1. Introduzione
“[...] a complex financial system is indeed inherently flawed: in absence of adequate
economic policy, booms and busts phenomena in financial markets fuelled by credit
booms and busts may generate endogenous instability and systemic crisis” (Sau,
2009, p. 22).
Questo scritto attinge ai propri fondamenti teorici dall'opera di due
economisti che in vita non hanno probabilmente ottenuto i riconoscimenti che
avrebbero meritato. Irving Fisher fu un protagonista del suo tempo, ma la valutazione
errata della imminente crisi nel 1929 lo fece diventare inviso a buona parte della
comunità accademica. Similmente, svariate delle tesi di un altro economista
americano, Hyman Philip Minsky, sono state a lungo tenute da parte dal dibattito
economico e politico statunitense, trovando in alcuni casi maggiore fortuna altrove –
ad esempio nel Regno Unito. Lunghi periodi di stabilità, che si sono alternati nella
seconda metà del secolo scorso a crisi finanziarie di portata minore, hanno
contribuito a lasciare che la riflessione sui comportamenti del ciclo economico non
ricevesse quell'attenzione che forse, proprio nei momenti di calma, essa merita, per
non farsi cogliere alla sprovvista nelle emergenze. A Minsky toccò in sorte di morire
pochi anni prima che le sue tesi venissero confermate dalla realtà, nel 1996. Le prime
avvisaglie dei problemi finanziari odierni furono le crisi delle Tigri Asiatiche, a
partire dal 1998
1
; in questo caso gli scritti degli studiosi del ciclo economico erano
stati riesumati una prima volta, alla ricerca di spiegazioni e contromisure convincenti
da adottare
2
; ma in concreto in pochi, nel mondo occidentale, diedero a queste crisi
la rilevanza che meritavano, ritenendole fenomeni lontani, casuali e passeggeri. Esse
erano invece l'avanguardia della tempesta finanziaria che si sarebbe poi estesa su
scala globale, a partire dalla crisi dei mutui subprime negli USA nel 2007, con gli
1 A quello stesso anno risale la definizione di Minsky moment a proposito della crisi del debito russa,
per indicare una situazione che rientrava nella teorià minskyiana dell'instabilità finanziaria; la
definizione venne ripresa sul Wall Street Journal da Lahart (2007).
2 Le crisi asiatiche vennero gestite dal Fondo Monetario Internazionale con una serie di scelte molto
criticate da molteplici direzioni, in quanto imponevano misure rigorose che secondo molti hanno
allungato piuttosto che ridotto la durata delle recessioni.
5
effetti a catena che ne sono derivati. Da quella data Minsky è stato al centro di un
vero e proprio revival, in quanto le sue tematiche erano quelle con cui ci si è trovati
drammaticamente a confronto.
Con la debacle economica della super-potenza americana, l'intero sistema si
è afflosciato su se stesso, lasciandosi alle spalle le macerie di una finanza che si è
scoperto essere stata artificialmente gonfiata per ottenere profitti ingenti e immediati,
senza alcuno scrupolo per le conseguenze future di comportamenti tanto scriteriati
quanto spesso incomprensibili per gli stessi operatori, vista la complessità raggiunta
dagli strumenti finanziari utilizzati. Lunghissimo è l'elenco dei Paesi colpiti dalla
crisi; pur presentandosi naturalmente alcuni caratteri generali, ognuno lo è stato con
modalità diverse, dipendenti dalle sue specificità. Tra di essi spicca il caso
dell'Irlanda, colpita tanto duramente da aver dovuto richiedere l'assistenza
dell'Unione Europea (UE) nel Settembre del 2008, data cui si fa risalire l'inizio
ufficiale della crisi irlandese. Ciò che questo scritto si propone è mostrare come la
crisi di questa piccola Nazione, poco influente per le sue dimensioni sullo scacchiere
della geopolitica mondiale, possa rientrare agevolmente nella casistica prevista dalla
teoria dell'instabilità finanziaria elaborata da Minsky: per come si è preparata, per
come è scoppiata e per come si è cercato di riparare il danno dopo che ormai era
fatto. L'assunto implicito è che tutte le crisi di questi ultimi anni possano essere fatte
rientrare nel medesimo impianto teorico, il che conferma la sua validità.
