4
Introduzione
I processi di globalizzazione e di saturazione dei mercati nazionali, hanno consentito alle
imprese di tutto il globo, di fuoriuscire dai propri confini e di operare all’interno di mercati
trans-nazionali determinando una crescita esponenziale delle transazioni commerciali, ma
al tempo stesso un inasprimento della pressione competitiva. E’ venuta meno così la
possibilità di configurare le proprie scelte strategiche con riferimento ad un contesto
spaziale e sociale ben definito e da ciò è scaturita la necessità di una più attenta
programmazione nelle scelte di prodotto/servizio, degli strumenti finanziari, le risorse
umane e strategiche in relazione a differenti culture nazionali. Questo ha anche permesso
un consistente abbattimento dei costi produttivi, in seguito alla facilità di de-localizzare i
propri impianti in paesi con un minor costo della manodopera e/o una più facile ed efficace
appropriazione di risorse produttive. Tale nuova visione ha comportato la perdita di potere
da parte degli stati nel dettare le dinamiche economiche, sempre più assoggettate a spinte
di mercato a livello internazionale, e ha fatto sì che alle imprese venisse attribuito un ruolo
di protagoniste nel nuovo contesto socio-economico. Tuttavia sono venuti alla luce
numerosi limiti di tale nuovo modello di economia, che hanno influito negativamente sul
benessere sociale e anche economico, spesso intensificando il già enorme divario tra il
nord e il sud del mondo. E’ in virtù di questi limiti che negli ultimi decenni è cresciuto
l’interesse nei confronti di principi quali l’etica e il rispetto sociale/ambientale. L’etica,
nasce con il pensiero aristotelico, ed è la sintesi di un agire del singolo che non può essere
suddiviso rispetto all’agire collettivo. Nell’ambito finanziario e nel mondo delle imprese,
tale significato ha una portata meno ampia rispetto all’ambito prettamente filosofico, in
virtù di una distanza elevata che si è determinata tra l’etica e l’economia. Ma tale distanza
non può esistere perché le imprese non possono operare unicamente nel rispetto di una
efficienza che può sacrificare in modo significativo il benessere di molti. La realtà
imprenditoriale è infatti un locus nel quale si soddisfano anche (e soprattutto) bisogni
umani, nel cui ambito deve così rientrare la considerazione di risvolti morali della sua
attività.
Il presente lavoro di tesi si focalizza sull’analisi degli elementi più significativi connessi al
tema della “sostenibilità” all’interno del contesto aziendale. Per far ciò, nel primo capitolo,
viene presentata un’ampia rassegna della letteratura riguardante la “Corporate Social
5
Responsibility”, la quale ha rappresentato la base che ha permesso il determinarsi di
successivi sviluppi teorici connessi al c.d. “Corporate Social Reporting”. Nel secondo
capitolo infatti, si descrive l’evoluzione del pensiero riguardante l’attività di
rendicontazione sociale, andando ad indagare in che misura gli aspetti connessi
all’ecologismo, all’ambientalismo, alla teoria del rischio e a quella sociale hanno influito
nel determinare l’aumento dell’interesse da parte del mondo accademico e imprenditoriale
verso questi temi.
Inoltre, vengono presentati i principali modelli di rendicontazione che possono essere
utilizzati dalle società come punto di riferimento sia per la divulgazione delle informazioni
sulle proprie performance di sostenibilità sia per l’implementazione delle stesse pratiche
all’interno del contesto aziendale. Unitamente a questi modelli si considerano poi gli
elementi più significativi connessi alla gestione e alla comunicazione delle performance di
sostenibilità attraverso i quali poter valutare qual è l’impegno profuso da una società verso
lo “sviluppo sostenibile”.
Infatti, nel terzo e nel quarto capitolo, è presente un’analisi empirica sulla rendicontazione
di sostenibilità condotta all’interno del contesto del mercato azionario di Borsa Italiana.
Tale indagine è stata effettuata con riferimento alle 93 società che redigono un report
riguardante i temi di CSR. Anche se non è possibile evincere con certezza quale sia
l’effettivo interesse delle società verso la sostenibilità delle performance economiche,
ambientali e sociali unicamente attraverso la consultazione di questi documenti, si può
indagare qual è la qualità, la trasparenza e la completezza delle informazioni contenute al
loro interno. L’analisi empirica, si basa sulla costruzione di un database al cui interno sono
presenti delle variabili (prettamente qualitative) tramite le quali assegnare un “punteggio”
ad ogni società ed elaborare i risultati attraverso la considerazione di elementi di statistica
descrittiva. Vengono svolte infine delle valutazioni sulle differenze qualitative esistenti tra
società appartenenti a settori di attività diversi e sulla possibile dipendenza tra un settore di
attività e la “bontà” dell’informativa contenuta nei report delle società che vi rientrano.
