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Capitolo primo
Definizione di figlicidio. Classificazione e sintomi delle principali patologie
connesse secondo il DSM-IV TR
Il presente capitolo si compone di due parti: nella prima si argomenta sulla
definizione del termine figlicidio nelle sue diverse accezioni e tipologie, nella seconda
si descrivono le diverse patologie connesse al figlicidio rivolgendo maggiore attenzione
al Disturbo Schizoaffettivo e Disturbo Depressivo Maggiore secondo la sintomatologia
e la classificazione del DSM-IV TR e la letteratura psicodinamica.
In riferimento alla definizione di “figlicidio” è necessario sottolineare che il
termine nasce dalla criminologia e rientra nel più ampio settore di violenza contro il
minore. Da un punto di vista psichiatrico il figlicidio entra a far parte di una categoria di
omicidi commessi nei confronti del minore che prendono il nome di neonaticidio e
infanticidio. La differenza sostanziale tra i tre termini: figlicidio, neonaticidio ed
infanticidio, è da ricercare nel fatto che il neonaticidio, come implicito nella parola
stessa, ricorre nell’immediatezza della nascita, l’infanticidio indica l’uccisione del
bambino entro il primo anno di età mentre l’atto omicida compiuto sul figlio dopo il
primo anno di vita si definisce figlicidio.
Le motivazioni che spingono una madre ad uccidere il proprio figlio possono
essere diverse così come le varie tipologie di figlicidio. Pertanto individuare il tipo di
figlicidio significa comprendere le ragioni che possono spingere una madre ad uccidere
il proprio bambino. In tal senso in questo capitolo si prende in considerazione la
classificazione effettuata da Merzagora-Betsos (2003).
La criminologa in base a studi effettuati nel corso degli anni e al contributo di
autori che in passato hanno affrontato il tema - si ricordano Resnick (1969), Scott
(1973), D’Orban (1979) - ha stilato una serie di tipologie situazionali e motivazionali
del figlicidio materno che vanno dall’assenza di psicopatologia alla presenza di una
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patologia grave. Tuttavia, il campo di studio esaminato nel primo capitolo è circoscritto
alla descrizione di cause psicopatologiche come il Disturbo Schizoaffettivo e il Disturbo
Depressivo Maggiore con Manifestazioni Psicotiche secondo il DSM-IV TR e il
panorama psicodinamico. In particolare vengono descritte la classificazione, i criteri
diagnostici del DSM-IV TR per entrambi i disturbi e la sintomatologia schizoaffettiva e
depressiva che riguarda l’alterazione dell’area cognitiva, affettiva e vegetativa. Inoltre,
considerato che la letteratura psicodinamica classifica tali psicopatologie come psicosi
maniaco-depressiva, nell’ultimo paragrafo del capitolo vengono presentate le ipotesi dei
principali autori che hanno trattato il tema della depressione come Freud (1917) nel suo
classico lavoro Lutto e melanconia, Abraham (1911, 1916) il discepolo con cui Freud ha
elaborato buona parte delle sue ipotesi sulla depressione, Klein (1935-1937) con la
teoria delle relazioni oggettuali, Bibring (1953) che si differenzia da questi autori in
quanto fu il solo a non riconoscere un ruolo chiave al Super-io, Jacobson (1971) che
evidenzia un modello di relazione oggettuale di tipo interpersonale ed infine Arieti
(1978) autore contemporaneo, che ha introdotto, nel panorama psicodinamico il
concetto di “altro dominante” e “obiettivo dominante” mettendo in luce una sorta di
piano esistenziale preesistente nella personalità “potenzialmente” depressa che relega
l’individuo a vivere non per se stesso ma per un’altra persona che l’autore definisce
“altro dominante”.
In sostanza l’inquadramento psicopatologico ha il duplice obiettivo di descrivere
lo stato psico-fisico che potrebbe sperimentare una donna che sta per commettere l’atto
omicida e di introdurre alla comprensione della dinamica figlicida, tema affrontato nel
secondo capitolo dove si avanza l’ipotesi che la madre con psicosi maniaco-depressiva
uccide il figlio in quanto estensione di sé. La denominazione psicosi maniaco-
depressiva verrà utilizzata dal secondo capitolo.
