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INTRODUZIONE
La questione della rappresentatività della comunità musulmana di fronte allo Stato Italiano è
alquanto complessa. La presente ricerca cerca di indagare tale complessità – nonostante sia limitata
numericamente che temporalmente -; e, allo stesso tempo, intende far emergere quali siano gli
elementi da tenere in considerazione per porre una possibile intesa, arrivare a dei punti medi che
possano accontentare tutti e che, a tutti, permettano di vivere in un paese di accoglienza rispettati e
tutelati per la propria diversità religiosa e culturale. Cammino reso più arduo dal fatto che l’islam e
la sua comunità di credenti sono attraversati da tante anime, con richieste e bisogni differenti, e non
necessariamente solo riguardanti la sfera religiosa.
La ricerca è improntata sulla dimostrazione, all’interno del capitolo 3, delle tesi sulle caratteristiche
dell’immigrazione musulmana in Italia e, più specificatamente in Emilia Romagna e nel suo
capoluogo Bologna, attraverso la metodologia delle interviste. Sono state svolte interviste agli
appartenenti della comunità musulmana di Bologna per un arco di circa tre mesi, da Dicembre 2011
a Febbraio-Marzo 2012, cercando di comprendere i meccanismi di inserimento ed integrazione nel
tessuto bolognese, che presenta una realtà piuttosto eterogenea e complessa.
Gli aspetti più indagati sono stati quelli di ciò che gli studiosi, come Oliver Roy e Stefano Allievi,
chiamano “comunitarismo”, cioè tutte quelle dinamiche che vedono lo strutturarsi degli stranieri
musulmani secondo caratteristiche religiose e/o nazionali/culturali; la relazione, quindi, di
interazione con gli altri stranieri musulmani e l’integrazione con gli italiani.
Non è facile, però, poter fare delle generalizzazioni poiché ogni caso singolo risulta diverso da un
altro e i fattori in gioco non sono pochi.
A differenza di altri stati europei in cui l’immigrazione di origine musulmana è caratterizzata da
poche nazionalità ben radicate sul territorio che tendono, secondo questi studiosi, a raggrupparsi e
ad isolarsi dal contesto e dagli altri stranieri, lo stato italiano è caratterizzato, invece, da una
maggiore varietà di provenienze che dovrebbero evitare questa ghettizzazione. L’islam, in Italia,
tenderebbe ad avere carattere ‘ummico’, comunitario, diventando un fattore identitario primario per
i musulmani.
Ma a Bologna esiste questo comunitarismo, secondo il quale l’islam è preso come fattore identitario
che separa dal contesto e unisce tra loro i suoi credenti, o è esso stesso, tra i musulmani, fonte di
diversità e di separazione della umma?
In una comunità multietnica inevitabilmente musulmani provenienti da luoghi e con bagagli
culturali differenti si incontrano e a volte si scontrano: la religione è sempre un fattore culturale
prima di tutto.
«Come ci mostrano tanti studi recenti di sociologia e antropologia urbana, nelle città odierne, sotto
un’immagine di caos apparente complessivo, sono rilevabili sottosistemi e reti che, in realtà,
funzionano, e spesso molto efficacemente, producendo un ordine più complesso e in certo modo
occulto, sfuggente, almeno finché ci si limita ad osservare il ‘tutto’. Il problema semmai, e ce lo
dicono urbanisti e geografi urbani prima ancora che sociologi e antropologi, è che questi
sottosistemi spesso non si parlano, non comunicano tra loro, non si capiscono, non hanno un
linguaggio comune, o forse ne hanno troppi, non situati però sulle stesse medesime lunghezze
d’onda» (Sigillino (a cura di) 2000, p.38).
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Ma se l’islam è davvero un fattore identitario così potente da unire tutti i musulmani, se è una
religione che non fa differenze al suo interno e nessuno ha l’autorità per farlo, perché a Bologna non
si trovano musulmani pakistani, marocchini, senegalesi tutti insieme a parlare per strada? Sul lavoro
è più facile trovare un miscuglio di queste provenienze, ma è proprio sui luoghi di lavoro che
nascono gli scontri e le incomprensioni su come viene praticato l’islam. Al di fuori ogni comunità è
separata, e queste non comunicano tra loro: si va in moschea tutti insieme a pregare, si festeggiano
le feste sacre, ma, osservando bene questi fenomeni, si scopre che anche in questi momenti ogni
comunità è separata da un’altra perché non esiste una sola festa del sacrificio in tutta Bologna, la
fine del mese di ramadan viene festeggiato in momenti diversi. Ogni comunità musulmana fa
riferimento a se stessa e al proprio luogo di origine.
