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INTRODUZIONE
“Gli uomini sono un vero mistero per i loro simili”
(Rashômon, 1950)
Nel 1950, il regista giapponese Akira Kurosawa si aggiudica il Leone d’oro per la
pellicola Rashômon, film complesso nello stile e nel significato. In un tempo
remoto – il medioevo giapponese - un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si
rifugiano sotto un tempio per trovare riparo da una pioggia incessante.
Nell’attesa che il tempo migliori discutono di un caso di omicidio avvenuto tre
giorni prima: mentre attraversava la foresta un samurai, accompagnato dalla
consorte, è stato aggredito e ucciso da un brigante che ha altresì approfittato
della donna. Di questa storia, però, vengono date molteplici versioni: prima il
boscaiolo riporta le dichiarazioni rilasciate dal bandito; poi il monaco propone il
resoconto fatto dalla donna, e in seguito ripete la versione del morto,
spiritualmente evocato da una maga; alla fine, però, il boscaiolo ammette di
essere stato testimone del fatto e quindi dà un’ulteriore versione dell’accaduto.
In questa narrazione fatta di molti racconti, ciascuno affidabile, apparentemente
veritiero, i ruoli e le responsabilità dell’accaduto mutano, tanto che sembra
impossibile riferire univocamente lo stesso evento. Dove risiede la verità? La
realtà non appare più semplice e oggettiva, ma complessa e relativa. Il racconto
di un omicidio diventa così momento di riflessione su ciò che comunemente e a
volte con troppa facilità reputiamo vero, giusto e reale.
L’omicidio è proprio l’argomento centrale di questa ricerca, evento scatenante
di storie di cronaca nera divenute celebri in quanto fonti di ispirazione per
diverse opere artistiche: volti e nomi che hanno riempito le prime pagine dei
giornali hanno trovato il loro corrispettivo cinematografico, letterario e
televisivo, in una continua riproposizione di narrazioni dolorose e macabre.
Negli ultimi tempi questo fenomeno è andato intensificandosi, nel tentativo di
appagare il bisogno sociale di storie dal retrogusto di vero. Tenteremo così di
2
capire da dove nasca questa necessità e se è possibile parlare di sublimazione
artistica delle vicende e non di una semplice spettacolarizzazione.
Nella prima parte del lavoro discuteremo della natura del delitto in generale,
inteso come atto criminoso, provando a fornirne alcune definizioni; parleremo
così del male e del fascino che esso da sempre esercita. L’uomo rifugge e
condanna atti violenti che provocano dolore, ma al contempo ne è attratto per
via della natura sfuggente del male. Ogniqualvolta un fenomeno appare
inspiegabile, l’uomo ha la necessità di indagarne le cause, attuando strategie di
comprensione e interpretazione che portano alla costruzione di storie. Il
problema va narrato, spiegato, divenendo argomento principale dei discorsi.
Così sono nati i miti, le religioni e le dissertazioni filosofiche. Nel caso del
delitto, e nello specifico dell’omicidio, ci chiederemo se esiste la possibilità di un
discorso canonico per la trattazione. Guarderemo allora al passato nel tentativo
di rintracciare generi e strutture narrative a cui si è ricorsi per l’organizzazione
di racconti finzionali, delineando le caratteristiche dei personaggi ricorrenti e
delle motivazioni che sottostanno alle loro azioni. Studieremo l’evoluzione del
discorso, le sue categorizzazioni e il rapporto che lo stesso, nel corso del tempo,
ha intrattenuto con la realtà storica, politica e sociale.
Allo stesso modo cercheremo di affrontare la materia delittuosa da un punto di
vista più tecnico, entrando nel merito della scienza che studia la devianza. Sarà
nostra cura indagare l’esistenza di un’influenza reciproca tra la
rappresentazione artistica del fenomeno, d’impostazione narrativa, e lo studio
scientifico: proveremo infatti a rintracciare rimandi e analogie tra letteratura,
psicologia e criminologia.
