3
INTRODUZIONE
Il
cinema
nell’unità
di
luogo
Ma
in
una
stanza
hai
tutto
lo
spazio
di
cui
hai
bisogno,
dove
vuoi
andare?
Ettore
Scola
1
I
fratelli
Lumière
agli
inizi
del
Novecento
chiamarono
la
loro
invenzione
"cinematografo".
Cinema,
dal
greco
κινέω, movimento.
Fu
pro prio
il
fatto
di
mostrare
oggetti
in
movimento
che
affascinò
coloro
che
ebbero
l'opportunità
di
vedere
i
primi
passi
di
quell'avventura.
Il
cinema
meravigliava
perché
mostrava
agli
spettatori
ciò
che
non
conoscevano,
conduceva
in
luoghi
remoti
coloro
che
mai
si
sarebbero
potuti
muovere
dal
loro
paese
di
provenienza.
Gli
a lbori
del
cinema
proponevano
piano
sequenza
davanti
ai
quali
scorreva
la
vita,
altra,
lontana.
Con
lo
sviluppo
tecnologico ,
nuove
macchine
da
presa,
nuovi
obiettivi
e
nuove
pellicole
consentirono
di
mostrare
prospettive
e
facce
sempre
più
numerose
e
divers e
della
realtà
usando
modalità
di
rappresentazione
sempre
più
originali.
I
registi
educarono
lo
spettatore
al
piacere
dei
campi
lunghi
e
lunghissimi
e
offrirono
sempre
più
spesso
la
confortante
certezza
dell’establishing
shot
iniziale
e
delle
lunghe
carrellate
finali.
Negli
anni
la
qualità
della
pellicola
è
diventata
sempre
maggiore,
e
anche
il
video
-‐
analogico
prima
e
digitale
oggi
-‐
è
andato
migliorando
raggiungendo
una
risoluzione
pari
al
35
millimetri.
Il
digitale
consente
oggi
di
creare
effett i
speciali
mirabolanti .
I
pixel,
cavalieri
del
digitale,
compiono
la
loro
scalata
fino
a
raggiungere
la
perfezione,
questo
permette
a
James
Cameron
di
girare
Avatar
nel
2009 :
paesaggi
fantastici,
esplorazione
della
terza
dimensio ne,
luci
e
colori
psichedel ici.
Ogni
istante
del
film
mira
a
sollecitare
la
mente
dello
spettatore
con
immagini
talmente
forti
ed
eccezionali
che
nemmeno
il
cervello
può
concepire
da
solo.
Avatar
per
questo
rappresenta,
la
s intesi
perfetta
della
ricerca
cinematografica
commerciale
d el
nuovo
millennio.
1
Parole
di
Ettore
Scola,
durante
una
Lectio
Magistralis
tenuta
agli
studenti
presso
l’università
Iulm
il
30
Novembre
2011
4
La
tesi
che
propongo
nega
tutto
questo.
Quello
che
intendo
fare
è
sfidare
il
cinema
a
duello,
con
una
mano
legata
dietro
la
schiena .
Il
lavoro
di
analisi
che
ho
svolto
racconta
il
cinema
amputato
delle
sue
funzioni
spettacolari,
nega
i
campi
lunghi,
proibisce
l’evoluzione
s paziale,
ingabbia
i
personaggi.
L’unica
cosa
che
concede
allo
spettatore
è
il
più
puro
piacere
voyeuristico:
osservare,
senza
essere
visto
e
da
un
punto
di
vista
privilegiato,
c iò
che
accade
in
una
stanza.
L’appagamento
deriva
dal
fatto
che
la
stanza
potrebbe
appartenere
a
chiunque
in
sala
e
i
personaggi
potrebbero
essere
qualsiasi
spettatore.
L’unità
di
luogo
permette
al
cinema
di
confrontarsi
con
il
fratello
maggiore:
il
teatro.
Attenendosi
alle
unità
aristoteliche
i
registi
si
accostano
ai
grandi
drammaturghi
tragici
della
storia
del
teatro
antico,
per
i
quali
il
palcoscenico
è
set
unico
per
eccellenza,
e
si
battono
per
il
conferimento
della
funzione
catartica
prospettata
dallo
stagirita.
Ovviamente
è
necessario
considerare
i
casi
in
cui
l’unità
di
set
è
una
scelta
obbligata
dal
budget,
tuttavia
nella
maggior
parte
dei
casi
è
una
prova
a
cui
si
sottopone
il
regista
dettata
da
una
precisa
volontà
autoriale.
