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INTRODUZIONE
LA STRATEGIA
Il termine strategia può essere definito come un insieme di pensieri e
azioni elaborati ed agite per raggiungere un fine prestabilito. Una
strategia è necessaria in tutti quei campi in cui per raggiungere un
obiettivo bisogna gestire una serie di operazioni, la cui scelta non è
unica e il cui esito è incerto.
Fino ad un secolo fa, l’arte della strategia si restringeva al campo
militare e al mondo della diplomazia.
Oggi invece, il termine “strategia” è diventato a tal punto dominante
da riguardare i più diversi ambiti, dall’economia alla scienza, dallo
sport alla seduzione. Tuttavia rimane il campo economico quello nel
quale questo termine, oggi, è più ampiamente usato, quasi fino a
diventarne un elemento fondamentale. Nel terreno dell’economia,
infatti, la strategia ha assunto un ruolo essenziale: ecco che nelle
aziende nascono strategie di produzione, di marketing, di management
e pubblicitarie.
Da lì ad usare la parola strategia per le attività individuali il passo è
stato breve, ad indicare che il valore primo della strategia è quello
metodologico. Infatti la costruzione teorica in base alla quale si opera
è almeno uno schema, un classificare ed organizzare dati e
conoscenze. Pur non avendo sempre un potere predittivo, essa può
avere almeno un potere organizzatore ed un valore critico.
Come ogni disciplina dello stesso tipo, la strategia non può dare una
risposta definitiva a tutte le domande, ma si pone come guida, come
criterio per ragionare correttamente, cioè nel modo più efficace, al fine
di ottenere il successo. Quest’ultimo non è infatti mai garantito, ma
dipende sia dalle circostanze esterne sia dal soggetto agente. Infatti il
soggetto principale dell’azione rimane sempre il genio, colui che è
capace di sconvolgere i piani avversari con la forza dell’intuizione.
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Ed il genio della guerra è stato sempre inteso come un personaggio
difficile da individuare preventivamente; proprio in questo la strategia
si differenzia dagli altri campi dell’agire umano: un musicista, un
avvocato o un medico illustre sono facilmente individuabili, grazie
alle loro opere precedenti, mentre lo stratega viene messo alla prova
solo nel momento decisivo; i governi, ad esempio, si vedono costretti
a scommettere sul leader che hanno prescelto, senza avere certezza
sulle sue qualità di gestione. Inoltre, anche se è possibile individuare il
genio, non si è mai sicuri che questi conservi nel tempo questa sua
genialità: la caduta di Napoleone fu dovuta ad un suo errore
gravissimo.
Risulta quindi evidente come la scienza strategica è solo in grado di
fornire una linea di condotta per il leader, una guida, affinché eviti gli
errori più grossolani, e gestisca le sue forze nel modo migliore.
Possiamo tracciare le caratteristiche principali della strategia dicendo
che essa risponde principalmente a tre domande: che, come, quando.
Prima di tutto bisogna rispondere alla questione del “che”, cioè cosa si
vuole conseguire, qual è la meta che si persegue. Poi bisogna dar
risposta al “come”: quali saranno i mezzi o le azioni che ci
permetteranno di raggiungere tale meta. Per ultimo bisogna rispondere
al “quando”: in che momento si realizzeranno le azioni. Queste tre
domande si formulano ogni volta che una persona deve prendere una
decisione o realizzare qualsiasi attività (tuttavia non tutte le decisioni
possono considerarsi strategiche).
Bisogna infine dire che l’elaborazione strategica è strettamente legata
al fatto che nelle diverse civiltà si tende ad affrontare i problemi della
strategia con un’ottica che risente fortemente delle specifiche
tradizioni culturali, etiche, filosofiche. Sembra dunque utile, per avere
una visione del concetto di strategia più completa, gettare un breve
sguardo su come questo si sia sviluppato in due culture così diverse
come quella occidentale e quella orientale.
Ai fini di questa indagine risulta centrale la figura del filosofo
francese François Jullien che, nei suoi testi, definisce le principali
differenze culturali tra Occidente e Oriente, differenze che si riversano
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nel modo in cui la strategia e quindi l’agire efficace vengono
concepite.