Ciò che davvero unisce le comunità di musulmani a Bologna, quindi, non è la religione, ma la
cultura; per questo non si vedono pakistani insieme a marocchini o insieme a senegalesi: è la cultura
del proprio paese, dal modo di vestire, al modo di parlare, alla cucina, che unisce e divide, allo
stesso tempo, la umma. La religione è un fattore aggregante solo in momenti come la preghiera in
moschea o alle feste sacre.
Proprio per questo si può ipotizzare che la religione sia solo un aspetto della cultura, ma non la
completi e non sia nemmeno, sembra, il più importante. Il comunitarismo di certo esiste, ma non è
religioso, è etno-nazionale: la religione superficialmente è un fattore di unione, un fattore
identitario, ma sotto sotto è anche un fattore di divisione come ogni altro elemento della cultura.
L’islam è una religione semplice da rispettare, ci sono relativamente pochi precetti, ma la divisione
vera sta – a detta di molti musulmani intervistati – tra chi la pratica e chi non la pratica al 100%,; e
qui già cominciano i problemi: da una parte abbiamo coloro che dicono che anche chi non pratica è
un musulmano, perché basta credere, e dall’altra abbiamo invece chi dice che chi non pratica non è
un musulmano perché non basta credere.
Nonostante molti musulmani a Bologna possano essere definiti come ‘musulmani sociologici’ -
come ci dicono le ricerche di Allievi-, nei confronti degli altri musulmani l’islam diviene una
religione identitaria, un discriminante che crea più divisioni che unioni. Ogni comunità, e, spesso,
anche ogni musulmano, ha da criticare qualcosa agli altri: in uno stato in cui non c’è alcun tipo di
controllo sulle pratiche religiose, sono loro ad elevarsi a ‘controllori’ e giudici, a fare capire dove
sbagliano, anche se magari anche gli stessi ‘controllori’ non sono proprio così ligi al dovere. Forse è
proprio in questi frangenti che maggiormente si notano le pratiche di comunitarismo che descrive
Roy in ‘Global Muslim’, cioè l’estrapolazione delle proprie pratiche religiose dal contesto e la
pretesa di incollarle sugli altri, eliminando ogni bagaglio culturale.
«La creazione degli stati nazionali approfondisce il divario tra i vari paesi anche politicamente e
giuridicamente. La legislazione di paesi che pure in qualche modo si autodefiniscono islamici
diviene estremamente diversificata (..) Tale problematica finisce di necessità per avere ripercussioni
nella quotidianità. Da un lato appunto si ha la conservazione di un’identità etnica, anche negli
aspetti esteriori tenacemente perseguita talvolta, cui fa da contrappunto il fenomeno della
mimetizzazione di molti immigrati, da un altro lato pone il problema del “travestimento” anche
esteriore di molti “nuovi” musulmani (..)
Non sempre ci si rende conto, ancora, di come al contrario il musulmano italiano sia a tutti gli
effetti un italiano musulmano, senza bisogno di rigettare alcun elemento della propria cultura di
origine (..) Europei o americani musulmani che troppo spesso si “ricostruiscono” una propria
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identità non a partire da un dato “islam”, ma da un’affettazione di costumi che appartengono a
tradizioni altre» (Sigillino 2000, pp.54-55-56).
Gli episodi di scontro e di critica che vedono coinvolti alcuni musulmani a Bologna non
corrispondono poi affatto ad una partecipazione attiva e costante alle associazioni/gruppi che
promuovono una pratica coerente e costante dell’islam, come i Tabliq, o associazioni di stampo
nazionale come l’UCOII, a dimostrazione di come la maggior parte dei musulmani rimanga al di
fuori e non si riconosca in queste associazioni. La maggioranza di loro sono davvero ‘musulmani
sociologici’.