In questo modo è possibile fornire una rappresentazione abbastanza fedele dello “stato
dell’arte” della rendicontazione di sostenibilità all’interno del contesto di Borsa Italiana.
6
Capitolo Primo:
“Il dibattito tra responsabilità e sostenibilità nel contesto aziendale”
1.1 Considerazioni introduttive
Alla base della responsabilità sociale d’impresa vi sono teorie etico/filosofiche ed
economiche/organizzative che si riferiscono ad una visione comunitaria ed equilibrata
dell’azienda e le attribuiscono responsabilità morali oltre che economiche. Tali teorie
legano la legittimità sociale dell’organizzazione al contratto sociale della stessa con gli
stakeholder. Fondamentalmente sono tre gli approcci che hanno influenzato l’emergere
della visione responsabilizzante le aziende a livello sociale. Innanzitutto vi è quello
relativo alla c.d. ”Etica degli Affari”. La Business Ethics sottolinea come la governance
delle imprese deve essere attenta a tutti i “portatori di interesse” in virtù di una morale che
deve accompagnare l’agire dell’impresa in tutte le sue fasi vitali. Essa riguarda il
monitoraggio responsabile degli obiettivi organizzativi, i limiti sociali alla sua attività, le
norme che ne regolano i comportamenti, i principi culturali che forniscono l’attitudine
risolutiva verso specifiche problematiche.
Il secondo approccio, della cui letteratura verrà fornita una review nel secondo paragrafo
del seguente capitolo, è quello della Stakeholder Theory. Le imprese, in quanto sistemi
operanti all’interno di un contesto, non possono più essere viste come unità a sé stanti in
spazi fisici isolati, bensì partecipano ad una serie di relazioni di scambio con soggetti
diversi. In ultimo è da considerare un approccio fondato su un “contratto sociale”, secondo
il quale nei rapporti privati con il mercato esisterebbe un accordo di carattere tacito,
differente da quello che può essere stipulato con gli azionisti dell’impresa. La minaccia
che, ad una serie di comportamenti irresponsabili da parte dell’impresa, potrebbe seguire
una riduzione della capacità di sopravvivenza della stessa, ha indotto molte organizzazioni
ad una maggiore “responsabilizzazione”. Quest’ultima, a cui si farà riferimento con il
termine “CSR” e di cui verrà fornita una review della letteratura nel terzo paragrafo,
7
comporta innumerevoli benefici, oltre ad una legittimazione fiduciaria nei confronti dei
propri pubblici e mercati di riferimento. Risulta poi, che di tale “responsabilità”, l’impresa
debba anche darne conto agli stakeholder. Sotto la spinta di tali idee, ad esempio, nel corso
degli anni settanta, ad opera della SEC
1
degli Stati Uniti sono stati introdotti dei
meccanismi per garantire una migliore informazione nei confronti degli investitori. In
particolare, sono state predisposte variabili precise e stringenti di carattere sociale, che
hanno rappresentato la base per un sistema di formalizzazione delle tematiche legate
all’etica nel business e alla responsabilità delle imprese che negli anni seguenti si sono
sviluppate in tutto il mondo.
In quel periodo iniziò una nuova consapevolezza per le imprese, le quali modificarono una
visione secondo la quale il peso per valutare il successo delle proprie iniziative fosse da
ricondurre unicamente al perseguimento di risultati economico-finanziari rilevanti. La
nuova visione, più aperta e coerente per un sistema imprenditoriale “immerso” all’interno
di un più ampio sistema di relazioni sociali, ha visto la considerazione anche e soprattutto
di obiettivi di carattere sociale, di condivisione e di interrelazione. Tutto ciò non vuole
dire andare contro la visione globale dell’economia, piuttosto significa porsi il problema di
ridiscutere le modalità tramite le quali tale economia si sviluppa, soprattutto se influisce in
maniera negativa sulle risorse naturali e ambientali presenti nel nostro pianeta e riduce la
capacità del nostro sistema ambientale di “assorbire” tali impatti. Man mano che è stata
avvertita la necessità di affrontare questi problemi, sono sorte numerose organizzazioni (di
carattere governativo ma soprattutto non-governativo) che hanno avuto e hanno tutt’ora
l’obiettivo di contrastare comportamenti illeciti da parte delle imprese (ad esempio
sfruttamento del lavoro minorile e non, operazioni finanziarie poco trasparenti, mancato
rispetto di norme sullo smaltimento di rifiuti ed immissioni in atmosfera di agenti
inquinanti etc.). Tali organizzazioni non si limitano a denunciare tali comportamenti
illeciti, bensì avanzano proposte concrete come l’introduzione della tassa sulle transazioni
valutarie finalizzata a porre un freno alle speculazioni finanziarie, proposta la prima volta
dal premio Nobel James Tobin e al centro del dibattito politico in Europa al giorno d’oggi.