L'Irlanda è un caso speciale, in quanto essa è stata tra i Paesi in cui il
passaggio dal boom economico alla crisi è stato più violento e repentino. Per tutti gli
anni '90 e fino a poco prima dell'inizio della crisi, essa era divenuta una delle
economie più floride del mondo, tra le poche a poter reggere il confronto con la forte
crescita dei Paesi in via di sviluppo, mentre le altre Nazioni occidentali erano
stabilizzate a tassi assai inferiori. Le scelte strategiche irlandesi per attirare
investimenti esteri costituivano study-cases nelle università di tutto il mondo, ed essa
era indicata dalla Banca Centrale Europea (BCE) agli altri Stati come esempio
virtuoso da imitare. Per questo si ritiene necessaria anche una disamina non
superficiale del boom economico precedente, che venne definito il periodo della
Tigre Celtica, la quale è indispensabile a capire da dove sia arrivata la bolla
6
immobiliare che ha poi portato il Paese alla bancarotta.
Infatti il percorso che ha portato alla crisi Irlandese del 2008 è lungo, e
contraddistinto da due fasi di crescita che possono sembrare simili ma hanno avuto
caratteristiche nettamente differenti. Va innanzitutto riconosciuto come ci sia stato un
autentico miracolo economico irlandese: dopo la correzione fiscale intrapresa nel
1987, l'economia si era rimessa sui giusti binari. La situazione fiscale era stata
consolidata e gli alti tassi di inflazione dei decenni precedenti erano ormai un
ricordo. L'afflusso di capitali da parte soprattutto delle multinazionali statunitensi
crebbe esponenzialmente e il periodo di maggior crescita dei tassi di produttività e
impiego va collocato all'incirca tra il 1994 e il 2001. La svalutazione dell'Euro
rispetto al Dollaro nel 2000 non fece che dare ulteriore vigore alle esportazioni
irlandesi, mentre l'ingresso nell'Unione Monetaria Europea contribuiva a mantenere
bassi i tassi di interesse.
A questo punto la piena occupazione era stata raggiunta, e le componenti
della domanda interna ripresero vigore. Qui si può collocare una seconda fase, tra il
2001, quando si verificò lo scoppio della soprannominata bolla delle dot.com, e lo
scoppio della crisi nel 2008. Il 2001 fu l'anno spartiacque, in quanto da allora le forze
a sostegno della crescita mutarono, rendendo sempre più “fragile” e pericolosa la
posizione economica dell'Irlanda. La piena occupazione si tradusse in richieste di
aumenti salariali, mentre i vari Governi, approfittando della situazione di benessere
diffuso, adottavano politiche fiscali espansive. Si trattava di interventi pro-ciclici che
portarono al mantenimento di una rapida crescita ma anche a una forte spinta
inflazionistica. Evidentemente nessuno, nei posti di potere, pensò che fosse giunta
l'ora di tirare il freno a mano. Ciò non avrebbe impedito la crisi globale, ma di certo
politiche più avvedute, soprattutto fiscali, avrebbero di molto attenuato le ricadute
sull'Irlanda. Le decisioni prese dal Governo non fecero che soffiare su di un fuoco
già acceso. Quando la bolla immobiliare esplose, dopo lo sbigottimento iniziale ci si
rese conto che il sistema bancario era gravemente compromesso da anni di scelte
arrischiate o del tutto sbagliate. Il Governo, per evitare il collasso dell'intero sistema,
si vide costretto a salvare i maggiori istituti bancari del Paese, ottenendo il risultato
di rendere inestricabilmente annodati i fogli di bilancio dello Stato e quelli del settore
7
bancario. A questo punto la richiesta di aiuti internazionali divenne
improcrastinabile, e da allora l'Irlanda ha accettato le condizioni imposte dalla BCE e
dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) per uscire dalla crisi, per quanto
impopolari esse potessero essere.