Dopo questa parte introduttiva all’argomento, ci focalizzeremo invece sulle
possibili e diverse declinazioni narrative di alcuni noti casi di cronaca nera, su
come queste storie mutino a seconda del medium usato o addirittura a seconda
del genere, e su come questi eventi diventino argomento di trattazione
privilegiato in momenti salienti dell’evoluzione di un genere o di un mezzo di
comunicazione. Per una semplificazione del discorso tralasceremo, per quanto
3
possibile, riferimenti a omicidi legati a conflitti bellici e ad azioni riconducibili
alla criminalità organizzata.
Faremo un viaggio nel tempo, occupandoci prima dell’assassinio della famiglia
Clutter, avvenuto alla fine degli anni ’50 in Kansas (Usa), facendo un raffronto
tra l’impostazione data al discorso dai giornali e quella letteraria con il romanzo
A sangue freddo (1963) di Truman Capote; in seguito tratteremo uno dei più
grandi misteri irrisolti americani, che ha sconvolto la nazione per l’efferatezza
del gesto e per la mancanza di una qualsiasi motivazione: l’omicidio di
Elizabeth Short, più nota come la Dalia nera, avvenuto a Los Angeles nel 1947.
Questa giovane donna barbaramente uccisa è divenuta la musa ispiratrice di
innumerevoli storie, quasi tutte legate a un preciso genere letterario, il noir. La
più celebre è quella scritta dall’autore americano James Ellroy, nel romanzo
Dalia nera (1987), a cui si è a sua volta rifatto un maestro del cinema
contemporaneo, Brian De Palma, per la realizzazione di uno dei suoi più
personali lavori, The Black Dahlia (2006).
Sarà anche un viaggio nello spazio, poiché ci occuperemo di un caso che una
ventina di anni fa ha scosso l’Italia, introducendo forse per la prima volta nel
dibattito mediatico la figura del killer seriale. Stiamo parlando della catena di
omicidi avvenuti nella campagna toscana, tra il 1968 e il 1985, attribuiti al
cosiddetto mostro di Firenze e ai suoi “compagni di merende”. Affronteremo
questa vicenda rimanendo nell’ambito televisivo, analizzandone prima la
trattazione all’interno di un programma d’impostazione giornalistica e
investigativa, quale è Blu notte di Carlo Lucarelli, poi la declinazione in un
racconto di fiction seriale, con la miniserie Il mostro di Firenze, prodotta da
Wilder per Fox Channels Italy.
Rintracciando rimandi e analogie tra le diverse impostazioni narrative,
proveremo a capire come ogni storia modelli un particolare significato, come
ogni omicidio attraverso la sublimazione artistica diventi un evento simbolico,
che irrompe nella quotidianità e ne modifica le dinamiche, diventando così
luogo di confronto di opinioni, vicenda appartenente al passato che offre lo
spunto per intavolare un discorso sul presente. Tenteremo, insomma, di
4
appurare se le rappresentazioni artistiche dei delitti si propongano come valide
letture e interpretazioni della realtà in cui viviamo.
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1. IL DELITTO
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1.1 Il fascino del male
“Il Signore gradì Abele e la sua offerta,
5
ma non gradì Caino e la sua offerta.
Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto.
6
Il Signore disse allora a
Caino: "Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto?
8 (…)
Caino disse al
fratello Abele: "Andiamo in campagna!". Mentre erano in campagna, Caino
alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise.”
Pentateuco - Genesi Gen 4,4
L’uomo per i tre quarti del corpo è costituito da acqua, elemento naturale fonte
di vita e universalmente riconosciuto come simbolo di purezza. Con l’acqua
compiamo i gesti quotidiani più semplici, dal cucinare al lavarsi le mani.
Puliamo, detergiamo, ci dissetiamo, con l’acqua. L’uomo porta in sé il principio
della vita, impalpabile ed etereo. L’organismo umano, però, è altresì costituito
da muscoli, nervi, sangue, organi pulsanti, sintetizzati nel termine “carne”:
elemento terreno, materiale, tangibile che, secondo il pensiero della filosofia
scolastica, àncora al suolo e al peccato e non permette di elevarsi sino a Dio.