Si cerca così di agire per ridurre l’annoso problema della disparità economico-sociale tra i
paesi del mondo, facendo leva non soltanto sulla solidarietà verso quelle popolazioni in
1
La Security Exchange Commission, interpellata sul possibile inserimento nel bilancio d’esercizio di
informazioni riguardanti l’ambiente, affermò l’esigenza di un documento specifico, separato e in grado di
illustrare anche attraverso valutazioni contabili ed extra contabili, le modalità con cui l’impresa si muove nei
confronti del problema socio-ambientale.
8
maggiori difficoltà (e quindi operando dal basso), ma anche sul corretto funzionamento
delle imprese, veri punti cardine dell’intero sistema. Al tempo stesso si pongono le basi
per garantire alle generazioni future la possibilità di soddisfare i propri bisogni primari e
non solo. Si cerca infatti di affrontare i problemi connessi con la globalizzazione
coerentemente con una nuova visione posta dal c.d. “sviluppo sostenibile”. Tale forma di
sviluppo ha trovato nel corso degli anni differenti definizioni. Significativa è innanzitutto
quella fornita tramite il “Rapporto Bruntland”, il quale lo descrive come “lo sviluppo che
soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità per le generazioni future
di soddisfare le proprie necessità”
2
. Il documento qui citato, ha sottolineato la necessità di
introdurre riforme ad un livello internazionale, tramite le quali coniugare simultaneamente
aspetti economici ed ecologici in modo tale da fornire notevoli stimoli alla crescita dei
paesi in via di sviluppo. Inoltre, è auspicato il raggiungimento di un profondo impegno da
parte di tutti i paesi nel garantire un soddisfacente impegno da parte di istituzioni
multilaterali, come ad esempio banche di sviluppo multilaterale; la realizzazione e il
rispetto di regole internazionali in campi come quelli del commercio e degli investimenti;
la costruzione di un dialogo su diversi problemi verso i quali non sempre vi è una
coincidenza tra interessi nazionali. Il fine ultimo è così quello di raggiungere un adeguato
equilibrio tra il funzionamento dei sistemi di produzione e consumo con le esigenze di
crescita economica, benessere e tutela dell’ambiente (concetto inteso in senso ampio e non
solo con riferimento al nostro pianeta). Nel nostro continente, l’input che è partito dai
numerosi incontri avvenuti a livello internazionale (conferenze ONU, Rio de Janeiro e
Kyoto)
3
, è stato recepito in maniera tempestiva tramite il “Sesto Programma di azione
ambientale”
4
che, nell’adottare strumenti di attuazione di uno sviluppo sostenibile, ha dato
rilevanza per la prima volta ad una responsabilizzazione di tutte le parti interessate a questo
fenomeno, e cioè al tempo stesso imprese, governi e cittadini della Comunità Europea. In
questo ambito è doveroso richiamare anche il contenuto del “Libro Verde” della
Commissione Europea, in riferimento alla promozione di un “Quadro Europeo per la
responsabilità sociale delle imprese”. Si deve sottolineare come l’Unione Europea ha
2
Cfr. WCED, Our Common Future, Oxford University Press., Oxford, 1987.
3
La conferenza ONU alla quale si fa riferimento è il c.d. “Earth Summit” tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992.
E’ stata la prima conferenza mondiale sui temi della sostenibilità e del rispetto ambientale ed ha prodotto
l’Agenda 21 (programma di azione proiettato verso il 21esimo secolo) nonché ha portato alla ratifica del
protocollo internazionale di Kyoto in tema di riscaldamento globale.
4
Cfr. CCE, “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta”: sesto programma di azione per l’ambiente,
Bruxelles, 2001.