Tutto ciò è l'argomento di quest'opera, in cui si procederà come segue:
● Nel Capitolo 2 verranno passate in rassegna le teorie di due tra i
maggiori studiosi del ciclo economico: Irving Fisher, con il suo classico studio sulla
crisi economica del '29, in seguito a cui formulò la teoria della deflazione da debiti e
una serie di proposte per uscire dalla recessione. E Hyman P. Minsky, il cui pensiero
viene analizzato a fondo, non limitandosi alla sola teoria dell'instabilità finanziaria,
proprio per poter in seguito comprendere quanto di esso sia ancora adeguato a
spiegare le crisi finanziarie che avvengono al giorno d'oggi.
● Nel Capitolo 3 viene analizzato il boom economico irlandese tra il
1987 e il 2001, gli anni di maggiore prosperità. Questo argomento, che ha meritato
studi ben più approfonditi, è essenziale per comprendere da quali presupposti la crisi
è nata.
● Il Capitolo 4 è il cuore di questo scritto. In esso viene descritta la
crescita artificiale dell'economia irlandese dopo il 2001, fino all'esplosione della
bolla immobiliare. Si passa poi a una breve rassegna dei suggerimenti di Fisher e
Minsky per affrontare le crisi e a ciò che in concreto è stato fatto nel caso irlandese,
con il patto per il salvataggio e infine uno sguardo alle prospettive future.
● Seguono alcune Conclusioni finali, in cui si cerca di rispondere
sostanzialmente a questo interrogativo: teorie come queste, elaborate pensando
soprattutto alla Grande Depressione, possono ancora oggi aiutare a comprendere i
meccanismi del ciclo finanziario, o sono forse diventate obsolete e inadatte alla
complessità finanziaria moderna?
8
2. Le basi teoriche
2.1 Fisher e la Grande depressione del 1929-32
“Stock prices are not too high and Wall Street will not experience anything
in the nature of a crash” (cit. in Pavanelli, 2001, p. 5).
Il crollo del mercato azionario del 1929 e la conseguente Grande
Depressione colsero Fisher
3
, come la maggior parte delle élites economiche e
finanziarie del paese, del tutto alla sprovvista e impreparati. Impegnato in prima
persona ad investire nel mercato azionario e con un grosso patrimonio in gioco, fino
a pochi giorni prima del “martedì nero” del 29 ottobre 1929 rilasciò ai giornali
dichiarazioni ottimistiche e rassicuranti sul fatto che
“The refluent wave of trading has left prices of securities,
and especially of common stocks, on a shelf where they will remain
3 Fisher nacque a Saugerties, NY , il 27 febbraio 1867. Assai portato per le scienze matematiche, fu
ammesso all'Università di Yale quando il padre morì, all'età di 53 anni. La figura paterna,
insegnante e ministro del culto congregazionista, rimase un punto di riferimento nella vita
dell'economista, e all'etica paterna risale il desiderio di riuscire a essere un membro concretamente
utile alla società in cui viveva. Nonostante il suo talento si esprimesse al meglio nella matematica
pura, scelse un dottorato in economia – tra i primi rilasciati a Yale - in quanto la scienza economica
gli parve la più adatta a fornire un contributo effettivo e tangibile alla sfera sociale.