FRANÇOIS JULLIEN: studiare l’Occidente attraverso
l’Oriente
Il pensiero di Jullien è originale, difficilmente collocabile all’interno
delle tradizionali scansioni disciplinari cui siamo abituati. Senza
dubbio è da considerare un filosofo. Ma se la filosofia è innanzi tutto
quella tradizione che ha strutturato il pensiero ed il modo d’essere
dell’Occidente, possiamo dire che Jullien rimette in discussione i suoi
pilastri storici partendo da quelli dell’antica Grecia. Questo “mettere
in discussione” è in realtà un pensiero critico che emerge grazie al suo
approfondito studio della cultura orientale, il suo è in particolare uno
studio circa il terreno su cui Oriente ed Occidente si sono sfiorati,
intrecciati ed allontanati: “Il mio lavoro, in effetti, procede in tale scia:
venendo dalla Grecia, in quanto filosofo, e passando per la Cina, ho
incontrato il punto di scarto, o di distacco, per rimettere in prospettiva
il pensiero che ci appartiene, qui in Europa. Come noto infatti, una
delle cose più difficili da fare nella vita è di prendere le distanze nel
proprio spirito. La Cina, appunto, ci permette di prendere le distanze
dal pensiero da cui proveniamo, di rompere con le sue filiazioni, di
interrogarlo dal di fuori. Altre parole, di interrogarlo nelle sue
evidenze, in ciò che costituisce il suo impensato. Il passaggio per la
Cina possiede a mio parere due funzioni, o si sviluppa in due
direzioni: di deviazione e di ritorno. Primo momento: provare quello
che può essere uno spaesamento del pensiero. Che cosa accade in
realtà al pensiero quando si abbandona la storia della filosofia e, in
particolare, i grandi filosofemi dell’Occidente: l’Essere, Dio, la
Libertà ecc.? … La deviazione invoca un ritorno che consiste nel
riposizionarsi sulla filosofia per interrogarla in ciò che essa non
interroga, nel sondarla nei suoi partiti presi… Ormai lo avrete capito:
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non vado in Cina spinto dal fascino della distanza e dal piacere
dell’esotismo, ma ricorro a essa come un operatore (e rilevatore)
teorico allo scopo di inquietare il pensiero, di riaprire altri possibili nel
nostro spirito e, di conseguenza , per rilanciare la filosofia”
1
.
Jullien dichiara esplicitamente di rivolgersi alla Cina, alla cultura
cinese, non per fuggire la propria cultura d’origine, ma semplicemente
per cercare l’ “altro” del proprio pensiero.
Il filosofo francese fa coincidere questo “altro” con la Cina, la scelta
della Cina è una scelta di un’alterità radicale perché gli permette di
uscire dalla tradizione occidentale, da quella sorta di movimento
oscillatorio fra Atene e Gerusalemme, e di accedere ad altre parole
dell’Origine che non siano costrette fra il Logos o Yavéh, così da
poter uscire dalla dialettica fra Socrate ed Abramo.
La lingua è il punto di partenza delle divergenze tra le due culture: il
cinese non appartiene al gruppo delle lingue indo-europee e si basa su
ideogrammi, è l’unica lingua ad essersi conservata tra le ideografie
che esistevano un tempo. Il nostro sistema linguistico e quello cinese
sono due sistemi sviluppatisi indipendentemente l’uno dall’altro. Le
lingue europee sono caratterizzate da una morfologia e da una sintassi
praticamente inesistente nel cinese, lingua nella quale non esistono
declinazioni, coniugazioni dei verbi secondo tempi e persona e
differenze di numero, proposizioni relative o principali. Uno stesso
termine in cinese può avere uno spettro di significati piuttosto ampio,
ne deriva una speciale flessibilità che lo contraddistingue dal carattere
determinante delle lingue europee. Un’altra particolarità del cinese
classico è la mancanza del verbo essere in senso assoluto, cioè
esistenziale: possiamo dire “c’è” oppure “lui è piccolo”, utilizzando il
senso essere in modo predicativo, ma non si può dire “lui è”. Nel
pensiero cinese dunque, viene a mancare completamente la questione
del “che cos’è”, questione fondamentale invece nella filosofia greca;
l’ontologia è una possibilità che in Cina non è stata esplorata, non
1
François Jullien, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente, Editori Laterza, Bari,
2006, p. 10 e p.12
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esiste la questione dell’essenza e di conseguenza anche la nozione di
verità risulta assente.
