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Introduzione
“Il vero giornalismo si fa
con la suola delle scarpe”.
Egisto Corradi
Il giornalismo di guerra è da sempre considerato come uno dei
settori più importanti dell’informazione ed è probabilmente il
genere che in ogni epoca ha maggiormente entusiasmato e
coinvolto il pubblico. Un tempo, come soleva ricordare Egisto
Corradi, principe degli inviati di guerra tra gli anni Settanta e
Ottanta, l’unico imperativo da ricordare era “scarpinare”.
Bisognava infatti camminare, recarsi sul posto e soffermarsi a
guardare gli avvenimenti con i propri occhi. Solo attraverso la
conoscenza diretta era possibile raccontare un avvenimento.
Alcuni decenni dopo, queste consuetudini appaiono purtroppo
superate. “Tutto ti scivola via sotto i piedi, mutano i simboli, i
segni si spostano, i punti di orientamento non hanno più un
luogo fisso”
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scrive il giornalista polacco Ryszard Kapuscinski,
alle prese negli anni Novanta con i mutamenti nelle
rappresentazioni e nelle sonorità dovuti al passaggio all’era
digitale.
Un grande salto tecnologico ha investito il mondo
dell’informazione nel nuovo millennio, producendo
cambiamenti profondi nel modo di vedere il mondo e
raccontarlo. Sballottato tra la prima linea e la comoda poltrona
di un hotel, il corrispondente, da sempre restio alle innovazioni,
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Kapuscinski R., Lapidarium. In viaggio tra i frammenti della storia –
Feltrinelli, Milano, 1997, p. 11
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appare adesso impossibilitato farne a meno. L’esito di questo
incontro non è tuttavia scontato. Quali evoluzioni ha quindi
portato e porterà la massiccia introduzione di nuovi strumenti
tecnologici nel giornalismo di guerra?
L’idea della tesi nasce da questo interrogativo e dalla mia
personale curiosità di indagare origini e sviluppi di
avvenimenti passati, di comprendere e approfondire la realtà
che è davanti agli occhi di tutti e di provare a immaginare il
futuro. Uno sguardo convinto e interessato su mondi lontani e
impalpabili. Il mestiere dell’inviato di guerra mi ha infatti
sempre affascinato: storie incredibili, lunghi viaggi, scelte
coraggiose e cronache appassionate. Un’immagine forse
stereotipata e avventurosa che tradisce le numerose difficoltà e
il pericolo nascosto di camminare in equilibrio sulla sottile
linea che separa il rischio dall’azzardo e la vita dalla morte,
secondo logiche che sono probabilmente difficili da capire ed
esulano dalla professione vera e propria.
Questo lavoro presenta quindi l’intento di chiarire e
identificare la figura dell’inviato di guerra, ripercorrendone la
storia passata e presente fino ai giorni nostri: non solo
attraverso la letteratura esistente sull’argomento, bensì anche
con un tentativo di allargare gli orizzonti verso il futuro. Un
viaggio estenuante lungo le rotte tracciate nel tempo dagli
impavidi paladini dell’informazione, talvolta osannati come
eroi mentre in altri casi giudicati come spie o nemici e
condannati a uno sguardo forzatamente lontano. Passione e
vocazione sono sempre state componenti determinanti: più che
un lavoro, il corrispondente di guerra è infatti uno stile di vita,
un modo di approcciarsi alla realtà seguendo unicamente il
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proprio istinto. Un lavoro in cui si deve accettare la solitudine e
nel quale vengono fuori le paure più profonde di un essere
umano: la forza per andare avanti è un requisito morale più che
professionale.
La tesi si divide in quattro capitoli, ognuno dei quali
rappresenta una fase storica del giornalismo di guerra. Il primo
capitolo inizia con una breve illustrazione che identifica e
definisce il mestiere di inviato di guerra, citando le importanti
doti personali e professionali che ogni giornalista dovrebbe
possedere. Essere corrispondente di guerra non significa solo
raccontare il chi e cosa, il dove, il come e il quando, ma
indagare anche i perché: fondamentale quindi una vasta cultura
di base. Tuttavia, può non essere sufficiente: questo mestiere
non è infatti esente da rischi. Superare i limiti imposti da
politici, Stati ed eserciti, mettendo a repentaglio la propria
esistenza è realmente pericoloso, tuttavia esprime il desiderio
di spingersi oltre e arricchire di nuove esperienze il proprio
medagliere, orgoglio di ogni inviato.