La sua carriera accademica si svolse interamente presso l'università di Yale: i suoi interventi,
divulgativi nello stile, apparvero su giornali e riviste, non solo specializzati ma anche a grande
diffusione. Dal punto di vista economico si dedicò allo studio dei comportamenti monetari,
introducendo la variabile temporale nei processi di compravendita, indispensabile ai fini dello
studio dell'inflazione. In questo modo cambia la composizione del valore di beni e servizi, non più
funzione della sola quantità dei beni presenti sul mercato ma anche del momento in cui essi sono
scambiati. Il prezzo relativo dei beni acquistati ora (t) è differente rispetto a quello degli stessi beni
acquistati in futuro (t+1). A lui si deve anche la distinzione tra tasso d'interesse reale e tasso
d'interesse nominale (formalizzata in quella che venne poi ricordata come Equazione di scambio o
Equazione di Fisher → R = i-πe dove r e i sono rispettivamente il tasso d'interesse reale e quello
nominale e l'inflazione è una misura dell'aumento del livello dei prezzi) - e l'uso costante
dell'analisi statistica, derivante dal suo background matematico, applicata ai dati macroeconomici.
Prima dello scoppio della crisi del '29 mantenne un forte ottimismo. La gravità della crisi lo spinse a
riconsiderare le sue aspettative e a cercare nuove spiegazioni per quel che era successo. Da
quest'evento nacque la debt-deflation theory, e il suo rinnovato impegno ad intervenire attivamente
nella vita della Nazione, suggerendo soluzioni di politica economica ai governanti di turno. Fisher
viene ricordato come uno dei protagonisti della vita e del dibattito pubblico americano dell'inizio
del '900, su temi anche non prettamente economici. Ad essi infatti affiancò il ruolo di appassionato
paladino della salute ed eugenista.
La morte avvenne a New York il 29 aprile del 1947 (cfr. Cohrssen, 1991e Pavanelli, 2001).
9
permanently higher than in past years (cit. in Pavanelli, 2001, p.
5)”.
Fisher fondava il suo ottimismo sul fatto che, a suo parere, i prezzi delle
azioni incorporassero il valore attuale dei dividendi futuri, ritenuti in costante
crescita in seguito alle innovazioni nel campo scientifico e tecnologico degli anni '20.
Queste avrebbero avuto ripercussioni sui settori dell'industria manifatturiera ed
agricola portando a considerevoli incrementi nella produzione e, conseguentemente,
nei profitti. Ma tutto ciò fu invece fonte di eccessive manovre speculative, che si
accompagnarono ad una politica del credito sempre più rischiosa e permissiva.
Quando il crollo si manifestò in tutta la sua portata Fisher subì, oltre alla repentina
perdita di una enorme fortuna azionaria che lo ridusse quasi sul lastrico, anche un
pesante danno d'immagine: venne meno la credibilità delle sue analisi e subì un
lungo isolamento sia da parte della comunità scientifica sia del grande pubblico. Lo
shock collettivo fu traumatico e la Grande Depressione, nel suo dispiegarsi nel corso
degli anni '30, spinse Fisher a mettere definitivamente in discussione la classica
teoria dell'equilibrio generale, nell'intento di avviare una riflessione sui meccanismi
che erano riusciti a provocare un crack di simili proporzioni.
La particolare gravità della crisi portò Fisher a ritenere che si trattasse non
di un raggiungimento del punto più basso da ascrivere al normale funzionamento del
ciclo economico, bensì di qualcosa di radicalmente diverso, per cui si rendesse
necessario un nuovo inquadramento teorico. Fu così che sviluppò una nuova teoria
delle crisi economiche, alla quale diede il nome di teoria della deflazione da debiti,
che rigettava la classica teoria dell'equilibrio generale attribuendo le crisi allo
scoppio inatteso di bolle creditizie. Questa teoria non ebbe immediata risonanza a
causa della sopracitata sfiducia nei confronti del suo autore in quel periodo. La teoria
della deflazione da debiti è tornata in auge con le crisi degli anni '80 e ha trovato
nuove conferme con quelle successive: le crisi asiatiche di fine millennio e quella del
credito americana del 2007. Già dagli anni '60, tuttavia, si era assistito ad un recupero
importante della teoria di Fisher: essa era stata infatti l'humus da cui è germogliata la
debt deflation school di cui Hyman Minsky fu uno dei maggiori esponenti.