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1. Definizione di figlicidio
Il termine figlicidio deriva dal latino filius, figlio, e cidium-cidere, uccidere che
tradotto corrisponde a: uccisione del figlio. E viene utilizzato dalla criminologia per
indicare l’uccisione del figlio dal compimento del primo anno di vita in poi (Fiorentini,
1981, 263-275). Tale fenomeno rientra nella più vasta gamma di atti aggressivi rivolti
dal genitore verso il proprio figlio. Pertanto definire il figlicidio significa anche
distinguere tra l’atto criminoso e ciò che viene denominata condotta con significato
figlicida che ricorre nel caso di maltrattamenti fisici, seduzioni incestuose, sevizie
psichiche (Carloni, Nobili, 2004, 62-76). Tali atti costituiscono comportamenti assunti
nei confronti del proprio figlio, motivati da pulsioni aggressive che non culminano però
nell’atto omicida.
Nella nostra civiltà, particolarmente attenta ai diritti del minore e sensibile ad
ogni tipo di abuso sull’infanzia, il delitto del figlicidio appare in tutta la sua gravità e
incomprensibilità. Tuttavia il tema dell’assassinio del proprio figlio è riscontrabile in
diverse culture e periodi storici. In riferimento a quest’ultimo aspetto basti pensare che
nell’impero romano vi era “la patria potestà” che contemplava il diritto di vita e di
morte sui figli che potevano essere venduti e sacrificati agli dèi. Devereux, psicoanalista
e antropologo, riferisce che il cannibalismo ed il commercio della carne dei figli erano
frequenti nel medioevo durante i periodi di carestia, così come sono stati consumati
anche nella Russia post-rivoluzionaria e in Cina durante la grande carestia degli anni
‘59-‘61 (Deverux cit. in Di Gianfrancesco, 2005, 57).
In culture differenti da quella Italiana, come quella Indiana e Africana si
riscontrano casi in cui, secondo il costume locale, l’uccisione di un infante non viene
considerato un delitto, poiché il neonato è appena venuto al mondo e non può essere
considerato un essere umano completo. Secondo tali costumi, il neonato deve essere
trasformato in essere umano poco alla volta. A tale proposito Bramante sostiene nel
libro Fare e disfare dall’amore alla distruttività materna che prima del secolo attuale,
in India i 6/7 della popolazione praticava in modo sistematico il figlicidio delle bambine
ed era usanza diffusa tra le donne del Bengala gettare i propri figli nel Gange. Ogni
anno in India nascono 12 milioni di bambini ma il 25% non arriva a 15 anni. Risulta che
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tra il primo e quarto anno di età muoiono 300 femmine contro 100 maschi (Bramante,
2005, 59). Ci sono stati, come in India e Cina in cui la pratica del figlicidio è legata ad
una scelta politica che ha lo scopo di ridurre le nascite e ad una scelta di genere: il figlio
maschio è privilegiato in quanto, ad esempio secondo la religione Indù, deve essere il
figlio più grande a compiere riti funebri mentre per sposare le figlie c’è costume di
dover dare in dote, al futuro marito una cifra pari a 970 euro, peso spesso gravoso per la
maggior parte delle famiglie. Secondo l’UNICEF le donne che mancano all’appello
dalla popolazione mondiale sono circa 60 milioni. Il problema riguarda in maggior
misura i popoli asiatici dove vige la tradizione di preferire il figlio maschio come Cina,
Corea, Taiwan, Pakistan, Bangladesch, Nepal, Vietnam ed India. Seppur considerando
la libertà delle diverse culture, il figlicidio costituisce comunque un fenomeno che va
analizzato e prevenuto anche in Paesi così lontani dal nostro (Bramante, 2005, 165).
In Italia la situazione appare diversa, l’uccisione del proprio figlio non sottende a
motivi politici o di genere ma si ritiene che sia collegato per lo più a forma più o meno
grave di psicopatologia. Come riportato nell’articolo di Di Gianfrancesco, Il figlicidio:
un delitto inspiegabile, le madri figlicide per la maggior parte dei casi sono giudicate
affette da un disturbo psichiatrico (Di Gianfrancesco, 2005, 57). Questo non esclude il
dato che le motivazioni al figlicidio possono essere molteplici e complesse. Tale
aspetto, però, verrà affrontato più avanti.