Sebbene
la
maggior
parte
delle
sc eneggiature
siano
di
derivazione
teatrale,
le
opere
prese
in
esame
non
sono
teatro
filmato
o
cinema-‐teatro,
ma
film
in
cui
i
registi
raccolgono
la
sfida
lanciata
dal
teatro
e
la
rimaneggiano
con
la
propria
arma:
la
macchina
da
presa.
Scrive
in
proposito
Si dney
Lumet:
Innanzitutto
la
macchina
da
presa
non
può
controbattere.
Non
può
fare
domande
stupide.
Non
può
fare
domande
complicate
che
ti
fanno
capire
che
hai
sbagliato
fin
dal
principio.
In
fondo
è
una
macchina
da
presa!
Ma:
-‐
Può
compensare
una
prestaz ione
scadente
-‐
Può
rendere
mi gliore
un’interpretazione
buona
-‐
Può
creare
atmosfera
-‐
Può
creare
bruttezza
-‐
Può
creare
bellezza
-‐
Può
dare
eccitazione
-‐
Può
catturare
l’essenza
del
momento
-‐
Può
fermare
il
tempo
-‐
Può
cambiare
lo
spazio
-‐
Può
definire
un
personaggio
-‐
Può
dare
esposizione
5
-‐
Può
fare
uno
scherzo
-‐
Può
fare
un
miracolo
-‐
Può
raccontare
una
storia
Se
in
un
mio
film
ci
sono
due
star,
in
realtà
so
che
ce
ne
sono
sempre
tre.
La
terza
star
è
la
macchina
da
presa
2
.
L’unità
di
luogo
inoltre
lascia
lo
spettatore
perennemente
in
bilico
sul
filo
della
dicotomia
claustrofobia -‐claustrofilia,
proponendo
la
tematica
dell’amore
per
il
claustrum
con
la
scelta
di
un
unico
set
di
ripresa.
Al
contempo
però
lo
rende
spiacevolmente
claustrofobico
attrave rso
l’uso
di
tecniche
di
ripresa
che
mirano
a
impressionarlo,
catturandolo
e
rendendolo
direttamente
partecipe.
Il
film
costretto
nell’unità
di
un
set
è
una
sfida
che
hanno
raccolto
svariati
registi
fin
dagli
albori
della
storia
del
cinema.
Tra
i
più
famosi
film
claustrof ili
è
necessario
menzionare
L’angelo
sterminatore
di
Buñuel
(L’ange
exterminateur ,
1965)
che
mostra
un
gruppo
di
persone
dell'alta
borghesia
che,
dopo
un
concerto,
si
riunisce
in
un
salone
da
cui
non
riesce
a
uscire ,
bloccato
da
una
forza
misteriosa.
Hitchcock
stesso
si
è
cimentato
in
più
opere
concentrate
in
un
un ico
ambiente
nevralgico
chiuso ,
come
Lifeboat
(1944)
e
La
finestra
sul
cortile
( Rear
Window,
1954).
Il
capolavoro
di
Stanley
Kubrick
Shining
(1980)
è
interamente
ambientato
all’interno
dell’ Overlook
Hotel
i
cui
corridoi
e
stanze
vuote
conferiscono
il
senso
di
terrore
che
pervade
l’ intera
opera.
Nella
seconda
parte
della
saga
di
Kill
Bill
(2004)
Quentin
Tarantino
inserisce
un
intero
capitolo
girato
all’interno
della
bara
nella
quale
la
protagonista
è
stata
sep olta
viva.
In
questa
mia
tesi,
il
tentativo
è
quello
di
“alzare
il
tiro ”,
di
scegliere
solo
lungometraggi
in
cui
la
c hiusura
sia
totale,
gli
spazi
sia no
veramente
angusti
e
nella
maggior
parte
dei
casi
costituiti
da
una
sola
stanza
per
ricercare
il
climax
emotivo
assoluto.
I
film
considerati
hanno
in
comune
l’unità
di
luogo
t otale
e
la
scelta
claustrofilica
dell’ambiente
chiuso
e
spazialmente
limitato ,
in
ogni
film
sono
concesse
due
riprese
en
plein
air
che
ne
decretano
l’inizio
e
la
fine,
come
per
lasciare
res piro
allo
spettatore
sfiancato
e
in
alcuni
casi
qualc he
altra
scena
in
esterno
purché
non
abbia
influenza
alcuna
nella
narrazione.