10
2.2 La teoria della deflazione da debiti
“[...] the very effort of individuals to lessen their burden of debts increases
it. […] The more the debtors pay, the more they owe” (Fisher, 1933, p. 344).
Fisher elaborò la sua teoria della deflazione da debiti a crisi ancora in corso,
presentandola in pubblico per la prima volta a un convegno accademico nel 1932 e
per esteso nel volume Booms and Depressions (1932). Una versione più sintetica
della teoria fu pubblicata sulla rivista Econometrica, con il titolo The Debt-Deflation
Theory of Great Depressions (1933). In quest'articolo egli diede una spiegazione,
suddivisa in 49 paragrafi, dei meccanismi che avevano portato non solo alla crisi ma
anche, dopo apparenti segni di recupero, al successivo aggravarsi. Il nome della
teoria racchiude i due principali elementi scatenanti, ovvero una situazione iniziale di
sovraindebitamento cui si aggiunge un processo dinamico di riduzione dei prezzi
(deflazione).
Il ragionamento di Fisher nasce come approfondimento della teoria del ciclo
economico, da lui definita come parte dello studio del disequilibrio economico.
Invece di un unico ciclo egli parla di molteplici cicli coesistenti, che si influenzano a
vicenda, e di cui la storia economica finisce per essere il risultato. Il movimento del
ciclo “libero” è simile a quello di un pendolo in oscillazione, delle onde dell'oceano o
di una barca in balia di esse (1933). In condizioni normali tutte le variabili
economiche tendono verso un equilibrio stabile, come oscillazioni del pendolo che
diminuiscono sempre più la loro ampiezza fino a ritornare all'equilibrio. Eppure allo
stesso modo è assurda l'assunzione che, nel lungo periodo, questo equilibrio possa
mantenersi immobile, e ciò a causa della natura intrinseca dell'agire umano, sempre
in cerca del massimo profitto. Superando dunque la concezione del mercato come
forza auto-stabilizzante, fu tra i primi a rifiutare l'assunto che la sfera finanziaria
fosse scollegata e neutra rispetto a quella dell'economia reale. In futuro verrà infatti
da altri dimostrato come essa rechi conseguenze concrete sulle variabili reali quali
investimento, reddito e occupazione. La domanda cui si trattava a questo punto di
rispondere era: come è possibile che alcune oscillazioni fossero maggiori di altre, al
11
punto da rendere impossibile un ritorno all'equilibrio e scatenare le grandi crisi della
storia? Cosa può determinare disturbi tanto grandi da provocare il ribaltamento della
barca, anziché il suo ritorno al normale rollio? Riflettendo sulla Depressione, Fisher
individuò le cause originarie della crisi innanzitutto nei miglioramenti tecnologici, e
nei conseguenti aumenti di produttività degli anni precedenti, i quali avevano
generato
“new opportunities to invest at a big prospective profit”
(Fisher, 1933, p.348).
di molto superiori ai tassi e profitti ordinari. Da questo punto di vista e in
quelle condizioni il comportamento degli agenti economici dell'epoca non si sarebbe
affatto potuto definire come irrazionale, in quanto non facevano altro che perseguire
ciascuno il proprio interesse. Approfondite soprattutto in Booms and Depressions vi
erano poi altre cause, esterne agli Stati Uniti e derivanti dalla politica internazionale,
che avevano agito da acceleratori della spirale deflazionistica:
a) l'eredità generale di forte indebitamento lasciata dalla Prima Guerra
Mondiale, con le inevitabili sfiducie e rivalità tra le varie potenze;
b) i fallimenti bancari in Austria e Germania con la conseguente crisi della
sterlina britannica, tradizionale alleato politico ed economico degli USA;
c) i prestiti per la ricostruzione agli stranieri, e in particolare la politica di
bassi interessi adottata per permettere proprio all'Inghilterra di rientrare nel regime di
gold standard nel 1925;
d) i conseguenti attacchi speculativi alle riserve di oro statunitense, ovvero il
flusso di oro dagli altri Paesi verso gli Stati Uniti, che causò al loro interno una
riduzione dell'offerta di moneta nello sforzo di mantenere il gold standard.