L’uomo porta in sé il principio della fine, la colpa e il peccato. L’uomo è allora il
perfetto connubio di due universali opposti: il bene e il male.
Spiegare a parole cosa sia il male è stato il rompicapo di molti pensatori e
filosofi sin dalla notte dei tempi, ma nessuno è riuscito a darne una definizione
definitiva: è un fenomeno troppo complesso e grande per la nostra mente, ma
che non smette però di suscitare fascino. L’uomo compie il male nelle sue
molteplici forme e talvolta lo contempla. Per quanto esso sia insito nella natura
umana, sotto forma di pulsioni aggressive e istintuali, l’uomo è in grado di
discernerlo dal bene, come ricorda Kant, non perché l’abbia imparato, ma
perché tale capacità è insita nella ragione. Si può dedurre quindi che il
compierlo è un atto derivato da una scelta. Nonostante si riconosca che ciò che
si fa è sbagliato e porta dolore o afflizione, si agisce comunque. Perché?
Difficile dare una risposta. Forse è un modo per riaffermare, riconquistare uno
stato di inconsapevolezza naturale, oseremo dire animale e selvaggio: non a
caso l’aggettivo comunemente associato ad atti criminosi e delittuosi è
“efferato”, che deriva dal termine fiera, animale. La più grande condanna
8
dell’uomo è la sua possibilità di scegliere, il più grande dono che gli è stato
concesso, è il libero arbitrio.
Il fenomeno del male, a tratti inspiegabile, è insito nelle società da sempre. Per
necessità psicologica, quando vi è qualcosa di insondabile si afferma il desiderio
di conoscere: la lettura del mondo avviene per processi causali, se c’è un effetto
ci deve essere per forza un elemento generatore. Per comprendere si indaga e si
formulano ipotesi, e se la ragione risulta insufficiente si ricorre
all’immaginazione o alla fede, così nascono i miti, così le religioni. Vi è un
comune bisogno di rassicurazione circa il destino del mondo e si giunge a
sperare nella possibilità di ingabbiare le vicende terrene in un sistema di leggi,
di categorie e nomenclature.
Questo accade anche e soprattutto per il delitto, nelle sue svariate declinazioni,
perché «non è il male, (ma) uno dei tanti modi di fare il male»
1
. Citando la
definizione del sociologo Durkheim per il quale «è un atto lesivo degli stati forti
della coscienza comune»
2
, il delitto viene inteso come un’azione contro la
società ma soprattutto contro i suoi valori e la sua morale. E’ però anche una
nozione eminentemente sociale e relativa, perché non esiste un’azione cattiva o
sbagliata in sé, quindi non soggetta a giudizio morale, ma la sua natura dipende
dalle finalità, dallo scopo del gesto, che a loro volta dipendono appunto
dall’uomo. La sua gravità è altresì affermata dalla sanzione inflitta. L’uomo
compie il male e istituisce forme di punizione: è una forma di repressione
socialmente condivisa dei propri impulsi nocivi.
Il delitto, l’azione criminosa, però persiste nel tempo e nelle diverse culture ed
esercita un fascino, di cui non è possibile rintracciarne la radice; questo inoltre è
da sempre associato ad un immaginario antiestetico che quindi dovrebbe
suscitare repulsione e non attrazione. Si entra qui nel merito della questione
della bruttezza, che sarebbe riduttivo definire con il semplice opposto del bello
inteso come armonia, proporzione o integrità. Esiste il brutto spirituale, quello
1
G. Ponti, U.Fornari, Il fascino del male. Crimini e responsabilità nelle storie di vita di tre serial killer,
Cortina, Milano, 1995, p. 151.
2
H.Levy-Bruhl, Problemi della sociologia criminale, in Aa.Vv., Capitalismo criminalità e devianza, a
cura di G. Colasanti e N. Totaro, Savelli, Roma, 1973, cit. in R. Scramaglia ( a cura di), 70 brani
d’autore per il grande mosaico della società, Vol.1, Arcipelago, Milano 2002, p. 166.