In sostanza il termine figlicidio nasce dalla criminologia però, và sottolineato,
che in Italia tutti gli omicidi commessi entro l’anno di vita del bambino sono classificati
come infanticidio. Ad oggi il figlicidio non risulta contemplato dal codice penale mentre
sono presenti riferimenti all’infanticidio e neonaticidio. Emerge quindi l’esigenza di
proporre le varie definizioni che la criminologia e il diritto forniscono in riferimento
all’infanticidio, figlicidio e neonaticidio (Merzagora-Betsos, De Micheli, 2006, 1-2).
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2. Definizione della criminologia e del diritto di: Figlicidio, infanticidio e
neonaticidio
Il codice penale italiano fa riferimento solamente all’infanticidio e neonaticidio
da qui l’esigenza di individuar le differenze che sussistono tra questi reati.
La criminologia differenzia tra il neonaticidio, che ricorre nell’immediatezza
della nascita, l’infanticidio che consiste nell’uccisone del bambino entro il primo anno
di età e il figlicidio quando la vittima ha più di un anno (Merzagora-Betsos, 2003, 119).
Il neonaticidio e l’infanticidio come sostiene Merzagora-Betsos (2003) e come
dichiarato dal codice penale italiano, ricorrono solo qualora l’uccisione avvenga
immediatamente dopo la nascita.
Le parole con cui l’art. 578 del codice penale, sancisce il reato d’infanticidio
sono le seguenti: “Chiunque cagiona la morte di un neonato immediatamente dopo il
parto, ovvero di un feto durante il parto, per salvare l’onore proprio o di un proprio
congiunto, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. A coloro che concorrono nel
fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno.
Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere
diminuita da un terzo a due terzi”.
Nel concetto di infanticidio, così come previsto dal codice penale la madre viene
considerata parte attiva dell’atto commesso ma non viene dichiarata colpevole di
omicidio (Nivoli, 2002, 15). Invece i genitori che uccidono i propri figli al di fuori di
questo strettissimo arco temporale, ovvero nell’immediatezza del parto, sono ritenuti
colpevoli di omicidio secondo l’articolo 575 del C.P. che afferma: “Chiunque cagiona la
morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ai ventuno anni”.
Le motivazioni che spingono una madre ad uccidere il proprio bambino sono
molteplici e complesse. Pertanto, prendendo in considerazione contributi di vari autori
quali Catanesi e Troccoli (1994), Nivoli (2002), Resnick (1969), si possono individuare
una serie di tipologie situazionali e motivazionali del figlicidio materno, in un
continuum che va dall’assenza di patologia ad una patologia sempre più grave
(Merzagora-Betsos, 2003, 119-120). Come sostiene Nivoli (2002) gli scenari di fondo
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in cui avviene il delitto di figlicidio possono essere caratterizzati da un sentimento
inadeguato della maternità, dalla presenza di patologie acute, dall’abuso di sostanze. Vi
sono, quindi, diverse tipologie situazionali e motivazionali del figlicidio materno. Nel
prossimo paragrafo viene presentata la tipologia di figlicidio di Merzagora-Betsos
(2003).
3. Tipologia di figlicidio di Merzagora-Betsos 2003
L’interesse scientifico per il figlicidio si è imposto da circa quarant’anni sulla
scorta dell’interesse più generale per lo studio sulla violenza contro i minori ed in
particolare dei genitori verso i figli.
Come è stato accennato nei paragrafi precedenti individuare la tipologia di
figlicidio significa comprendere le ragioni che possono spingere una madre ad uccidere
il proprio bambino. In tal senso in questo paragrafo si prende in considerazione la
classificazione effettuata da Merzagora-Betsos (2003). Tuttavia diversi autori nel corso
degli anni hanno fornito una classificazione delle varie tipologie di figlicidio. In ordine
cronologico di studio effettuato vi è il contributo dello psichiatra Resnick (1969), Scott
(1973), D’Orban (1979), Wilkey, Pearn e Nixon (1982), Cheung (1986), Bourget e
Brandford (1990), Wilczynsky (1997), Guileyardo, Prahlow e Barnard (1999), Meyer e
Oberman (2001), Merzagora-Betsos (2003).