É questo lo sfondo su cui si innesta la situazione di eccesso di
indebitamento, una delle precondizioni essenziali per lo sviluppo di una crisi. Con
essa vengono favoriti una irrazionale esuberanza di investimento e speculazione,
causata dall'eccesso di fiducia da parte di tutti gli operatori economici. In queste
condizioni, anche uno shock altrimenti considerato “minore” (cattive notizie o un
crollo dei prezzi delle azioni) può dare il via allo svolgersi della crisi secondo una
concatenazione ricostruita da Fisher, il quale la articola in nove punti:
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(1) la liquidazione dei debiti attraverso la svendita di
beni;
(2) la contrazione dei depositi, dato che i prestiti vengono
ripagati, e una caduta nella velocità di circolazione della moneta,
ne deriva
(3) una caduta nel livello generale dei prezzi e quindi un
aumento nell’onere del debito espresso in termini reali,
(4) la diminuzione nel net worth delle imprese e i primi
fallimenti;
(5) la caduta dei profitti;
(6) il crollo dell’investimento, del reddito e della
occupazione;
(7) ulteriore peggioramento dello stato di fiducia;
(8) tesoreggiamento e ulteriore diminuzione nella velocità
di circolazione della moneta; questi otto effetti causano
(9) complesse alterazioni nei tassi di interesse, in particolare
una diminuzione del tasso di interesse nominale ed aumento di
quello reale” (Sau, 2005, p.446).
Nello svolgersi degli eventi l'ordine dei nove punti non fu esattamente
questo. Si tratta di una presentazione logica con un fine espositivo: nel concreto
possono verificarsi interazioni tra i vari punti e ripetizioni che si rafforzano l'una con
l'altra, in una rete di rapporti in cui ogni fattore influenza ed è influenzato da alcuni o
tutti gli altri. Da notare come non sia sufficiente uno dei due fattori iniziali,
indebitamento e deflazione, a provocare la crisi, bensì sia necessario il loro
contemporaneo presentarsi e rispettivo rafforzamento, di modo che
“as a bad cold leads to pneumonia, so over-indebtedness
leads to deflation” (Fisher, 1933, p. 344).
Con l'aumento dell'onere del debito (punto 3) si verifica la situazione
paradossale che è il segreto delle grandi crisi, e cioè l'anomalia per la quale ogni
dollaro ancora da pagare è diventato un dollaro “più pesante” di quanto non fosse
13
prima della crisi
4
. Se non contrastata e lasciata a se stessa la spirale verso il basso
rischia di aggravarsi e andare avanti per anni, in quanto la riduzione generalizzata dei
prezzi arriva a danneggiare anche quegli imprenditori che all'inizio non si trovavano
in cattive condizioni economiche. Ad essere minata è la fiducia dei debitori o dei
creditori o di entrambi, a proposito dei quali va tenuto conto delle modalità con cui
sono distribuite nel tempo le restituzioni delle somme dovute, alimentando, con
l'avvicinarsi delle scadenze, la corsa alla liquidazione che si trasforma in una
svendita dei beni.
2.3 Una teoria rivalutata nel corso del 1900
“[...] the Depression was an unexpected event that demanded new answers”
(Pavanelli, 2001, p. 4).