9
sentito la necessità di preoccuparsi della responsabilità sociale delle imprese, poiché questa
ha rappresentato un utile strumento tramite il quale dare un significativo impulso al
raggiungimento dell’obiettivo strategico definito a Lisbona: “divenire l’economia della
conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica
sostenibile accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione
e da una maggiore coesione sociale”
5
. Dunque è in tale sede che è stata per la prima volta
formalizzata la responsabilità sociale d’impresa, considerata come una “integrazione
volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni
commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”
6
.
Infine bisogna evidenziare come, all’interno del contesto attuale di una crisi globale,
l’Europa abbia proposto una visione del futuro in chiave “sostenibile”. Infatti, tramite la
strategia “Europa 2020”
7
, la Commissione Europea ha stabilito cinque obiettivi a livello
comunitario, da tradurre poi all’interno dei singoli contesti nazionali in tema di
occupazione, ricerca, istruzione, energia, clima, innovazione. Questa strategia discende
dalla necessità di rispettare tre priorità a livello comunitario, ovvero: la crescita
“intelligente” (sviluppare un’economia basata sull’innovazione e la conoscenza
coerentemente alla strategia di Lisbona), la crescita “sostenibile” (un’economia più forte,
competitiva e verde), ed una crescita “inclusiva” (promuovere uno sviluppo che comporti
la coesione sociale e territoriale garantita dall’occupazione).
Gli obiettivi da seguire sono i seguenti:
1. il 3% del PIL dell’Unione Europea deve essere destinato ad investimenti
nell’ambito della ricerca e dello sviluppo;
2. l’ammontare delle persone vicine alla soglia di povertà deve ridursi di 20 milioni;
3. il 40% dei giovani deve essere laureato e il tasso di abbandono scolastico deve
essere inferiore al 10%;
5
Cfr. CCE, Il Consiglio europeo straordinario di Lisbona (marzo 2000): verso un'Europa dell'innovazione e
della conoscenza, Bruxelles, 2002.
6
Cfr. CCE, Libro Verde – Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese,
Bruxelles, 2001.
7
Cfr. CCE, Europa 2020: “Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, Bruxelles,
2010
10
4. il 75% delle persone tra i 20 e 64 deve avere un lavoro;
5. devono essere raggiunti i traguardi del “20/20/20” in materia di clima ed energia,
(ovvero si devono ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 20% rispetto al
quantitativo del 1990, si deve portare al 20% l’ammontare delle fonti di energia
rinnovabile nel continente europeo; si deve migliorare del 20% l’efficienze
energetica).
Per raggiungere questi obiettivi l’Europa ha stabilito che bisogna agire su sette diversi
fronti, tre dei quali attinenti la “crescita intelligente”, due la crescita “inclusiva” e due
quella “sostenibile”. Per quanto riguarda i primi due aspetti gli ambiti di operatività sono i
seguenti: innovazione (completare lo spazio europeo della ricerca e migliorare il contesto
generale per l’innovazione nelle imprese, tramite ad esempio, il brevetto unico dell’UE;
istruzione (potenziare i programmi europei per la mobilità, l’università e i ricercatori,
migliorare i risultati nel settore dell’istruzione in ogni segmento, favorire l’ingresso dei
giovani nel mercato del lavoro anche promuovendo l’imprenditoria per giovani
professionisti); società digitale (accelerare la diffusione di internet ad alta velocità e
sfruttare i vantaggi di un mercato unico del digitale per famiglie e imprese; Occupazione e
competenze (modernizzare i mercati occupazionali agevolando la mobilità della
manodopera e l'acquisizione di competenze lungo tutto l'arco della vita al fine di aumentare
la partecipazione al mercato del lavoro e di conciliare meglio l'offerta e la domanda di
manodopera); Lotta alla povertà (garantire coesione sociale e territoriale in modo tale che i
benefici della crescita e i posti di lavoro siano equamente distribuiti e che le persone
vittime di povertà e esclusione sociale possano vivere in condizioni dignitose e partecipare
attivamente alla società). Con riferimento alla crescita “sostenibile” le iniziative che la
strategia qui considerata stabilisce debbano implementate sono:
Clima, energia e mobilità: Iniziativa faro dell'UE “Un’Europa efficiente sotto il
profilo delle risorse” per contribuire a scindere la crescita economica dall'uso delle
risorse de-carbonizzando la nostra economia, incrementando l'uso delle fonti di
energia rinnovabile, modernizzando il nostro settore dei trasporti e promuovendo
l'efficienza energetica;
11
Competitività: Iniziativa faro dell'UE “Una politica industriale per l'era della
globalizzazione” onde migliorare il clima imprenditoriale, specialmente per le PMI,
e favorire lo sviluppo di una base industriale solida e sostenibile in grado di
competere su scala mondiale.