La scelta di prendere come riferimento la tipologia di figlicidio proposta da
Merzagora-Betsos risiede nel fatto che l’autrice, prendendo in considerazione il
contributo di diversi autori quali Catanesi e Troccoli (1994), D’Orban (1979), Nivoli
(2002), Resnick (1969), Schwartz e Isser (2000), fornisce un’esauriente classificazione
delle varie motivazioni del figlicidio materno (Merzagora-Betsos, 2003, 119-130).
L’autrice, come detto sopra, presenta la seguente serie di tipologie situazionali e
motivazionali del figlicidio materno: complesso di medea, sindrome di munchausen per
procura, figlicidio dovuto all’atto impulsivo di madri che sono solite maltrattare figli,
uccisione per brutalità, figlicidio dovuto all’agire omissivo di madri passive e negligenti
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nel ruolo materno, madri che uccidono i figli trasformati in capri espiatori delle loro
frustrazioni, figlicidio di madri che hanno subito violenza dalla propria genitrice,
psicopatologie puerperali, figlicidio dovuto a depressione grave non collegata al parto
(Merzagora-Betsos, 2003, 120-128).
In riferimento al primo tipo di figlicidio, complesso di medea, l’uccisione del
figlio costituisce un vero atto vendicativo. In particolare la madre uccide il proprio
figlio per punire il compagno o marito dei torti reali o presunti subiti. Con l’uccisione
del figlio la madre cerca di arrecare danno e dispiacere al proprio compagno. Tale
dinamica prende il nome di sindrome di medea
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(Merzagora-Betsos, 2005, 128).
In genere, sostiene Nivoli (2002) queste madri vendicative (retaliating mothers)
presentano disturbi di personalità con aspetti aggressivi, comportamenti impulsivi,
tendenze suicide. Inoltre le loro relazioni con i compagni sono spesso ostili e caotiche
(Nivoli, 2002, 50).
La seconda tipologia di figlicidio riscontrata è chiamata sindrome di
munchausen
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per procura (SMP) è una forma di maltrattamento che deriva dalla troppa
sollecitudine della madre. Esse appaiono premurose, ansiose per la salute del bambino.
Rosen et al. parlano di comportamento esemplare, di madri definite dai mariti come
estremamente devote ai figli. In particolare il DSM-IV TR si riferisce al “disturbo
fittizio per procura” asserendo che: “La caratteristica essenziale è la produzione
1
Sindrome di Medea: Tale denominazione prende il nome dal mito greco. Medea, esperta in arti magiche,
dopo aver abbandonato la famiglia di origine ed aver ucciso suo fratello Aspirto, facendolo a pezzi per
ritardare l’inseguimento del padre (re della Colchide Eete), fugge con Giasone. Questo però minaccia di
abbandonarla per un’altra donna. Medea sentendosi ferita dal comportamento dell’amato, uccide i due
figli che aveva avuto con lui allo scopo di vendicarsi del suo tradimento. Lei aveva rotto tutti i vincoli con
la sua famiglia pur di stare con lui arrivando a violare le norme più sacre, uccidendo il fratello.
Sotto il profilo psicoanalitico, i figli possono essere stati uccisi da Medea non solo perché si interrompe la
linea di discendenza di Giasone ma anche per il desiderio di realizzazione allucinatoria del possesso totale
dei propri figli, estromettendo il padre. I figli di Medea diventano così un suo bene materiale a cui ella nel
suo sentimento di onnipotenza, come ha dato la vita, così la può togliere. La spada con cui Medea trafigge
i figli potrebbe significare la tipica rappresentazione del fantasma di una madre fallica, mascolina,
aggressiva, vendicativa (Bramante, 2005,121).
2
Sindrome di Munchausen per procura: il nome di sindrome si rifà al barone di Munchausen, Gerolamo
Carlo Federico, che visse in Bodenweder, Germania, nel XVII secolo (1720-1790) che divenne famoso
vagabondando di città narrando storie fantastiche ed incredibili avventure, “ricche di menzogne” tra cui la
più famosa riguardava una viaggio sulla luna compiuto servendosi di una piantina di fagiolo cresciuta in
modo prodigioso (Bramante, 2005, 121).