Dopo la premessa, la tesi entrerà nel vivo. Il primo
capitolo descrive infatti il passato remoto di questa antica
professione: una dettagliata cronistoria dalla sua invenzione
fino agli ultimi anni del millennio appena trascorso. Un viaggio
attraverso rapidi mutamenti, grandi scoperte e improvvisi passi
falsi che hanno portato l’inviato di guerra da prestigioso
narratore fino a scomodo intruso e in seguito infido nemico. La
paternità del mestiere è generalmente assegnata a William
Howard Russell, giovane giornalista irlandese che seguì la
guerra di Crimea, inaugurando il periodo d’oro dei
corrispondenti di guerra: uno dei coraggiosi eroi che
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raccontavano eventi lontani e sconosciuti. Furono le Grandi
Guerre a ridimensionare la figura dell’inviato, tracciando un
profondo solco di indifferenza che sarebbe durato fino al
conflitto del Vietnam, vero crocevia per le sorti della
professione. La cosiddetta sindrome del Vietnam, ossia la
convinzione che le sorti del conflitto fossero state decise
dall’impatto delle immagini televisive sull’opinione pubblica,
avrebbe poi condizionato negativamente i rapporti tra
l’informazione militare e il giornalismo. Rappresentativa, in
questo senso, l’invisibilità della prima guerra del Golfo e la
macchinazione del secondo conflitto. Da una parte il news
management, ossia il rigido controllo dell’informazione, e
dall’altra gli embedded, giornalisti al seguito delle truppe,
rappresentarono le novità che decretarono un sostanziale
cambiamento nel modo di intendere e raccontare la guerra.
Snodi temporali cruciali per questa particolare tipologia di
giornalismo che consentiranno di comprendere i sentieri
percorsi nel nuovo millennio e anche quelli debolmente
tracciati per il futuro. Fu infatti già a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento, ossia dai tempi di Russell, che le nuove
tecnologie cominciarono a plasmare il mestiere di inviato di
guerra, decidendo il pensionamento di vecchi corrispondenti ed
esaltando le nuove e giovani leve più all’avanguardia. Una
tendenza che sarebbe continuata fino ai giorni nostri.
Il secondo capitolo racconta invece il passato prossimo del
giornalismo di guerra, affrontando le trasformazioni e gli
stravolgimenti apportati alla professione di inviato di guerra
dall’avvento di Internet e dell’intero universo virtuale costituito
da blog e social media. Questa sezione ha l’obiettivo di
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analizzare le modalità attraverso cui il mestiere è riuscito a
sopravvivere, adattandosi e ridefinendosi verso nuovi orizzonti.
Risparmiando la suola delle scarpe, questa fase del giornalismo
ha assistito piuttosto all’incedere dei polpastrelli sulla tastiera
del personal computer. Decisivo il passaggio dal broadcasting,
sistema di diffusione passivo tipico di radio e tv, al browsing,
archetipo di una nuova comunicazione in cui il destinatario
svolge un ruolo centrale. Le notizie hanno smesso di essere un
prodotto finito, diventando un continuo work in progress.
Punto di non ritorno è stato il conflitto del Kosovo, definito
come “il primo di Internet”. Ha infatti sancito la distinzione tra
vecchie e nuove guerre: è divenuto più difficile ingabbiare
l’attività del reporter, il quale però si è lentamente trasformato
da narratore di eventi lontani a selezionatore del flusso virtuale
di notizie in Rete. Lungi dal decadimento, la mediazione
giornalistica dimostrerà di poter ancora vantare un ruolo
importante nell’organigramma informativo. Significativa la
svolta apportata successivamente dall’introduzione del web 2.0,
sinonimo di condivisione e collaborazione senza precedenti. A
partire dal quel momento, la professione dell’inviato di guerra
è mutata radicalmente: blog e social media hanno lanciato una
nuova rivoluzione tecnologica. La corsa agli innovativi
armamenti ha visto dapprima i giornalisti arrancare dietro alle
difficoltà, dando poi origine a un nuovo soggetto, un mix tra
l’avventuriero del passato e il factotum del futuro. Il blog si è
imposto rapidamente nel panorama giornalistico grazie alla
facilità di utilizzo, trovando la sua consacrazione nella guerra
in Afghanistan e Iraq. Rapidità e approfondimento hanno
costituito inedite opportunità rispetto ai media mainstream. I
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corrispondenti hanno sfruttato le potenzialità della Rete per
creare un’informazione totalmente diversa rispetto al passato:
veloce, intima ma soprattutto collaborativa, grazie ai cruciali
interventi degli internauti. Pino Scaccia, Giovanna Botteri,
Stuart Hughes e Kevin Sites sono solo alcuni degli inviati di
guerra che hanno utilizzato con successo questa piattaforma.