1.2 La genesi della “Stakeholder Theory”
Prima di affrontare il tema della corporate social responsibility, che è la “base teorica”
degli argomenti che verranno affrontati nei capitoli successivi di questa tesi, è utile
delineare i problemi per risolvere i quali la teoria degli stakeholder è stata originariamente
concettualizzata e i meccanismi di base che possono sottolineare lo sviluppo di tale teoria
durante gli ultimi trenta anni.
La definizione fu elaborata nel 1963 al Research Institute dell’Università di Stanford,
mentre l’autore che si è focalizzato sullo studio di questa teoria è Edward Freeman, il
quale, nel suo libro “Strategic Management: A Stakeholder Approach”, diede la
definizione di stakeholder come: “i soggetti senza il cui supporto l’impresa non è in grado
di sopravvivere”
8
. Di seguito verrà analizzato il pensiero di Milton Friedman, Michael
Jensen, Michael Porter e Oliver Williamson, spesso citati come oppositori della teoria degli
stakeholder, ma che hanno alcuni punti in comune con essa.
Inoltre, possono essere colte delle differenze chiave tra i loro “approcci economici” al
business e la stakeholder view. In ogni caso, secondo l’opinione di Edward Freeman,
mentre questi approcci sono comunque compatibili con la teoria degli stakeholder, assume
maggior significato ritornare alle vere radici del capitalismo, rappresentate dalla teoria
dell’impresa
9
.
Freeman suggerisce come questa teoria abbia bisogno di essere vista come una teoria
riguardo a come il business opera e può muoversi. Dunque, verrà fornito un esplicito
8
Cfr. R.E. Freeman, Strategic Management: A stakeholder approach, Pitman, Boston, 1984.
9
Cfr. R.E. Freeman, J.S. Harrison, A. C. Wicks, B.L. Palmar, S. De Colle, Stakeholder Theory: The State of
the Art, Cambridge University Press, Cambdrige, 2010.
12
legame con la teoria dell’impresa per delineare le basi del funzionamento della
Stakeholder Theory.
1.2.1 La comprensione del business in un’ottica responsabile
La modalità principale per comprendere il business e la teoria manageriale, si sono
sviluppate durante un periodo nel quale c’era molta meno preoccupazione rispetto alle
“turbolenze di mercato”, rispetto a quanta ve ne sia oggi.
Le idee di Weber riguardo la burocrazia ancora dominano il panorama manageriale, e
l’idea degli economisti di una marcia ordinata verso l’equilibrio ancora domina molte delle
aree dell’economia aziendale. Le grandi corporation sono viste come responsabili
unicamente nei confronti dei loro stessi proprietari (azionisti nelle public companies) e
limitate nella responsabilità dei loro effetti verso gli altri attori.
In un mondo nel quale le preoccupazioni sono innanzitutto “domestiche”, potrebbero
essere appropriati modelli con i quali i governi sarebbero in grado di eliminare qualsiasi
effetto negativo in un modo che sia equo per tutti. Freeman evidenzia come la Stakeholder
Theory sia stata sviluppata negli ultimi trenta anni per risolvere o al limite ripensare diversi
problemi e attribuisce ad ognuno di essi uno specifico “titolo”. Il primo potrebbe essere: “Il
problema della creazione del valore e del business”. L’autore si chiede come è possibile
comprendere il business in un mondo dove c’è un grande bisogno di relazioni, e dove
queste relazioni cambiano a seconda delle nazioni, dei settori e dei contesti sociali. Inoltre,
si chiede come è possibile creare valore e scambiarlo in tale panorama.
10
Già in passato ci si rendeva conto come provare a risolvere questi problemi usando gli
assunti fondamentali esistenti all’epoca fosse infruttuoso. La maggior parte dei teorici, ha
da sempre riconosciuto che le questioni riguardanti i valori e l’etica fossero nella migliore
delle ipotesi “extra-teoriche”, se non addirittura irrilevanti. Ma nel mondo reale, le persone
diventavano sempre più consapevoli degli effetti del capitalismo in diversi aspetti delle
loro vite, così il secondo problema potrebbe essere chiamato: “Il problema dell’etica del
capitalismo”. Così come il termine “capitalismo” è diventato il significato dominante della
10
Ibidem.