Molti, tra i musulmani intervistati, adducono come causa di questa separazione, di questa chiusura
verso gli altri stranieri, la lingua, poiché vengono da stati diversi, hanno lingue diverse e, anche chi
parla arabo, spesso comunica attraverso il dialetto del suo paese, il che rende comunque difficile
parlare ad altri arabi. Si potrebbe parlare in italiano, una lingua franca che bene o male tutti
conoscono, ma spesso non accade; oppure si potrebbe comunicare nelle lingue degli imperi
coloniali come inglese e francese, ma questo accade ancora meno. Questo può portare a pensare ad
una mancanza di volontà di venire a contatto, che può avere svariate motivazioni, ma che
presuppone un certo pregiudizio nei confronti degli altri.
La rappresentatività dei musulmani di fronte allo Stato Italiano non può essere risolta solamente
mettendo d’accordo tutte le anime che la percorrono, ma anche favorendo una buona integrazione
sul territorio, che li spinga a prendere consapevolezza dell’importanza del dialogo con le istituzioni
perché siano garantiti loro certi diritti. Purtroppo, a oggi, non ci sono stati tanti sforzi in questa
direzione, sia da parte dei musulmani che da parte dell’Italia.
La legislazione italiana lega lo straniero e la sua permanenza in Italia al lavoro, per cui sarà questo
il primo pensiero di un immigrato straniero, non certo quello di voler imparare la lingua italiana
(anche se ora è diventato obbligatorio svolgere un test per vedersi rinnovare il permesso di
soggiorno), conoscere gli italiani o perdere tempo in processi di integrazione. Se davvero si vuole
dare la possibilità ad un immigrato di integrarsi nel nostro stato gli vanno concesse alcune garanzie,
come permessi di soggiorno più lunghi, gli va davvero fatto capire che è importante per lui e per lo
stato che si cerchi di arrivare ad un dialogo, a conoscere la persona, non ad etichettarlo come
pericolo per la sicurezza solo perché è straniero o musulmano.
L’immigrato straniero, dal canto suo, arrivando in un paese nuovo dove non conosce nulla, e non
vedendosi aiutato da chi dovrebbe invece farlo, si tende a chiudere in se stesso, nella propria
comunità, tra i propri ‘simili’ con cui può, un minimo, ricostruire il contesto da cui è partito, con cui
può parlare la sua lingua per non dimenticarla.
È probabile che sarà necessario ancora del tempo perché i musulmani, tutti i musulmani, in Italia
decidano di interessarsi ad ottenere un riconoscimento dallo Stato, sedendosi ad un tavolo e
discutendo tra loro cosa chiedere: ivi l’immigrazione ancora è “giovane” per avere consapevolezza
dell’importanza di questo traguardo, quando ancora i processi e i progetti migratori tendono al
ritorno in patria, e oberati di ben altre preoccupazioni, come quella lavorativa.
Se anche l’Italia, dal canto suo, permettesse a queste donne e questi uomini di poter condurre una
vita più dignitosa, se tendesse una mano per ascoltarli e capire le loro preoccupazioni e i loro
bisogni, allora si potrebbe pensare anche ad avviare quel processo di integrazione vera, avrebbero il
coraggio di fare delle richieste senza la preoccupazione di venire accusati di fondamentalismo o di
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terrorismo. Una integrazione che in tutti i paesi europei, anche se spesso dalle cronache non sembra,
dimostra di dare risultati soddisfacenti sia sul piano economico che umano, sociale e culturale.
E non invece, come accade non di raro, cercare di ottenere la cittadinanza per poi andarsene
dall’Italia in qualche altro paese europeo dove la situazione appare migliore e più tollerante.
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Capitolo 1 – Elementi caratteristici dell’immigrazione musulmana in Italia
1.1 I flussi migratori verso l’Italia: numeri e caratteristiche
I musulmani in Italia sono circa un milione e cinquecentocinque mila
1
, su un totale di quasi 4
milioni di immigrati (il che equivale a circa un terzo delle presenze), mentre la media europea è
circa il doppio, con punte di presenza pari al 14% in Bulgaria (in cui non si tratta di migrazioni
recenti ma di minoranze ben radicate da tempo).