Tuttavia, un valore aggiunto fu rappresentato dall’esperimento
del freelance Christopher Allbritton, il quale per primo sfruttò
economicamente la Rete per ottenere finanziamenti da parte
degli utenti al fine di poter svolgere il suo reportage in Iraq. La
natura democratica di Internet ha tuttavia dato voce non solo
agli inviati sui fronti di guerra, bensì anche a ordinari cittadini
e militari. Salam Pax e Riverbend sono i casi che segnano il
debutto del Citizen Journalism, tuttavia anche i milblog, ossia i
blog redatti dai militari in prima linea, hanno costituito
un’importante opportunità di vivere la guerra dall’interno.
Sostegni e benefici che aiuteranno il giornalismo, invece di
sconfiggerlo. L’avvento dei social media come Facebook,
Twitter e Youtube, segnerà la strada verso nuovi orizzonti:
inediti strumenti sia per cercare e diffondere notizie sia per
stabilire nuove relazioni con pubblico e fonti. Il mestiere di
inviato di guerra cambierà quindi nuovamente al seguito delle
nuove tecnologie. Il social network creato da Mark Zuckerberg
estende infatti i confini della comunicazione personale,
rendendo l’informazione più social. Youtube, invece,
rilanciando il paradigma della visualità tipico della tv in chiave
virtuale, ha creato un nuovo modo di raccontare la guerra. È
tuttavia Twitter il vero vaso di Pandora della professione: una
risorsa che diverrà insostituibile. Grazie ai suoi soli 140
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caratteri fisserà un nuovo modo di fare giornalismo, più rapido
e in tempo reale. In ultimo, l’introduzione di smartphone, ossia
apparecchi telefonici tascabili, connessi a Internet e ricchissimi
di tutte le funzioni, ha dato origine al Mojo, ossia Mobile
Journalist. Spogliati di pesanti equipaggiamenti, i giornalisti
diventeranno sempre più invisibili e potranno avventurarsi in
luoghi off-limits: un lavoro a 360 gradi, 24 ore al giorno. La
non esclusività da parte dei giornalisti dei ferri del mestiere
come avveniva in passato, consentirà l’esplosione del Citizen
Journalism. Smartphone e Internet, proprio perché appannaggio
ormai di tutti, hanno permesso la creazione di un giornalismo
dal basso. Un’opportunità o una minaccia?
Il terzo capitolo racconta il presente del corrispondente di
guerra. La nuova sfida risponde infatti al nome di primavera
araba, ossia l’insieme di proteste e agitazioni che nei primi
mesi del 2011 ha scosso alcuni Stati del Nord Africa e del
Medio Oriente. Questo lavoro si concentra in particolare sui
casi dell’Egitto e della Libia, totalmente differenti per origini e
sviluppi, con lo scopo di testimoniare concretamente l’utilizzo
che giornalisti e cittadini hanno fatto di blog, social media e
smartphone per raccontare gli eventi. Dopo una breve
cronistoria introduttiva circa le origini degli Stati e dei regimi
autocratici che vi hanno dominato per lungo tempo, la tesi
espone la pervasività e l’ubiquità dei social network nella
nascita e nello svolgimento dei moti rivoluzionari. Facebook
nel caso egiziano e Twitter in quello libico sono stati i
principali artefici dell’esplosione delle rivolte, poiché hanno
permesso alle persone, soprattutto giovani, di unirsi attorno a
un unico obiettivo, dando vita a una sorta di alleanza
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panarabistica moderna. Se i social network sono stati
essenziali per l’emergere delle rivoluzioni, hanno svolto un
ruolo primario anche nella loro narrazione da parte degli inviati
in guerra. Consentendo di raccontare gli eventi in tempo reale,
con una copertura senza precedenti e attraverso un punto di
vista inedito, le nuove tecnologie hanno tracciato una cesura tra
vecchi e nuovi reportage di guerra. Nuove possibilità si sono
imposte agli onori della cronaca, mantenendo tuttavia fissi e
immutabili i capisaldi del buon giornalismo, quali rigore,
imparzialità, completezza e verifica delle informazioni.