13
creazione di valore e del commercio nelle organizzazioni, è diventato evidente come
restringere l’attenzione ai soli effetti “economici” porta ad una visione parziale del
problema.
Un numero crescente di pensatori ha cominciato a porsi quesiti riguardo la relazione tra
capitalismo e altre istituzioni presenti nella società. Questi quesiti hanno incluso domande
del tipo: Come possiamo intendere il capitalismo in modo che tutti i suoi effetti vengano
presi in carico dai decision makers invece di essere esternalizzati sulla società? Possiamo
continuare a dividere il mondo tra “regno del business” e “regno dell’etica”? E’ possibile
per i manager “fare la cosa giusta” nonostante la complessità dei diversi contesti? Come
dobbiamo intendere il “business” e “l’etica” in maniera tale da collocarli insieme
concettualmente e praticamente?
11
Queste domande sono rilevanti per ciascun dirigente e studioso al giorno d’oggi. Inoltre,
date le recenti turbolenze nei mercati finanziari, hanno iniziato a prendere piede all’interno
del dibattito politico discussioni riguardo la riprogettazione del business.
Infatti, le armi della globalizzazione sono diventate più avanzate: in primis l’information
technology ha guidato sempre più le richieste per la trasparenza, l’apertura, la
responsabilità; abbiamo visto crescere l’interesse nel comprendere come il capitalismo,
l’etica, la sostenibilità, la responsabilità sociale possono essere incanalate in nuove strade
del pensiero aziendale. E’ diventato semplice osservare come la risoluzione del problema
della creazione del valore solo tramite un’attenzione spasmodica sul “valore”, crei di per sé
il problema dell’etica del capitalismo.
Quando i due aspetti sono combinati tra di loro, si può trovare un terzo problema di
carattere pratico, ovvero quello della “mentalità manageriale”, che solleva ulteriori quesiti:
Come possiamo utilizzare e ridefinire la teoria economica in maniera utile in un mondo
pieno di sfide “etiche”? Come possono i manager adottare una mentalità che pone il
business e l’etica insieme per prendere decisioni basate sulla routine? Come può l’operare
con la complessità del contesto, la globalizzazione e l’etica diventare parte della routine del
lavoro del manager? Cosa dovrebbe essere insegnato nelle scuole di business? Diversi
studiosi come Sumantra Ghosal
12
e Jeffry Pfeffer hanno suggerito che la attuale mentalità
riguardo al business non è appropriata ai turbolenti contesti aziendali di oggi. La
11
Ibidem.
12
Cfr. S. Ghoshal, Bad management theories are destroying good management practice, Academy of
Management Learning & Education Vol. 4, No. 1, London, 2005.
14
Stakeholder Theory suggerisce che se noi adottiamo come unità di analisi la relazione tra il
business e i gruppi o gli individui che possono influenzarlo o che sono influenzati da esso,
allora possiamo avere una migliore chance nell’affrontare questi tre problemi. Ridotta alla
sua essenzialità, la Stakeholder Theory emerge dalle seguenti quattro idee:
“Separation fallacy”; “The open question argument”; “The integration thesis”; “The
responsibility principle”.
Freeman suggerisce che la maggior parte delle teorie di business si basano sulla
separazione tra decisioni aziendali e decisioni etiche. Ed infatti questa è la genesi del
problema che stiamo affrontando, la quale può essere riassunta nel gioco di parole secondo
cui “l’etica nel business” è un ossimoro
13
.
Partiamo dalla “Separation fallacy”. E’ utile credere che frasi come ad esempio “x è una
decisione aziendale” non abbiano un contenuto etico o alcun implicito punto di vista etico.
E inoltre è utile credere che frasi come “x è una decisione etica, la migliore cosa da fare,
nonostante tutto” non abbiano un contenuto implicito riguardante la creazione di valore e
le attività di un business.
Wicks
14
e altri hanno mostrato come questo errore viene eseguito nel nostro modo di
comprendere il business tanto frequentemente quanto in altre aree di interesse sociale.
Ci sono due implicazioni nel rifiutare la “separation fallacy”. La prima è che quasi ogni
decisione aziendale ha un qualche contenuto di carattere etico
1516
. Per rendersi conto di
come ciò è vero bisogna chiedersi se le seguenti domande abbiano senso per ogni decisione
aziendale: Se questa decisione è presa, da chi è creato e distrutto il valore? Chi beneficia o
è danneggiato da tale decisione? Quali diritti sono rispettati e quali valori sono realizzati?