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deliberata o simulazione di segni o sintomi fisici o psichici in un’altra persona che è
affidata alle cure del soggetto. Tipicamente la vittima è un bambino piccolo e il
responsabile è la madre del bambino. La motivazione di tale comportamento viene
ritenuta essere il bisogno psicologico di assumere, per interposta persona, il ruolo di
malato” (APA, 2001, 828). In sostanza la madre procura una qualche malattia al
bambino con la somministrazione di sostanze o comunque mette in atto un
comportamento attivamente maltrattante. Le principali patologie simulate sono
emorragie, disturbi del comportamento, disturbi funzionali del tipo di cefalea o
emicrania. Ricorrono spesso le intossicazioni utilizzando sostanze quali cloruro di
sodio, lattulosio, barbiturici, fentoina, prometazina, diazepan, aspirina, fenotiazina,
arsenico (Bramante, 2005, 124).
Un ulteriore tipologia di figlicidio è relativa all’atto impulsivo di madri che sono
solite maltrattare figli. Merzagora-Betsos le definisce battering mother. Queste madri,
rispondono con un atto impulsivo aggressivo in seguito a stimolazioni del giovane
figlio, come per esempio pianti o urla dello stesso. È importante sottolineare che si tratta
di donne che non hanno elaborato un progetto omicidario.
Rientrano, infatti nella denominazione di coloro che assumono una condotta con
significato figlicida. Spesso queste madri presentano disturbi di personalità, aspetti
depressivi, irritabilità e facilità ad agire impulsivamente (Merzagora-Betsos, 2003, 130).
Un ulteriore tipologia elaborata da Merzagora-Betsos con il contributo di studi
effettuati da De Greef e Nivoli, sono le madri che uccidono il proprio figlio per
brutalità. De Greef ritiene che rientrano in tale categoria quelle madri che attivano tale
comportamento in quanto infastidite dal pianto o dalle esigenze del bambino (De Greef
cit.in Merzagora-Betsos, 2003, 119-120). Studi condotti da Nivoli (2002) e Merzagora-
Bestsos (2003) rilevano che tali madri spesso vivono situazioni familiari problematiche
come numerosi figli a cui badare, condizioni economiche indigenti, problemi di
separazione con il marito o compagno. Ciò che differenzia tale tipologia situazionale e
motivazionale dalle altre è che si è in presenza di una continuità e regolarità in
riferimento all’abusare del proprio figlio (Nivoli, 2002, 40).
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La quinta tipologia di figlicidio è relativa all’atto omissivo di madri passive e
negligenti nel ruolo materno. Rientrano in questa categorie quelle madri incapaci di far
fronte ai compiti della maternità che servono a garantire le necessità vitali del figlio
(Nivoli, 2002, 38). In altri termini la morte del bambino potrebbe essere dovuta
all’incapacità della madre di soddisfare e rispondere in modo adeguato ai bisogni del
proprio bambino. Vivendo le esigenze del figlio come qualcosa di minacciante e di
complicato che può rovinare la loro vita. Sherrere (1974) sostiene che: “Questa
incapacità di adottare un atteggiamento materno maturo e responsabile si accompagna
alla sparizione vera e propria di quella sollecitudine primaria ansiosa, utile alla gestione
e protezione del bambino” (Sherrere cit. in Nivoli, 2002, 38). In sintesi si tratta di madri
che non sono in grado di affrontare la loro funzione materna nel provvedere alle
necessità fisiologiche e psicologiche del bambino. Secondo Winnicott (1958) la madre
per mediare i passaggi dello sviluppo sano del bambino deve essere capace di
“preoccupazione materna primaria”. Questa è una condizione psicologica temporanea
che consente alla madre di rendersi vulnerabile e recettiva ai bisogni del proprio
bambino. Ciò è determinante per la crescita sana del bambino e della relazione stessa.
Questa tipologia di madri figlicide, come sostiene Nivoli (2002), sono spesso donne che
presentano problemi di natura psicotica, con paure di fusione, angosce di annientamento
che influenzano in modo determinante il soddisfacimento delle esigenze primarie del
bambino. L’omicidio può avvenire attraverso un’alimentazione incongrua o
insufficiente, incidenti mortali apparentemente dovuti a fatalità. Quindi il figlicidio
avverrebbe in modo passivo e con omissioni. La madre, in uno stato psicotico,
sentendosi minacciata dal dover soddisfare le necessità del proprio bambino,
assumerebbe un ruolo passivo nel delitto, adottando una condotta con significato
figlicida (Nivoli, 2002, 80-81).