Nicholas Kristof, inviato del New York Times, ha infatti
utilizzato Facebook attraverso il suo smartphone collegato a
una rete mobile per seguire la rivoluzione di piazza Tahrir al
Cairo, coinvolgendo attivamente i suoi lettori in una nuova
esperienza social. Di tutt’altra natura, l’esperimento di Johnny
Colt, il quale ha immortalato attimi e scorci delle rivolte
attraverso la fotocamera del suo Iphone. Nonostante l’exploit
dei social media, anche i blog hanno continuato a rappresentare
un appiglio importante nelle primavere arabe. Testimonianza
diretta ne è l’esperienza di Pino Scaccia, storico inviato della
Rai, il quale in un blog ha quotidianamente aggiornato ha
raccontato la sua avventura tra Tripoli e Bengasi, sulle tracce
dei ribelli contro Gheddafi. Twitter è invece stato lo strumento
prediletto dal veterano della CNN Ben Wedeman, il quale ha
narrato dettagliatamente tutti gli avvenimenti di cui è stato
testimone, aggiungendo fotografie e filmati per rendere il
resoconto davvero realistico. I social network hanno tuttavia
anche esposto i corrispondenti a rischi maggiori rispetto al
passato. La possibilità di essere reporter con Internet e cellulare
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ha aperto la strada a un esercito di freelance, soprattutto
giovani, che troppo spesso hanno messo a repentaglio la loro
incolumità pur di ottenere la notizia o l’immagine migliore. Il
lato oscuro della professione di inviato nel nuovo millennio
può essere peggiore di ogni immaginazione: aggressioni,
rapimenti e uccisioni hanno tristemente accompagnato la
cronaca degli eventi della primavera araba. Emblematico il
caso della corrispondente della CBS Lara Logan, aggredita e
violentata in piazza Tahrir durante i festeggiamenti per le
dimissioni di Mubarak. O ancora la complicata e paurosa
sventura occorsa al freelance statunitense James Foley, rapito e
segregato per 45 giorni. “Ci sono viaggi che non finiscono mai,
perché te li porti dentro, ti restano sulla pelle”
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racconta Pino
Scaccia. Tuttavia, in guerra talvolta si muore anche. Il
britannico Tim Hetherington è solo uno dei venti reporter morti
durante le primavere arabe. Esperienze sconvolgenti,
mestamente facilitate dalle nuove tecnologie: un rapporto
sempre più burrascoso con la guerra attenderà i prossimi
inviati.
Il quarto capitolo, infine, tratta il futuro del mestiere di
corrispondente di guerra. Impossibile prevederlo, tuttavia
questo lavoro si avvale dell’opinione di quattro importanti
professioni dell’informazione. Le interviste a Cristiano Tinazzi,
Mimosa Martini, Giovanni Porzio e Fausto Biloslavo fanno
infatti chiarezza sui possibili sentieri che il giornalismo di
guerra potrebbe intraprendere nei prossimi anni. Si andrà verso
una possibile “deskizzazione” del mestiere? Il ruolo
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Scaccia P., La torre di Babele. Storie (e paure) di un reporter di guerra –
Halley Editrice, Macerata, 2005, p. 39
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dell’inviato in guerra sarà ancora cruciale? E quale la
situazione si prospetta in Italia? La risposta a questi
interrogativi non è affatto scontata.
In poche parole, questo lungo viaggio itinerante mostra le
impronte lasciate dal giornalismo di guerra in oltre un secolo e
mezzo di storia. Voltandosi indietro si scorgono le tappe
fondamentali e i tasselli essenziali che hanno portato al
mestiere di corrispondente di guerra, così com’è oggi, con tutti
i suoi benefici, ma anche con i molti rischi. È importante
mantenere uno sguardo sempre rivolto in avanti, al futuro: gli
insegnamenti passati possono essere utili per intuire eventuali
sviluppi, tuttavia il destino è ancora tutto da scrivere… e da
twittare.
Per la stesura di questo volume ho utilizzato materiali e
documenti in lingua inglese. In tutti i casi, dove non si faccia
esplicito riferimento a un’opera italiana, la versione dei brani
citati tradotta in italiano è opera mia. Mi scuso in anticipo per
eventuali errori o imprecisioni.