Fisher e le sue teorie godettero per un certo periodo di un particolare
discredito, in ambito sia accademico sia pubblico, dovuto all'etichetta di “cattivo
profeta” assegnatagli dopo il crack del '29. La sua impostazione non verrà ripresa
seriamente fino agli anni '60, con l'affermarsi della scuola della deflazione da debiti,
di cui Minsky fu l'esponente più affermato. Uno dei motivi chiamati in causa per
l'iniziale scarsa fortuna della debt deflation theory è il fatto che dopo la Grande
Depressione non si sia assistito, per un lunghissimo periodo, a una caduta
generalizzata del livello dei prezzi. Il lungo periodo di stabilità ha portato a pensare il
processo deflazionistico come un evento improbabile e di conseguenza privo di
rilevanza sia teorica sia pratica. Il che può essere smentito, in quanto la deflazione
può investire non contemporaneamente i beni di consumo e i beni capitali, ma anche
soltanto il prezzo delle azioni e degli asset, come più volte è successo nel corso del
XX secolo pur senza portare a gravi conseguenze sistemiche.
Critiche sono anche state presentate a uno degli assunti della teoria: l'Effetto
Pigou (Sau, 2006) sostiene come una caduta del livello generale dei prezzi possa
4 Alla fine della crisi infatti il totale delle liquidazioni aveva fatto aumentare il dollaro del 75%
mentre il debito era cresciuto di circa il 40%.
14
avere conseguenze poco significanti, in quanto essa determina una semplice
redistribuzione della ricchezza dai debitori ai creditori, a patto che questi siano in
grado di determinare un aumento della domanda aggregata tramite un aumento dei
loro consumi e investimenti. Quest'ipotesi è stata smentita da Tobin (1980), il quale
“ha mostrato come, se la propensione marginale alla spesa
dei debitori (costituiti principalmente dagli imprenditori e dalle
famiglie) è, come ragionevole, maggiore di quella dei creditori
l'effetto Fisher può prevalere sull'effetto Pigou e la caduta dei prezzi
può non essere affatto stabilizzante” (Sau, 2005, p. 448).
In una situazione di deflazione i creditori si trovano inoltre davanti a grosse
perdite dovute alle difficoltà nel recupero dei loro crediti, altro fattore che spinge a
una diminuzione piuttosto che un aumento della domanda aggregata. Affermata
pertanto la sostanziale solidità delle fondamenta della teoria della deflazione da
debiti, essa offre un punto di riferimento, anzi il punto di partenza, per chi voglia
approfondire le concatenazioni di cause ed effetti che portano alle specifiche
situazioni di instabilità finanziaria odierne. Questo compito va affrontato tenendo
presente il fatto che la struttura stessa del sistema economico al giorno d'oggi non è
paragonabile a quella dell'epoca in cui si è verificata la Grande Depressione. Anzi,
essa è andata incontro a molteplici stravolgimenti, nuove regole sono state applicate
e altre sono divenute obsolete e abrogate. La difficoltà maggiore risiede nel fatto che
lo studio di Fisher poteva applicarsi alla sola economia statunitense, pur nei suoi
rapporti con il resto del mondo; oggi è invece impossibile prescindere dal processo di
globalizzazione economico-finanziaria in atto, ad un ritmo sempre più frenetico,
dagli anni '80-'90, cui si è accompagnata la progressiva liberalizzazione dei mercati.
L'estrema volatilità dei grandi capitali, privi dei vincoli delle barriere nazionali e alla
ricerca delle migliori occasioni di profitto (in particolar modo verso i paesi
emergenti), ha provocato boom economici così come anche situazioni dove l'eccesso
di indebitamento e la conseguente instabilità finanziaria sono divenute la norma.
Su questo sfondo si sono innestate le crisi internazionali degli ultimi tempi,
a partire da quelle che hanno colpito svariati paesi del sud-est asiatico sul finire degli
anni '90. In quel caso, l'afflusso di capitali assunse la forma di forti indebitamenti
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