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nell’arte, l’assenza di forma e anche il criminoso. Sin dai tempi degli antichi
greci bruttezza e malignità venivano associati, poiché percepiti come sintomi di
una mancanza, un’imperfezione o peggio una malattia. Ma della loro presenza
non si poteva farne a meno: inutile parlare della distinzione tra l’apollineo e il
dionisiaco. Come una corda, l’idea estetica è sempre tesa verso le due estremità,
imprescindibili entrambe. Il brutto come necessario: e lo ricorda Agostino con
queste parole tratte dallo scritto Sull’ordine: «Che cosa è più tetro di un
carnefice? Che cosa è più truce e crudele di quell’animo? Ma fra le stesse leggi
ha un posto necessario (…) Tuttavia l’ordine della natura, poiché sono
necessarie (intese le nefandezze), ha voluto che non mancassero».
3
Tra le forme di comprensione di un fenomeno che appare inspiegabile, abbiamo
detto, ci sono il racconto, il mito o la religione, ma non solo: c’è la
rappresentazione artistica. E ancora una volta l’uomo crea il brutto, che può
rappresentare il male, e se ne compiace.
Aristotele e Plutarco affermarono la possibilità di una sublimazione
dell’orrorifico attraverso la trasfigurazione artistica, il primo asserendo che si
può realizzare il bello imitando con abilità ciò che è repellente, il secondo invece
che l’imitazione del brutto non potrà essere cosa bella, ma riceverà un riflesso di
bellezza dall’abilità tecnica dell’artista. Quindi si celebra la capacità di saper
rappresentare al meglio il reale anche nei suoi aspetti meno piacevoli. Il reale è
anche il brutto, il male.
Nel corso dei secoli però la rappresentazione di ciò che è orrendo si è avvalsa
anche di altre motivazioni: mostrare ciò che atterrisce per dimostrare gli effetti
ancor più temibili, in modo da dissuadere dal compiere il male. Lo sapeva bene
Seneca che scrisse con intenti educativi circa otto tragedie, sottolineando le
situazioni più crude e violente nella speranza che il suo discepolo Nerone si
astenesse da atti ingiusti e sconsiderati, ma i buoni intenti evidentemente non
bastarono. O ancora, Shakespeare che con le sue opere abbraccia lo stesso
pensiero: mostrare il lato oscuro e malvagio dell’uomo, atterrire gli animi in
modo che questi non commettano gli stessi fatali errori. Nella tradizione della
3
Agostino, Sull’ordine, in U. Eco, Storia della bruttezza, Bompiani, Milano, 2007, p. 47.
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storia dell’arte esistono molteplici esempi di queste rappresentazioni, pensiamo
ad affreschi o dipinti che testimoniano il tema del trionfo della morte: supplizi e
atrocità che infieriscono su masse di peccatori. A volte però osservare queste
scene non basta e viene a prevalere nell’uomo quell’insano voyeurismo: folle
che accorrono in piazza per vedere impiccagioni e fucilazioni, per vedere la
morte in faccia. Per protrarne l’effetto e renderne testimonianza poi, quelle
stesse situazioni vengono tradotte in immagini, didascalie e saggi, come nelle
acqueforti di Jacques Callot, del 1633, dove gli impiccati sono grappoli di corpi
appesi a un albero.
Non vi è da stupirsi neppure che vi sia stato qualcuno che abbia serenamente
affermato di trovare un particolare gusto nella crudeltà e nelle sue
manifestazioni: si può citare il Marchese De Sade o un brano della novella
gotica Melmoth di Charles Robert Maturin: «E’ un sentimento di cui non
possiamo spogliarci(…)Voi la chiamerete crudeltà, io la direi curiosità»
4
.
Non bisogna neppure tralasciare quella corrente artistica che fu il
romanticismo, e poi il decadentismo, con la ricerca del sublime: il turbamento
dell’animo per via di una visione paurosa, dolorosa ma al contempo magnifica,
perché di essa se ne può godere con distacco, senza che l’oggetto del vedere o
del sentire (rovine, tempeste o altre calamità) nuoccia al fruitore.