In Italia circa il 60% degli immigrati proveniente da paesi musulmani risiede al nord a causa della
grande quantità di industrie che richiedono lavoro non specialistico e possibilmente a basso costo e
“in nero”, il restante 40% è ripartito tra il centro e il sud, comprese le isole, dove è richiesta molta
manodopera stagionale per la raccolta nei campi di frutta e verdura; la loro provenienza suddivisa
per continenti è la seguente: circa il 60% dall’Africa, dall’Europa (paesi dell’est) circa il 20% e il
resto dall’Asia (vicino Medio Oriente e subcontinente indiano)
2
.
Il Marocco conta circa un terzo delle presenze, seguito da Albania (da poco uscita da un regime
comunista e ateo, per cui è molto difficile valutare davvero il grado di adesione religiosa), Tunisia,
Senegal, Egitto, Bangladesh, Pakistan, Algeria, Bosnia, Iran, Nigeria, Turchia, Somalia e Italia (i
cui convertiti giocano un ruolo di non poca importanza nell’islam visibile e organizzato).
Musulmani stranieri residenti in Italia
3
.
Posizione
Paese di provenienza
Musulmani stranieri regolarmente
soggiornanti, senza contare i minori non
titolari di un proprio permesso di soggiorno
1 Marocco 431.529
2 Tunisia 103.678
3 Egitto 82.064
4 Senegal 72.618
5 Bangladesh 73.964
6 Pakistan 64.859
7 Nigeria 48.674
8 Ghana 44.353
9 Altra provenienza
(cad<1,9%)
66.567
Totali 1.293.000
1
Dossier Statistico 2011 Caritas/Migrantes.
2
Tutti questi dati ricalcano la tendenza media della distribuzione degli immigrati in tutta la penisola italiana. La
maggior parte degli stranieri residenti si concentra nel Nord e, in misura inferiore, nel Centro. Al 1° gennaio 2010 nel
Nord-ovest risiede il 35% degli stranieri, nel Nord-est il 26,6%, nel Centro il 25,3%, nel Mezzogiorno il 13,1%. (ISTAT,
La popolazione straniera residente in Italia, 1° Gennaio 2010)
3
Elaborazione dati Caritas/Migrantes al 31 Dicembre 2009 in http://www.wikipedia.org/wiki/Islam_in_Italia.
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L’islam è la seconda religione del paese.
«Il dato italiano (..) tuttavia ci dice solo quanti sono i “provenienti da paesi musulmani”, compresa
una ragionevole quota di irregolari, a cui vanno aggiunti i naturalizzati e i convertiti. Quanti – tra i
musulmani d’origine presenti in Italia – siano i “praticanti” (..) è naturalmente un altro discorso»
(Allievi 2009, pp.11-12).
Il flusso migratorio italiano, quindi anche quello musulmano in Italia, arriva tardi, verso la fine
degli anni ’70-inizio degli anni ’80; fino a pochissimo tempo prima il paese esportava ancora
manodopera e l’esperienza coloniale fu solo una breve parentesi nella sua storia, caratterizzata
anche da una invasività relativamente modesta.
Negli anni ’60 gli unici musulmani che risiedevano in Italia, oltre ai dipendenti delle ambasciate e
gli uomini d’affari, erano studenti della Giordania, della Siria e della Palestina venuti in Italia per
completare gli studi. Negli anni ’70 i flussi erano composti per la maggioranza da marocchini, ma è
dagli anni ’90 in poi che cominciarono ad arrivare musulmani provenienti da molti paesi,
inizialmente soprattutto dall’Africa e dai Balcani, ma poi anche dall’Asia.
Le caratteristiche di questa immigrazione sono diverse da quello degli altri paesi europei:
1. la diversificazione dei paesi di provenienza e delle etnie, che non permette l’identificazione
con un solo paese, soprattutto a partire dagli anni ’90 fino ad arrivare al nuovo millennio;
2. la maggior dispersione sul territorio, sia nelle grandi città che nei piccoli centri, che non
favorisce la formazione di ghetti o di comunità chiuse;
3. le caratteristiche degli immigrati stessi, non più persone analfabete che provengono da zone
rurali, ma spesso gente che ha conosciuto l’islam dinamico e polemico degli anni ’70-’80,
che è cresciuta in un ambiente di “risveglio dell’islam” spesso mal visto dalle potenze
europee perché ha prodotto movimenti neofondamentalisti e radicali, che ha conosciuto
l’indipendenza;
4. la presenza islamica si visibilizza già con la prima generazione, senza aspettare un
inserimento più radicato: sorgono così moschee e centri religiosi, macellerie di carne halal,
negozi di vestiti e di cucina orientale
4
, ma anche molte più incomprensioni perché agli
italiani non è dato il tempo di abituarsi alla loro presenza come negli altri paesi del nord
Europa.