(e quali no?).
Dal momento che tali quesiti sono sempre posti per molte delle decisioni aziendali, è
ragionevole rinunciare alla visione basata sulla “separazione”.
Si avrà così bisogno di una teoria aziendale in grado di fornire delle risposte. Una risposta
potrebbe essere: “solo il valore per gli azionisti conta”, ma tale risposta potrebbe essere
inserita tanto nel contesto etico quanto in quello aziendale. In sintesi, noi abbiamo bisogno
13
Cfr. R. E. Freeman, The Politics of Stakeholder Theory: Some Future Directions, Business Ethics
Quarterly, 1994.
14
Cfr. A. Wicks, Overcoming the separation thesis: The need for a reconsideration of SIM research, Business
and Society, 1996.
15
Cfr. S. Sciarelli, Etica e responsabilità sociale nell’impresa, Giuffrè Editore, 2007.
16
Cfr. J. Harris, R.E. Freeman, The impossibility of the separation thesis, Business Ethics Quarterly, 18 (4),
2008.
15
di una teoria che abbia come sua base il concetto di integrazione. Da qui l’importanza della
“Integration thesis I”.
Secondo tale tesi, molte decisioni aziendali o dichiarazioni riguardo il business hanno un
minimo contenuto etico o una visione etica implicita. Al tempo stesso molte decisioni
etiche o dichiarazioni riguardo l’etica hanno alcuni contenuti aziendali o una implicita
visione riguardo il business. Ancora, un’altra via per articolare tale argomentazione è
quella fornita dalla “Integration thesis II”. Secondo questa: Non ha senso parlare del
business senza parlare di etica; Non ha senso parlare di etica senza parlare di business; Non
ha senso parlare sia di etica che di business senza parlare di “esseri umani”.
Una delle sfide maggiori per gli studiosi di business è quella di fornire dei resoconti che
hanno l’integrazione come punto centrale.
Questo è esattamente il lavoro che tali studiosi, chiamati “teorici degli stakeholder”, hanno
affrontato negli ultimi trenta anni. La prima delle tre affermazioni succitate sfida l’enorme
mole di lavoro che è stato svolto in nome della c.d. “value free economics and science”; la
seconda affermazione invece, affronta le tesi portate avanti dai filosofi che hanno scarsa
conoscenza sia di business che di economia; infine, la terza dichiarazione si oppone al
lavoro svolto in tutte le discipline aziendali che ignorano “la scienza umana” o “l’umanità”
o che, più propriamente, ignorano che la maggior parte degli esseri umani è piuttosto
complessa
17
.
La teoria degli stakeholder si è sviluppata in primis intorno al primo assunto; il suo futuro
sviluppo e la sua utilità dipendono largamente da come questa si relaziona con il secondo e
il terzo assunto. Dunque, per iniziare ad affrontare il primo tema, bisogna considerare le
basi dell’etica, evidenziando come, secondo la maggior parte dei punti di vista “morali”, il
principio da seguire è quello espresso dalla affermazione secondo cui molta gente, la
maggior parte del tempo, accetta la responsabilità per gli effetti delle proprie azioni sugli
altri. Chiaramente il “principio di responsabilità” è incompatibile con quello della
“separation fallacy”. Se il business è separato dall’etico, non c’è elemento di responsabilità
morale per le decisioni aziendali, e dunque da qui l’affermazione secondo cui la “business
ethics” è un ossimoro.
17
Cfr. T. J. Donaldson, R. E. Freeman, Business as a Humanity, Oxford University Press., New York, 1994.
16
Ancora più semplicemente, senza qualcosa come un “principio di responsabilità” è difficile
pensare a come l’etica possa decollare. “Responsabilità” ben potrebbe essere un’idea
difficile e con numerose facce; ci sono quindi diverse vie per comprenderla.
Ma se noi non siamo disposti ad accettare la responsabilità delle nostre azioni, allora
intendere l’etica come un modo con il quale ragionare insieme in maniera tale che tutti
possano prosperare è compiere un “esercizio in malafede”.
Una reazione al principio di responsabilità è infatti quella di alcune persone che non sono
disposte ad essere responsabili o etiche.