Una ulteriore tipologia motivazionale e situazionale, individuata da Resnick nel
1969, rielaborata da Nivoli nel 2000 e da Merzagora-Betsos nel 2003, riguarda le madri
che uccidono i figli trasformati in capri espiatori. Si tratta di donne, la cui percezione
distorta, le porta a considerare il proprio figlio come colui che ha rovinato
drammaticamente la propria esistenza, attribuendo ad esso la responsabilità del
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percepito fallimento esistenziale. In particolare queste madri hanno la percezione
distorta che il loro figlio abbia “sformato” attraverso la gravidanza il loro corpo, le
abbia condizionate a vivere in un ambiente a loro non gradito, le obblighi ad accettare
un compagno non amato oppure a non vivere felici con il compagno amato, le costringa
a dover trascorrere la giornata solamente per soddisfare i bisogni del bambino
(Bramante, 2005, 124-125).
Il figlicidio di madri che hanno subito violenza dalla propria genitrice,
comprende quelle categorie di madri che spostano l’aggressività dalla “madre cattiva”
verso il figlio e pur desiderando, a livello conscio, di non essere come la loro madre
cattiva, tendono a ripetere sui propri figli le violenze subite. Oppure spostano il
desiderio di uccidere la propria “madre cattiva” introiettata ed uccidono il figlio cattivo.
A tale proposito Nivoli riporta il caso di una madre di 26 anni che uccise il figlio di 4
anni soffocandolo con un cuscino. Numerosi testimoni al processo hanno confermato
che la ragazza era solita affermare: “Mio figlio sta crescendo come un delinquente
cattivo ed egoista come mia madre...” oppure “Mio figlio non è mio figlio... è figlio di
mia madre... tutte e due venuti al mondo per farmi soffrire” (Nivoli, 2002, 64).
Crimmins et al. studiando 42 donne condannate per figlicidio, hanno riscontrato che
avevano a loro volta sperimentato inadeguatezza materna, mancanza di protezione, anni
di frustrazione nella famiglia di origine nonché uso della violenza come sistema
abituale, il che le aveva condotte all’incapacità di provare attaccamento affettivo nei
confronti dei propri figli (Crimmins et al. cit. in Merzagora-Betsos, 2003, 125).
Per quanto riguarda le psicopatologie puerperali, come motivazione al figlicidio,
si riscontrano tre diverse forme tutte caratterizzate da depressione ma con differenti
livelli di gravità: maternity blues, depressione post-partum, psicosi puerperali
(Merzagora-Betsos, 2003, 126).
Vi sono inoltre madri che affette da depressione grave progettano spesso di
distruggere non soltanto se stesse ma anche i loro bambini che presumibilmente
vengono considerati dalla paziente come estensione di sé (Arieti, Bemporad, 1987, 91).
In tal caso si verifica l’uccisione del figlio e il conseguente suicidio della madre. Tale
dinamica è stata talora definita da Ferrio (1959) con il termine “omicidio altruistico” o
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suicidio allargato. Fornari (1965) e Merzagora-Betsos (2005) sottolineano un elemento
proprio di chi commette omicidio-suicidio; l’incapacità di distinguere tra sé e l’altro e di
rispettare l’altro nella sua autonomia, nella sua volontà, nei suoi diritti, primo fra tutti
quello di vivere, percependo la morte come liberazione dal dolore (Merzagora-Betsos,
Pleuteri, 2005, 17).
In sostanza la classificazione rielaborata da Merzagora-Betsos (2003) annovera
varie tipologie di figlicidio materno che vanno dalla presenza di un disturbo
psicopatologico sino all’assenza. In questa tesi viene affrontata la relazione tra figlicidio
e psicopatologia quale il Disturbo Schizoaffettivo e il Disturbo Depressivo Maggiore. A
conferma della presenza di un disturbo psicopatologico materno nel figlicidio, nel
prossimo sottoparagrafo si riportano ricerche e dati relativi agli studi effettuati da
criminologici, tratti dal contributo sia di Di Gianfrancesco (2005) in Il figlicidio: un
delitto inspiegabile?, articolo della rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno delle
farfalla, che da quanto riportato da Bramante (2005) in Fare e disfare: dall’amore alla
distruttività.