L’idea
di
questo
lavoro
è
partita
dalla
visione
al
cinema
di
Carnage
di
Roman
Polanski
la
cui
critica
letta
su
un
blog
«un
film
noioso,
inutile,
insopportabilmente
borghese,
teatrale
2
S.
Lumet ,
Fare
un
film ,
Nuova
pratiche
editrice ,
Parma,
1995,
pag.
71
6
ma
della
peggiore
specie »
3
mi
aveva
incuriosito
al
punto
da
indurmi
a
pagare
il
biglietto
per
vede rlo
su
grande
schermo .
Il
film
mi
ha
dato
l'idea
di
analiz zare
il
cinema
"privato"
nelle
due
accezioni
del
termine,
privato
nel
senso
di
un
cinema
chiuso,
da
camera,
e
privato
perché
amputato
di
alcuni
mezzi
e
opportunità
e
privo
di
quella
libertà
di
movimento
che
è
l'essenza
stessa
della
"settima
arte".
Ho
potuto
contare
su
una
bibliografia
abbastanza
ampia
per
quanto
riguarda
le
singole
analisi
dei
film,
ma
non
ci
sono
autori
che
abbian o
analizzato
il
tema
in
questione;
ogni
riflessione
deve
essere
dunque
analizzata
ricordando
un
detto
in
uso
in
ambito
psicologico:
i
Freudiani
sognano
Freudiano
e
gli
Jung hiani
sognano
Jung hiano.
Entro
dunque
in
questa
disamina
c on
la
consapevolezza
di
piegare
opere
molto
diverse
al
mio
tema,
ricercando
caratteristiche
e
connessioni
con
cui
costruire
un
discorso
improntato
sul
claustrum
come
unità
spazio -‐temporale
che
consenta
la
catarsi.
Che
questa
selezione
di
opere
rappresenti
un
percorso
di
declino
del
cinema,
o
costituisca
un
nuovo
possi bile
esito
creativo
è
una
questione
che
rimarrà
ai
margini
di
questo
lavoro.
3
Recensione
a
Carnage
dal
blog
http://mammuthgiallo.blogspot.it
7
LE
UNITA’
ARISTOTELICHE
E
IL
CINEMA
Il
poeta
è
un
imitatore
come
un
pittore
o
un
altro
fabbric atore
di
immagini
Aristotele
4
Come
ho
voluto
sottolineare
in
precedenza,
i
film
presi
in
considerazione
per
questo
studio
sono
stati
scelti
anche
per
la
sfida
che
lanciano
nel
proporre
storie
che
utilizzan o
le
restrizioni
proprie
delle
rappresentazioni
teatrali
e
per
hanno
quindi
forti
analogie
strutturali
con
l e
tragedie
greche
analizzate
da
Aristotele.
Al
tempo
dei
grandi
pensatori
ellenici ,
l’intrattenimento
aveva
la
caratteristica
di
essere
momento
di
ritrovo
per
gli
abitanti
e
di
adorazione
degli
dei
da
parte
dei
presenti.
L a
principale
forma
di
espressione
teatrale
era
la
tragedia
e
molti
filosofi
si
sono
posti
il
problema
di
indagarne
gli
aspetti
fondanti.
In
particolare
Aristotele
nella
Poetica
analizza
l’arte
teatrale
proponendo
alcuni
concetti
chiave
che
rimarranno
di
importanza
fondamentale
nella
filos ofia
occidentale.
Il
cinema
è
un
importante
genere
di
intrattenimento
ancora
nel
nuovo
millennio,
nonostante
la
crisi
dovuta
al
confronto
con
le
televisioni
private,
e
per
questo
motivo
molti
studiosi
e
filosofi
se
ne
sono
occupati;
è
probabile
che
lo
Stagirita,
se
fosse
vissuto
nel
Novecento,
si
sarebbe
occupato
di
critica
cinematografica
e
filosofia
del
cinema,
tra
le
altre
cose.
Secondo
Aristotele,
come
secondo
Platone ,
l’arte
è
imitazione,
µιµεσι∫, della
natura;
tuttavia
lo
Sta girita
non
si
esprime
nei
confronti
dell’arte
con
l’atteggiamento
negativo
di
Platone.
