegni. Qui il suo fiuto per gli affari continuò
incessantemente fino al 1336, anno della sua morte.
Sempre secondo Giovanni da Nono, Enrico avrebbe fatto parte dei Cavalieri gaudenti, devoti
alla Madonna e impegnati nella soppressione dell'usura. Ma documenti che certifichino la sua
appartenenza non ce ne sono. Però nei testamenti redatti in più occasioni, ricorre spesso la
volontà di riposare in eterno nella sua chiesa, così come la volontà che si faccia messa e che i
chierici seguano i dettami di Sant'Agostino. Una prova di questo si trova nel Giudizio univer-
sale. Il fiuto per gli affari si denota anche nell'ultimo testamento
20
: dovendo preservare le ric-
chezze future ai figli maschi, lascia alla moglie Iacobina i possedimenti padovani dal reddito
incerto, poiché al momento occupati dal nemico Marsilio. Non mancò di menzionare in esso,
ripagandolo con soldi, un certo Filippo Bellegno, che da consigliere dogale aiutò Enrico nella
città dei canali. Un lascito copioso pari a quello per la casa del clero ancora da costruire, ma
nessuna buona parola per la moglie e le figlie.
Verso la fine del testamento Enrico divide lasciti in miriadi di piccole chiese, conventi e mo-
nasteri in tutto il Veneto, preoccupato più per la vita dell'aldilà sua e dei genitori che per la
moglie; soldi ora per preghiere future e un ottimo lasciapassare per il Paradiso.
2.2 Antico e Nuovo Testamento
Una volta entrati dalla porta laterale, che all'epoca univa il palazzo alla Cappella, ci si trova
avvolti dagli affreschi, «l'impresa pittorica di Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova
si configura e va letta non tanto in una dimensione di spettacolo a sviluppo lineare (…) quanto
come traduzione in itinerario visivo di un compiuto viaggio a spirale, che coinvolge tutto lo
spazio architettonico emblema dello spazio esistenziale di tutta l'umanità - dal cielo alla terra
e dalla terra al cielo»
21
. L'edificio è spoglio all'esterno e appena si è dentro risalta la diffe-
renza, l'interno è «come uno scrigno dalla volta a botte interamente affrescato. Uno spazio
dove l'horror vacui si trasforma nella rappresentazione religiosa dell'intera visione dell'uni-
verso cristiano»
22
. Lo sguardo è direzionato frontalmente a leggere nel primo registro in alto
20 L'ultimo testamento di Enrico fu scritto il 12 marzo 1336 al monastero di San Mattia su un'isola presso
Murano. Bellinati, Nuovi studi sulla Cappella di Giotto all'Arena di Padova, cit., 2003, p.11
21 G. Segato, Giotto a Padova. Un viaggio giubilare come spirale della salvezza, in Giotto e Dante, cit., 2001,
p. 137
22 M. B. Autizi (2001) Una nuova visione del mondo negli affreschi della Cappella degli Scrovegni, in «Padova
e il suo territorio», XVI, 90, p.13
12
le storie di Gioacchino e Anna, che proseguono sull'altra parete, quella nord, con la vita di
Maria, continuando con moto elicoidale si scende poi di registro, e così via dalla nascita di
Gesù fino alla Pentecoste.
Nella volta azzurra e stellata trovano posto i medaglioni grandi di Maria e Cristo Pantocrator.
Mentre attorno alla Madre vi sono i profeti Malachia, Isaia, Baruch e Daniele, di più difficile
attribuzione sono quelli attorno a Cristo, tranne Giovanni Battista e Mosè, riconoscibili dal
vestito di pelli l'uno e dalle tavole l'altro. Il Gizzi
23
invece alle figure di questi ultimi attribui-
sce il Battista, Michea, Geremia ed Ezechiele.
Le storie di Gioacchino e Anna sono dovute a vangeli apocrifi, divulgati tramite la Legenda
Aurea
24
; il Vangelo di Pseudo-Matteo assieme al Protovangelo di Giacomo invece sono le
uniche fonti per la storia della Vergine.
Nella parete sud la Cacciata di Gioacchino dal tempio apre il ciclo. Qui il sacerdote Ruben
allontana il vecchio uomo perché un'antica credenza affermava che l'uomo sterile è un pec-
catore. Segue Gioacchino fra i pastori dove soggiornò per mesi, qui l'atmosfera è di puro rac-
coglimento e tristezza. L'annuncio ad Anna alterna paesaggio ad architettura, siamo in un
interno simile ad un luogo deputato medievale
25
, dove un angelo porta la tanto attesa notizia
ad Anna che era disperata per il prolungarsi dell'assenza del marito, mentre fuori tesse Giudit-
ta, l'ancella
26
. L'annuncio dell'angelo a Gioacchino è una scena drammatica e quasi con un
sprezzante distacco verso il sacrificio, Giotto mostra lo scheletro dell'agnello contorto che
brucia verso la mano di Dio. Il penultimo riquadro è Il sogno di Gioacchino, dove nel sonno
gli reca visita l'angelo ordinandogli di tornare dalla moglie in cinta. Chiude le storie dei geni-
tori della Vergine, L'incontro alla porta aurea, dove il bacio concepitore tra i due sposi è
incorniciato dalla Porta, una “traduzione medievalizzata dell'Arco di Augusto a Rimini”
27
, e
vigilato da vicino dalla nera vedova, forse un simbolo della cieca Sinagoga.
Continuando sulla parete nord con la Nascita di Maria, inizia la storia della sua vita. Questa
23 Gizzi, Giotto e Dante, cit., 2001, p. 52
24 «La Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (Varazze), domenicano e vescovo di Genova dal 1292 alla morte
(1298) è per le vite dei santi ciò che le Meditationes [Vitae Christi] sono per la vita di Cristo, anzi forse
qualcosa di più; raccoglie e ordina, dall'immensa materia provvista dagli agiografi, vite, storie, episodi, mira-
coli fatti e detti. Conosce le immagini, ne trae informazioni e particolari; e li suggerisce a chi debba dipin-
gerne di nuove». S. Settis, Iconografia dell'arte italiana, 1100-1500:una linea, in Storia dell'arte italiana,
vol. I, Materiali e problemi, tomo III, L'esperienza dell'antico, dell'Europa, della religione, Torino, 1979, p.
229
25 Cfr. F. Perrelli, Storia della scenografia. Dall'antichità al Novecento, Urbino, Carocci, 2008, pp. 29-33
26 Questa figura tratta dal Protovangelo di Giacomo, sembra una trasposizione in pittura dello scriba perugino
di Arnolfo di Cambio. La pittura trasforma il corpo in una statua togliendogli quindi il colore. Romano, La O
di Giotto, cit., 2008, p. 179
27 Romano, La O di Giotto, cit., 2008, p. 188
13