3.1. Figlicidio e ricerca criminologica
L’articolo di Di Gianfrancesco Il figlicidio: un delitto inspiegabile? riporta
alcune caratteristiche della ricerca criminologica in relazione all’uccisione del bambino
da parte del genitore, utilizzando il contributo di autori come Fagioli (2002), Lewis
(1998), Cristoffel (1983), Spinnato Vega, Nivoli (2002).
In particolare Spinnato Vega sostiene che: “La principale caratteristica della
criminologia è quella di ipotizzare una diagnosi senza esame diretto della paziente,
quindi deducendo l’ipotesi da dati che riguardano le modalità del delitto o le reazioni
dell’omicida al delitto stesso” (Spinnato Vega cit. in Di Gianfrancesco, 2005, 61). A
tale proposito Cristoffel (1983) individua alcuni elementi che costituiscono per la
ricerca criminologica dati molto rilevanti per comprendere la dinamica dell’omicidio,
per formulare ipotesi diagnostiche relative al tipo di patologia che potrebbe presentare
l’omicida e attuare un piano di prevenzione di complicanze cliniche come il suicidio o
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la reiterazione del reato (Cristoffel cit. in Di Gianfrancesco, 2005, 61). Tali elementi
sono: il tipo di arma usata, la tipologia delle lesioni, l’età e le caratteristiche della
vittima, le reazioni dell’omicida alla morte, il comportamento successivo al delitto e la
scena del delitto. Per quanto riguarda la tipologia delle lesioni sulla vittima Di
Ginafrancesco (2005) ritiene che: “La presenza del fenomeno dell’over killing, ovvero
la produzione sul corpo della vittima di un numero di lesioni eccessivo rispetto a quello
necessario a causarne la morte, fornisce notizie sulle caratteristiche patologiche del
soggetto agente” (Di Gianfrancesco, 2005, 62). In riferimento alle modalità lesive un
ulteriore contributo viene dalla ricerca effettuata da Bramante su 80 perizie psichiatriche
di donne ricoverate nell’OPG ospedale psichiatrico giudiziario (cfr. app. 1). È emerso
che le modalità lesive più frequenti sono annegamento per il 19%, soffocamento per il
18%, utilizzo di arma da punta e taglio, defenestrazione per il 15%, strangolamento
10% e nel 4% dei casi la madre ha utilizzato l’arma da fuoco per commettere il
figlicidio (Bramante, 2005, 164). Da tali risultati l’autrice ha ipotizzato una correlazione
tra le modalità lesive maggiormente utilizzate dalle donne ricoverate nell’OPG e la
patologia riscontrata; il 71% soffriva di disturbi psichici di cui il 55% di depressione e
l’11% disturbo psicotico.
Secondo Lewis, Cristoffel, Spinnato Vega et. al., un ulteriore elemento che
contribuisce a comprendere le caratteristiche psicopatologiche del soggetto agente sono
le informazioni che derivano dalle reazioni psicologiche della madre, dopo che ha
commesso l’atto omicida. Per esempio alcune madri possono tentare il suicidio dopo
aver realizzato quanto è stato commesso, oppure la donna può confessare in modo
automatico, o negare la propria identità e l’atto compiuto anche di fronte all’evidenza
(Lewis, Cristoffel, Spinnato cit. in Ferracuti, Mastronardi, 1998, 62).
Per quanto riguarda la diagnosi di Disturbo Schizoaffettivo e Depressivo
Maggiore con Manifestazioni Psicotiche, si annoverano ricerche e studi effettuati per lo
più in America, Canada, Inghilterra. Anche in Italia si riscontrano studi svolti da
Gallina-Fiorentini (1981), Bramante (2005). Entrambe le autrici in base all’analisi delle
perizie, quindi prendendo in considerazione i parametri forniti dalla criminologia (es.
modalità lesive, comportamento dopo il reato ecc.), hanno rilevato una percentuale
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maggiore di diagnosi schizoaffettiva o depressiva. In particolare Bramante su 80 perizie
ha rilevato che l’85% delle donne presentava Disturbo Schizoaffettivo o altri disturbi
psicotici, disturbi dell’umore e di personalità, paranoide, borderline e schizoide
(Bramante, 2005, 175-176). Gallina-Fiorentini (1981) analizzando 12 perizie di casi di
figlicidio materno in Italia ha riscontrato che in 11 casi su 12 il perito conclude con la
presenza di infermità mentale, e in 1 caso la capacità di intendere e di volere è piena. Le
patologie diagnosticate sono schizofrenia, depressione e infermità transitoria, provocata
da uno stato crepuscolare oniroide in cui il soggetto agisce come un automa (Fiorentini
cit. in Di Gianfrancesco, 2005, 61). D’Orban (1979) ha analizzato 89 perizie di
figlicidio materno commesso in Inghilterra. Per il 43% queste donne sono risultate
affette da disturbo della personalità (D’Orban cit. in Bramante, 2005, 180).