Non esiste neanche una metafisica cinese, ciò è dovuto alla mancanza
di un piano altro (come per esempio una dimensione ideale di stampo
platonico), la riflessione cinese non ha mai sviluppato una separazione
tra sensibile e intelligibile.
Oriente: tra filosofia e saggezza
Dal momento che le nozioni cardine della filosofia occidentale non
sono state esplorate dal pensiero cinese, ci si potrebbe chiedere se la
riflessione cinese sia comunque considerabile una filosofia. Jullien ci
fa notare la possibilità di parlare di filosofia all’interno dello spirito
cinese: filosofia, quella cinese, che usa altri strumenti concettuali
rispetto a quella occidentale e che sembra meglio definibile con il
termine “saggezza”, saggezza da cui la filosofia occidentale si sarebbe
allontanata proprio a causa della sua ricerca della verità.
Jullien scrive: “La filosofia <<concepisce>>, diciamo (ha un oggetto:
la verità), mentre la saggezza <<realizza>> (il “lo”/ “ciò”
dell’evidenza). Nel senso in cui si dice realizzare, o piuttosto non
riuscire a realizzare che qualcuno è morto. Per questo serve uno
svolgimento (il pensiero cinese è proprio un pensiero del processo)…
<<Realizzare>> è dunque più preciso del semplice prendere
coscienza: realizzare è prendere coscienza non di ciò che non si vede o
di ciò che non si sa, ma, al contrario, di ciò che si vede, di ciò che si sa
o addirittura di ciò che si sa fin troppo – di ciò che si ha sotto gli
occhi; realizzare in altre parole, è prendere coscienza dell’evidenza”
2
.
Jullien tiene comunque a precisare che il pensiero cinese non è
rimasto all’ “infanzia della filosofia” (come invece sosterrebbero
Hegel e Merleau-Ponty, sostenitori dell’egemonia del pensiero
occidentale), ma è considerabile un Weltanschauung, visione del
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François Jullien, Il saggio è senza idee, Einaudi, Torino, 2002, pp. 61-62
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mondo: quando per esempio si discute circa il carattere buono o
malvagio della natura umana ci si sta impegnando in una riflessione
filosofica.
Non bisogna però dimenticare che qualsiasi posizione filosofica è in
quanto tale una posizione parziale, e nello spirito cinese il criterio
della onnicomprensività impedisce di rinchiudersi nella parzialità di
una posizione. Il pensiero cinese rifugge la parzialità, in quanto
antitetica alla comprensione di tutti i punti di vista in una visione
d’insieme unitaria. Il saggio infatti non è chi vede altrimenti, ma chi
racchiude tutti i punti di vista, chi pensa come tutti.