Il delitto ha così assunto nel corso del tempo valenza di elemento quotidiano e
tema d’intrattenimento, trasversale alle classi sociali. L’omicidio, in modo
particolare, è diventata una tematica scherzosa e gioviale nella forma artistica
delle ballate popolari, le cosiddette Murder Ballads, componimenti di musica e
testi in cui vengono narrate le vicende di vittime e di carnefici, storie vere che
trovano una singolare modalità di divulgazione: più semplicemente un modo
folcloristico per esorcizzare la morte. Se per il popolo l’uccisione di innocenti dà
adito a canzoni, per gli aristocratici ben pensanti diventa materia di diletto
letterario. De Quincey, celebre scrittore inglese, ha composto infatti un saggio,
un misto tra pamphlet satirico e opera finzionale, chiamato L’assassinio come una
delle belle arti, in cui l’omicidio può essere considerato come fenomeno
4
C.R. Maturin, Melmoth, 1820, in U. Eco, Storia della bruttezza, cit., p. 228.
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moralmente neutro. L’autore afferma l’esistenza, nella Londra del 1827 a lui
contemporanea, di un club di gentiluomini che fanno dell’assassinio il loro
privilegiato argomento di discussione e in quanto appassionati di estetica,
celebrano la bravura e l’eccellenza tecnica di alcuni dei più noti assassini. De
Quincey, mantenendo sempre uno stile tra il cinico e l’ironico, nel postscriptum
redige anche la cronaca degli efferati delitti di cui si macchiò John Williams, che
era divenuto l’incubo della capitale inglese. Questo testo è stato un notevole
punto di riferimento per il genere gotico e d’inchiesta.
1.1.1 Il desiderio di immagini forti
E oggi, nell’era dei media e delle immagini, qual è il rapporto che intratteniamo
con la rappresentazione del male e della violenza? Il legame, per quanto
paradossale possa sembrare, si è fatto più stretto, viscerale. Le persone
volontariamente si espongono a questo tipo di immagini e, addirittura, le
ricercano per scopi d’intrattenimento e di piacere. Consci di essere meri
osservatori, ci concediamo a storie che raccontano sofferenze, salvaguardando il
nostro stato psicologico e attivando la sospensione dell’incredulità. Questo non
vuol dire che poi l’uomo sia maggiormente incentivato a esercitare la violenza
all’esterno. Anzi. «Perhaps our attraction to violent imagery is an outcome of
the “civilizing process”(…) a way to fill the void left by diminished
opportunities to experience the real thing.»
5
Guardare immagini truci o
simulare con giochi atti di violenza è un modo per riportare il nostro sistema
nervoso, carico di tensioni, a un nuovo equilibrio: è un sfogo quasi obbligatorio
di quelle pulsioni aggressive in noi connaturate. Quello che è importante
affermare è che la loro visione non va interpretata come un atto solo a fini
individualistici, bensì comunitari e sociali. E’un ulteriore modo utilizzato
dall’uomo per costruire la propria identità sociale e farne parte. Bisogna inoltre
essere consci del fatto che la violenza della vita reale influenza il desidero di
5
J. Goldstein, Why we watch. The attractions of violent entertainment, Oxford University Press,
New York, 1998, p. 217.
12
intrattenimento violento e che questo diventa ancora più popolare quando
aggressioni e guerre costituiscono le principali notizie dei telegiornali.
Insomma, tentiamo di fare esperienza del mondo attraverso esperienze
surrogate.
Tutto ciò non vuol dire che siamo capaci di non provare emozioni di fronte al
male, di non inorridire di fronte ad esso. Cerchiamo sensazioni forti che nella
vita di tutti i giorni ci sono normalmente precluse e le cerchiamo nelle storie di
finzione e più queste si avvicinano alla realtà, più ci entusiasmano. Secondo la
linea di pensiero di Jacques Lacan tentiamo di concepire il reale passando
attraverso la finzione, l’immaginario. E’ un continuo mettersi alla prova: siamo
capaci di esperire il male, il dolore, la morte?