Queste vogliono semplicemente “farla franca” il più possibile rispetto agli altri. Le persone
a volte agiscono in maniera “opportunistica” e con “astuzia”. Partire da un principio di
responsabilità vuol dire pensare a come affrontare l’opportunismo, invece partire da un
principio opportunistico comporta il rischio di non dare importanza a significativi aspetti
come la dignità umana, lo sforzo cooperativo, lo spirito creativo, i quali possono essere
considerati come vere e proprie “pietre miliari” del capitalismo.
E’ ora facile comprendere come la genesi della “stakeholder theory” è semplicemente
rappresentata dalla “integration thesis” più il principio di responsabilità.
Le persone che sono impegnate nella creazione di valore sono responsabili proprio nei
confronti di “quei gruppi di persone o quei singoli individui che possono influenzare le
loro azioni o possono essere influenzate dalle stesse” (ovvero i c.d. “stakeholder”).
Dare importanza alla “stakeholder theory” non vuol dire che rappresentative di tali gruppi
di individui debbano necessariamente sedere nei consigli di amministrazione delle imprese,
e nemmeno vuol dire che gli azionisti (o i “finanziatori”, se si vuole utilizzare un termine
maggiormente inclusivo) non hanno diritti.
Tuttavia tale visione implica che gli interessi di tali gruppi sono comuni e che per creare
valore, bisogna focalizzarsi su come questo valore viene creato per ciascuna delle tipologie
di stakeholder (o meglio per ciascun singolo portatore di interessi).
Il modo con cui il valore viene creato per gli stakeholders è proprio dettato da come
ciascuno è influenzato dalle azioni degli altri nonché da quelle dei dirigenti di
un’impresa
18
.
Dunque la Stakeholder Theory è fondamentalmente una teoria riguardo a come il business
lavora nel migliore dei modi, e come questo dovrebbe lavorare per migliorarsi. E’ una
18
Cfr. T. Schelling, The Strategy of Conflict, Harvard University Press., Cambridge MA, 1980.
17
teoria quindi “descrittiva”, “prescrittiva” e “strumentale” allo stesso tempo, e come
Donaldson e Preston hanno affermato, è una teoria “manageriale”
19
.
Inoltre, non si tratta solo di creazione di valore ma di come operare in maniera efficiente ed
efficace; in questa prospettiva l’efficienza può essere vista come “la creazione di quanto
più valore è possibile”. Se quindi si tratta di risolvere problemi connessi alla creazione di
valore e alle decisioni aziendali, la teoria in questione deve mostrare come il business può
essere descritto attraverso le relazioni tra i vari attori interessati.
Inoltre, se si tratta di risolvere il problema dell’etica del capitalismo, deve mostrare anche
come il business dovrebbe essere gestito per dare un completo “rendiconto” delle
responsabilità e dei suoi effetti nei confronti degli stakeholder.
E se la teoria serve anche per risolvere il problema della mentalità manageriale, deve
essere in grado di adottare una modalità pratica di porre il business e l’etica insieme in
maniera implementabile nel mondo reale.
Per la maggior parte del tempo i teorici della Stakeholder Theory hanno tenuto un
approccio che guarda essenzialmente ad imprese abbastanza grandi. Questi hanno cercato
di affrontare questioni come la responsabilità sociale delle imprese, la legittimità aziendale,
la teoria dell’impresa e altri problemi sociali “macro” come quello generico di costruzione
di una “good society”. Salvo rare eccezioni poche idee sono state indirizzate verso una
serie di questioni più importanti che hanno uno stringente significato pratico: Come
dobbiamo intendere la creazione di valore e il business al livello più semplice? Come
possono gli imprenditori creare e sostenere il valore? Come hanno luogo all’interno di
differenti regimi di stato la creazione di valore e il business?
Mentre a prima vista queste questioni possono sembrare irrisolvibili, si può sottolineare
come può essere adottato un approccio basato sulla teoria degli stakeholder per produrre
alcune intuizioni interessanti, e portare alla luce alcuni assunti riguardo il business.
Esiste un numero di “principi comuni” riguardanti la creazione del valore i quali ruotano
tutti intorno all’idea che gli azionisti, i proprietari, gli investitori hanno diritto agli utili
residui che derivano dalla creazione di valore e dalle attività di business. La teoria degli
stakeholder suggerisce che tale materia è molto più complessa rispetto a ciò, poiché anche
le relazioni tra gli stakeholder devono essere incluse e le dinamiche degli esseri umani
sono molto più complicate di quanto tali principi assumono.
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Cfr. T. Donaldson, L.E. Preston, The stakeholder theory of the corporation: Concepts, evidence, and
implications, Academy of Management Review, 1995.