Del saggio, afferma Mencio, un discepolo di Confucio, non si può dire
nulla, nel senso che a seconda delle esigenze e delle circostanze può
incarnare un’attitudine piuttosto che un’altra, per esempio l’essere
coraggiosi o codardi, il dolore come la gioia. A questo atteggiamento
si lega la questione cinese del giusto mezzo, non nel senso di essere a
metà strada tra due posizioni (come suggerirebbe la filosofia greca),
ma nel senso di possibilità di sposare una posizione piuttosto che
un’altra: “La saggezza del medio può essere esattamente l’opposto -
rispetto alla concezione del medio greco- non un pensiero timoroso o
rassegnato, che avrebbe paura degli estremi e, compiacendosi della
mezza misura, porterebbe a vivere solo a metà; bensì un pensiero degli
estremi che permette, per variazione da un polo all’altro, in virtù del
fatto che non adotta alcun partito preso, non si rinchiude in alcuna
idea, di dispiegare il reale in tutte le sue possibilità”
3
. Formulato da
Confucio, ma al centro anche della tradizione taoista, dire che “il
saggio non ha idee” attesta la libertà del possibile di fronte a ogni
imprigionamento concettuale. “Senza idee” vuol dire che il saggio non
è posseduto da nessuna idea, non mette un’idea davanti ad altre, a
scapito di altre, non c’è principio, archè, fondamento che possa
rompere l’evidenza. Nella tradizione dei Maestri orientali, non
professare idee, ovvero la saggezza, equivale spesso al silenzio,
silenzio che contiene in sé tutte le possibilità: si è saggi senza dire
nulla, la saggezza è interpretare in funzione della situazione, per
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François Jullien, Il saggio è senza idee, Einaudi, Torino, 2002, pp. 23-24
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questo la saggezza non ha idee. Se si porta avanti un’idea, si lascia
infatti tutto il resto nell’ombra, ecco di nuovo che si vagherebbe nella
parzialità. Questa è la parola affascinante di Confucio: essere senza
idee, senza necessità, senza posizione e senza io. Senza idee perché il
saggio lascia tutto aperto e non si pronuncia su nulla, non si trova
chiuso in nessuna posizione. L’io resta aperto a tutte le possibilità.
Non c’è quindi una verità, la grande immagine del pensiero
confuciano è l’equilibrio, come per i taoisti, il perno che si sposta in
tutte le posizioni. C’è quindi una disponibilità che è uguale apertura
agli opposti. La questione non è essere a metà cammino ma piuttosto
poter avere una idea come un’altra, restare aperti ad una cosa come
all’altra. E’ chiaro come da ciò non derivi nessuna fissazione
sull’ideale della volontà. Il saggio non si radica in una cosa o nell’altra
ma “sta”, ed in questo stare coglie tutte le possibilità che offre la
realtà.
Studi comparatisti
Quelli di Jullien, sono quindi studi caratterizzati da un approccio
comparatista: da una parte la cultura cinese e dall’altra la ragione
occidentale, dualistica, fondata sull’idea di verità e per questo mossa
da un continuo spostamento tra il piano della realtà e la trascendenza,
cioè il luogo del vero. Da cui la scissione tra teoria e prassi. In modo
efficace Jullien afferma che questa scissione ha portato ad “una
sconfitta della realtà e ad un’insufficienza dell’idealità”.
Questa “fissazione della verità” da parte dell’Occidente, per Jullien,
ha causato blocchi, autoritarismi concettuali, rigidità e aporie, il mito
di una conoscenza scientifica che, per focalizzare l’oggetto del sapere,
deve oscurare tutto il resto, che svende facilmente i mezzi per i fini e
che tralascia l’evidenza delle cose del mondo per il dominio su di
esse. L’Occidente ha cercato, quindi, di piegare la realtà, la storia, alla
volontà.
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L’Oriente invece si conferma per Jullien veramente “altro”, rispetto a
tutto questo. Innanzitutto vi è un forte intreccio tra conoscenza e
saggezza, al punto da rendere i due momenti quasi indistinti, in
secondo luogo la realtà è intesa come processo e non come
contrapposizione tra momenti distinti. L’Oriente, gettati questi
presupposti, propone modi d’essere che, secondo le nostre logiche
consolidate, ci appaiono come ossimori: pensiero senza idee,
trasformazioni silenziose, agire senza agire.
A causa di queste differenze culturali e concettuali, Oriente ed
Occidente svilupperanno un concetto di “strategia” completamente
diverso.
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1. LA STRATEGIA IN OCCIDENTE
In Occidente manca una vera e propria cultura della strategia, il
pensiero occidentale sebbene razionale è stato poco strategico, infatti
si è da sempre fissato sul “modello”, su ciò che non cambia,
sull’essenza della cosa. E’ un pensiero incapace di pensare i
mutamenti, i processi. Fin da Platone, infatti, il massimo sforzo
dell’Occidente è stato quello di cogliere ciò che è essenziale, ciò che
permane al cambiamento: si è sempre tentato di piegare la realtà
all’idea.