Citando Hegel:
Pacificamente, si fa esperienza della guerra. Passivamente, si intraprende
l’esperienza del delitto e, illesi, l’esperienza della morte.(…) I ragazzi si
compiacciono non solo di uccidere ( o morire) fittiziamente.(…) Il grande fascino
della morte emerge oscuramente sotto l’esplodere della violenza.
6
Secondo tutto ciò che abbiamo fin qui detto, parlare del male e della violenza,
per quanto non si trovi il perché del fascino da essi suscitato, appare normale e
semplice. La società ha bisogno di raccontare storie, di narrare. Ma da dove
nasce questa necessità?
E per il delitto, qui inteso come omicidio, atto volontario che priva della vita un
altro essere umano, esiste un racconto “canonico” per descriverlo? Se esistesse,
avremmo ben chiare le sue ragioni ontologiche, ma non vi sono. Preferiamo
considerarlo un Evento, «che contiene qualcosa di inassimilabile e respinge
qualunque spiegazione causale (…) e provoca la questione del Senso».
7
6
O. Caldiron, L’arte del delitto, Bulzoni Editore, Roma, 1985, p. 36.
7
J. A. Aldama, Dall’evento al racconto: l’11 settembre, in AA.VV., Narratività e media, nella collana
“Documenti di Lavoro e pre-pubblicazioni”, Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica,
Università Carlo Bo, Urbino, 2003, p. 5.
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1.2 Il piacere di narrare
In un antro buio una fioca luce, una fiamma, rischiara la parete rocciosa: segni,
simboli, uno accanto all’altro, uno dopo l’altro. E’ una successione di idee,
concetti, depositati lì da tempo immemorabile per essere uniti, compresi e
interpretati. Ancora oggi si cerca di decifrare il senso di quei simboli e di capire
quale necessità ha condotto all’atto della scrittura. Si cerca in realtà di trovare
corrispondenze comportamentali tra gli uomini di oggi e quelli preistorici. Chi
erano loro? Chi siamo noi? E per rispondere, senza indugi si raccolgono indizi,
si formulano ipotesi e si finisce per organizzare un racconto, per creare una
storia. Quando si usa questo termine, si è soliti riferirsi a grandi testi letterari,
romanzi o racconti. Ma le storie sono in mezzo a noi, le storie siamo noi:
attraverso di esse determiniamo la nostra identità e quella degli altri. L’atto di
narrare risulta così naturale che spesso evitiamo di interrogarci da dove nasca
questo bisogno. Esistono fattori esterni che inducono l’uomo a creare storie o è
una caratteristica innata? Più semplicemente, è una questione di natura o di
cultura? E ancora, la nostra mente, quella grande scatola in cui le storie
prendono vita, come organizza i pensieri, come li rielabora?
Per rispondere a questi quesiti conviene tornare indietro, all’alba dei tempi
appunto, e studiare l’uomo e i suoi processi cognitivi paragonandoli a quelli di
qualsiasi animale e determinarne i processi di sviluppo. Come qualsiasi animale
l’uomo deve rispondere a determinate necessità fisiologiche, quale il
nutrimento, e per soddisfarle investe tutte le sue energie fisiche e mentali,
applica quindi delle strategie che si modificano a seconda delle situazioni in cui
si trova e che con il passare del tempo affina. Prima l’uomo affrontava le belve a
mani nude, poi ha fabbricato armi per ucciderle. Per sopravvivere ha dovuto
principalmente studiare l’ambiente circostante e dopo svariati tentativi ed errori
ha trovato la soluzione migliore. Ciò che ha distinto l’uomo dalle altre specie
animali è stata la capacità creativa ed inventiva, il non limitarsi ad applicare
repertori comportamentali ormai consolidati in modo meccanico, il non
sottostare al semplice principio stimolo – risposta, ma sfruttando l’esperienza
14
passata, trovare ausili per pensare, siano questi oggetti per agire sul mondo o
strumenti per agire sulla mente, primo fra tutti il linguaggio. L’ambiente è la
chiave del discorso, perché nelle sue diverse accezioni ha influenzato il processo
evolutivo di qualsiasi funzione e organo del nostro corpo, compresi i sistemi di
controllo cognitivi. E’ il principio della selezione naturale:
Quando i livelli di complessità della nicchia ecologica naturale e culturale in cui i
nostri antenati vivevano sono diventati troppo elevati per poter essere gestiti
attraverso strategie meccanicistiche, i processi di selezione hanno consentito il
prevalere di individui in grado di orientare il comportamento sula base di un
meccanismo cognitivo più complesso e intenzionale, reso possibile dallo sviluppo
del linguaggio e da una mente in grado di pensare storie.