Per
l’allievo
di
Socrate ,
l’arte
si
riduce
a
produrre
imitazioni
di
imitazioni,
cioè
copie
della
realtà
sensibile,
che
è
a
sua
volta
copia
sbiadita
dal
mondo
delle
idee
5
.
Per
lo
Stagirita,
l’arte
non
imita
ciò
che
è
realmente
accaduto
ma
rappresenta
ciò
che
può
accadere,
ovvero
non
illustra
il
vero
ma
il
verosimile,
innestandosi
in
questo
modo
in
un’ottica
universale
e
trascendente.
I
personaggi
della
tragedia
greca
non
rappresentano
mai
il
particolare,
ma
per
analogia
rappresentano
sempre
tipologie
umane.
4
Aristotele,
Poetica,
Bur,
Milano,
1987,
pag.
211
5
A.
Sani ,
Il
cinema
tra
storia
e
filosofia ,
Le
lettere ,
Firenze,
2002,
pag.
93
8
Scrive
Aristotele :
La
tragedia
è
infatti
imitazione
non
di
uomini
ma
di
azioni
e
di
modo
di
vita
6
[..]
anche
nei
caratteri
è
necessario,
come
nella
composizione
dei
f atti,
ricercare
sempre
o
necessità
o
verisimiglianza,
in
modo
che
sia
necessario
o
verisimile
che
una
persona
di
un
certo
tipo
dica
o
faccia
cose
di
un
certo
tipo,
e
che
sia
necessario
o
verisimile
che
un
fatto
succeda
ad
un
altro
7
.
Questo
aspetto
della
t eoria
aristotelica
si
riscontra
in
maniera
evidente
nelle
opere
cinematografiche
che
si
svolgono
in
un
unico
luogo
ed
in
particolare
quelle
caratterizzate
anche
dall’unità
di
tempo.
Tutti
i
personaggi
sono
rappresentanti
della
società,
la
performance
attor iale
mira
alla
descrizione
di
un
“tipo”
umano
verosimile
in
cui
lo
spettatore
possa
ritrovare
se
stesso
o
qualcuno
che
conosce.
Tra
i
film
presi
in
esame
questa
caratteristica
si
può
riscontrare
maggiormente
ne
La
parola
ai
giurati
di
Lumet
e
Carnage
di
Polanski.
Nel
primo,
in
cui
una
giuria
si
rinchiude
in
una
stanza
per
deliberare
la
sorte
di
un
giovane ,
i
dodici
giurati
che
nella
realtà
sono
scelti
in
modo
casuale,
qui
rappresentano
con
precisione
alcuni
tipi
americani
con
tutti
i
loro
stereotipi
e
pr egiudizi.
Viene
cioè
costruito
un
microcosmo
che
rappresenta
l'America
e
il
suo
sistema
democratico.
N ella
casa
dei
Longstreet
di
Carnage
le
tipologie
umane
sono
così
finemente
delineate
e
così
tanto
stereotipate
da
rendere
lo
scontro
inevitabile.
Aristotele
propone
tre
fondamentali
precetti
per
una
buona
opera
teatrale:
l’unità
di
azione,
tempo
e
luogo.
L’unità
di
luogo
si
imponeva
nella
democrazia
ateniese
in
quanto
si
trattava
di
teatro ,
ma
la
sfida
si
è
riproposta
per
i
registi
del
novecento
che
potevano
portare
il
cinema
dappertutto
e
si
sono
invece
attenuti
alle
indicazioni
dell’antico
filosofo.
L’altro
importante
precetto
è
che
il
racconto
deve
essere
un’azione
“ intera
e
compiuta ”
cioè
una
successione
di
fatti
legati
tra
loro
da
nessi
tempora li
e/o
causali.
L’inizio
del
racconto
è
la
parte
del
dramma
che
è
slegata
da
nessi
che
la
relazionino
al
passato ,
ma
dai
quali
seguono
necessariamente
gli
altri
eventi
con
legami
logici
che
possano
condurre
a
una
risoluzione
finale
di
tutte
le
catene
tempo rali
o
causali.
8
6
Aristotele,
op.
cit. ,
pag.
137
7
Aristotele,
ivi,
pag.
169
8
B.
Matozzo ,
Hitchcock
e
Aristotele.
La
tragedia
al
cinema ,
Falsopiano
cinema ,
Alessandria,
2011,
pag.11.