Vediamo ora di analizzare questo aspetto in maniera più dettagliata.
La difficoltà che emerge nel pensare la trasformazione, secondo
Jullien, è dovuta al fatto che la lingua europea presuppone l’Essere
inteso con accezione esistenziale. Ciò ha permesso al pensiero greco
di dispiegare l’esigenza della determinazione, del logos, così da porsi
la fatale domanda “Che cos’è?”, che presto si tramuta in capacità
d’astrazione e di produzione di un “vero”. Nasce insomma il concetto,
l’idea, così come siamo abituati a conoscerla in Occidente: “A Socrate
due cose vanno attribuite, afferma a più riprese Aristotele: i
ragionamenti induttivi e le definizioni universali. L’induzione è intesa
come la progressione dal particolare al generale: dalla considerazione
dei più diversi esempi la mente si eleva al carattere comune che li
raccoglie in un genere unico; e la definizione, come vero e proprio
logos, è la collezione di tali caratteristiche generali che esprimono
l’essenza della cosa, la sua ousia”
4
.
Così facendo, tale pensiero, si è però precluso la fecondità opposta,
ossia quella che gli concederebbe di comprendere l’indeterminabile
del passaggio, il transitivo, ciò che gli permetterebbe di spiegare il
cambiamento: “Che la transizione sia l’indeterminabile per eccellenza,
come possiamo valutare già dalle difficoltà incontrate da Platone e
Aristotele, è dunque da prendere in senso proprio e rigorosamente:
essa è ciò che non conosce più termine o segno di separazione
4
François Jullien, Strategie del senso in Cina e in Grecia, Meltemi Editore, Roma,
2004, p. 2
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possibile che permetta di distinguere l’uno e l’altro – il nero e il
bianco, o il grave e l’acuto… Mentre il logos è “definizione”,
horismos, ci dicono all’unisono i Greci, ritaglia cioè dei limiti tra i
generi e le priorità per riconoscervi dell’Essere, la transizione è per
eccellenza ciò che non ci consente di dire fino a dove giunge una certa
priorità o qualità e dove comincia l’altra. Essa sottrae sia all’uno sia
all’altro la loro pertinenza e li riassorbe. Di conseguenza, distrugge
quelle prerogative per le quali si attribuisce dell’Essere”
5
.
La transizione, dunque, distrugge l’“idea” intesa come forma
universale; distrugge ogni tentativo di determinazione, sul quale si è
sempre concentrato il pensiero europeo, a tal punto da individuare una
forma base, un sostrato, qualcosa che sta sotto e che non cambia: il
celebre principio di non contraddizione di Aristotele. Tale principio
impone ai greci di concepire il cambiamento a imitazione del
movimento, seguendo cioè una modalità distensionale, ossia un certo
soggetto si sposta da un punto A ad un punto B, tuttavia il soggetto
stesso, l’essenza di questo soggetto, in quanto tale non cambia; la
tradizione greca escluderebbe così la modalità transizionale, modalità
che invece accetterebbe il cambiamento stesso del soggetto in
questione.
La sostantivazione dell’Essere, l’aver individuato un qualcosa che non
può essere predicato di un’altra cosa, sarà un fardello che l’Europa
porterà sempre con sé, che influenzerà abbondantemente i modi di
fare e d’agire del pensiero occidentale e che di conseguenza inciderà
sul proprio modo di concepire il pensiero strategico: “La definizione si
caratterizza, sul piano teorico, per lo sdoppiamento che opera (tra il
concreto e l’astratto, il particolare e l’idea); e, sul piano strategico, per
l’approccio frontale con cui costituisce l’oggetto”
6
.
5
François Jullien, Le Trasformazioni silenziose, Raffaello Cortina Editore, Milano,
2010, p.33
6
François Jullien, Strategie del senso in Cina e in Grecia, Meltemi Editore, Roma,
2004, p. 265