8
L’uomo quindi si distingue perché sviluppa un pensiero intenzionale e ha la
consapevolezza di poter agire attivamente sulla realtà circostante, e ancora più
importante di avere coscienza di farne parte e in che grado. Ciò è dovuto
all’abilità di immagazzinare enormi quantità di informazioni e rielaborarle. Già
perché ogni essere vivente indipendentemente dal proprio livello evolutivo
deve supplire a una sete di conoscenza: usando l’espressione efficace di George
Miller è un informivoro, va a caccia di informazioni come di cibo, e l’ambiente
circostante è la fonte principale. Per essere sfruttate al meglio queste nozioni
però devono circolare, l’esperienza di un singolo deve diventare tesoro prezioso
per la comunità, deve diventare cultura attraverso un linguaggio simbolico
comprensibile e condiviso, e la trasmissione più efficace di queste conoscenze è
avvenuta proprio grazie alla creazione di storie, sotto forma di miti, racconti e
leggende, perché in queste l’uomo riesce a riconoscere se stesso, le proprie
esperienze e gli altri. Si rintraccia un grado elevato di capacità di
interpretazione e di previsione dell’azione propria e altrui, cosa che orienta
l’agire e dà un senso alla propria presenza nel mondo. La radice di tutto è il
problema della sopravvivenza e la condivisione di conoscenze è la soluzione:
natura e cultura sono intrinsecamente legate.
8
G. Di Fraia, Storie con-fuse. Pensiero narrativo, sociologia e media, Angeli, Milano, 2004, p. 29.
15
La narrazione è un principio organizzativo dell’esperienza, un meccanismo che
il nostro cervello attiva per trasformare meri fatti in concatenazioni di eventi
dotati di senso e facilmente memorizzabili. La nostra mente non è una scatola
vuota che attende di essere casualmente riempita: ordina le informazioni
attraverso schemi cognitivi con la funzione di attribuire un significato
all’esperienza (concettuale-interpretativa), di confrontare quest’ultima a quelle
precedenti rintracciando punti di contatto (rappresentativa), e di indicare i
comportamenti da adottare più adatti in base alla situazione (orientamento
all’azione).
9
Queste strutture astratte di pensiero si concretizzano a un livello
superiore quando il nostro cervello elabora degli scripts (termine introdotto da
Shank e Abelson), veri e propri copioni: data una determinata situazione, di cui
si ha avuto più volte esperienza, nell’uomo si producono aspettative e la sua
azione è orientata. Tra gli schemi che la nostra mente usa, esiste anche quello
della storia, ossia l’insieme delle aspettative sul funzionamento della storia, che
sottostà a determinate regole e principi, e i cui elementi fondativi sono la
presenza di un protagonista, qualcuno che compie azioni, e la successione di
eventi orientati alla soluzione di un problema, organizzati secondo rapporti
temporali e causali.
In questi termini, però, ogni comportamento dell’uomo sembra predeterminato,
sembra un’azione meccanica e vuota, volta a seguire il principio di economia
cognitiva, e tutte le storie, avendo uno schema comune, sembrano essere uguali
a se stesse. Il limite di questa visione viene rintracciato dallo psicologo
statunitense Bruner nella mancata analisi del contesto culturale in cui l’uomo
vive, di cui non è solo un riflesso ma con cui intrattiene uno scambio continuo
di informazioni. Bruner, che abbraccia una visione più antropologica, è colui
che si è maggiormente interessato alla narrazione come forma di
organizzazione della conoscenza, riconoscendo però anche la presenza
fondamentale di un’altra forma:
9
Ivi, p. 37.