Stanton et al. (2000) hanno condotto lo studio del figlicidio materno su 12
donne, che erano in cura, colpevoli di aver ucciso il proprio bambino. Solo 7 di loro
hanno accettato di fare un’intervista. La patologia maggiormente riscontrata è la
depressione insieme ai disturbi schizoaffettivi (sia in forma maniacale che depressiva) e
alla schizofrenia (Stanton et. al. cit. in Bramante, 2005, 75).
Un ulteriore studio è quello condotto a Pittszuburg, presso il Western Psychiatric
Istitute and Clinic da Jennings et al. nel 1999. Il campione scelto consta di 100 madri
depresse con bambini di età inferiore a 3 anni, campione che viene paragonato ad un
gruppo di controllo composto da madri non depresse della stessa età anch’esse con
bambini di età inferiore a 3 anni. Scopo dello studio era quello di verificare la presenza
in queste donne di pensieri quali quello di nuocere al loro bambino, della paura di
rimanere sole con il bambino, e dell’incapacità di prendersi cure del figlio. Il risultato è
che il 41% delle madri depresse, rispetto al 7% di quelle non depresse, ammette di aver
avuto spesso pensieri riguardo al far del male al bambino. La paura di restare sole con il
figlio o l’incapacità di far fronte alle sue esigenze sono presenti esclusivamente nelle
madri che presentano un Disturbo Depressivo Maggiore (Jennings cit. in Bramante,
2005, 91-92).
Lo studio di Bramante su 80 perizie ha riscontrato che la patologia mentale
costituisce il primo movens all’uccisione del figlio il 61%. Nel 14% dei casi il movente
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è la “sindrome di medea” in cui l’odio verso il partner viene indirizzato verso il figlio.
Inoltre l’autrice ha verificato che, in alcuni casi sono presenti due motivazioni. Per es.
patologia psichiatrica come prima motivazione e sindrome di medea come seconda (10
casi). Questo vuol dire che seppur il primo movens è una grave patologia, alla
commissione del reato si potrebbe aggiungere l’intenzione della donna di far male e
punire il marito. Il figlicidio materno quindi è ricollegabile a diverse motivazioni
(Bramante, 2005, 163-164).
Per riassumere, la tipologia di figlicidio di Merzagora-Betsos (2003), descritta
nel paragrafo precedente, riporta principalmente la psicopatologia mentale come
motivazione al figlicidio ed i dati che emergono dalla ricerca criminologica sembrano
confermare la presenza di un disturbo mentale nella madre figlicida. In particolare
Stanton et al. (2000), Bramante (2005) Merzagora-Betsos (2003), Gallina-Fiorentini
(1981) per citarne alcuni hanno riscontrato, nel rispettivo campione analizzato, una
percentuale rilevante di donne affette da depressione grave con manifestazioni
psicotiche o disturbo schizoaffettivo. In questa tesi si prende in considerazione come
movente all’atto il Disturbo Schizoaffettivo e il Disturbo Depressivo Maggiore con
Manifestazioni Psicotiche. Pertanto nei prossimi paragrafi viene presentata la
classificazione e i criteri diagnostici del DSM-IV TR sia per il Disturbo Schizoaffettivo
che Depressione Maggiore con Manifestazioni Psicotiche.
4. Classificazione del Disturbo Schizoaffettivo e criteri diagnostici del DSM-IV
TR
Il Disturbo Schizoaffettivo può essere usato per identificare sia la comparsa
successiva e indipendente di una sindrome affettiva e di una schizofrenica che la
comparsa contemporanea del medesimo episodio di una sintomo di tipo affettivo e di
uno di tipo schizofrenico (Pancheri, Cassano, 1999, 17-27).