Proprio negli anni in cui cominciano i flussi d’immigrazione verso l’Italia si assiste ad una diversa
tipologia di migrazione meno definita, più fluida e deregolamentata, costituita da immigrati
economici e da rifugiati spinti da un intreccio di motivi politici (caduta del muro di Berlino e di
molte dittature nell’Europa dell’est) e economici. Si tratta di flussi che spesso assumono i tratti della
clandestinità, e che si dirigono verso paesi prima non interessati al fenomeno migratorio, ma
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Fu immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale che cominciarono ad arrivare in Europa grandi masse
di lavoratori per la ricostruzione, grazie alla stipula di vantaggiosi accordi bilaterali tra colonie e madrepatria: la
maggior parte provenivano da zone di fede a maggioranza musulmana ( Algeria e Marocco verso la Francia, Turchia
verso la Germania con cui aveva stipulato accordi senza esserne stata una colonia, India verso la Gran Bretagna). Circa
7-8 milioni di persone. Queste direzioni privilegiate dei flussi spiegano perché oggi tutti gli stati europei che hanno
conosciuto un’immigrazione più antica abbiano popolazioni di immigrati caratterizzate da una netta preponderanza di
alcune nazionalità specifiche.
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facilmente accessibili o perché – nella fase iniziale – privi di legislazione riguardante
l’immigrazione, o perché i controlli all’ingresso sono facilmente eludibili come Spagna, Italia e
Grecia.
Solo ora l’Italia viene a diretto contatto con le popolazioni musulmane e comincia a conoscerle
5
.
Per l’islam, d’altro canto, è la prima volta nella sua storia che cittadini di paesi musulmani si
spostino volontariamente dal dar al-islam (‘casa dell’islam’) per trovare tra gli ‘infedeli’ benessere
per sé e la propria famiglia.
« La peculiarità delle migrazioni odierne è infatti che non nascono affatto fi sabil Allah (‘sulla via di
Dio’): nascono, lo abbiamo visto, per tutt’altri motivi (..). Ma possono diventarlo, possono
trasformarsi. E una migrazione per motivi economici o anche culturali (..) può trasformarsi, nella
frequentazione di un centro islamico o nell’ingresso in una tariqa (‘confraternita’)» (Allievi 2002,
p.42).
Secondo una ricerca svolta da Enzo Pace tra 1996 e 1997 tra un campione rappresentativo di
musulmani residenti in Veneto è emerso che l’84,5% ritiene che si possa vivere da musulmano
anche in Italia, rispettando le prescrizioni dell’islam: il 56%, infatti, ritiene che per essere un buon
musulmano in Italia basta seguire il Corano e un 67,5% degli intervistati dichiara che si possono
crescere dei figli musulmani anche in Italia
6
.
Il mondo islamico già di per sé è una realtà estremamente complessa ed eterogenea: la grande
comunità (‘umma’) di cui i musulmani fanno parte è un mosaico di lingue, culture, etnie, rituali e
sistemi politici
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(stati teocratici, laici o dove l’islam è religione di stato) nella quale solo la
professione di fede (‘shahada’) rimane un punto fermo, mentre tutto il resto si adatta al contesto
culturale e ambientale in cui è immerso. Un esempio forse banale, ma che può spiegare molto bene
questo stato di cose è il velo (di cui ne esistono varie tipologie): in alcuni stati indossarlo non è
obbligatorio (anche se di solito la maggior parte delle ragazze lo indossa comunque nei luoghi
pubblici), non è indice di fede; mentre in altri stati è considerato un obbligo sharaitico.
Questo pluralismo in buona parte è causato dalla caratteristica dell’islam di essere una religione
senza una chiesa e senza un’autorità religiosa a cui far riferimento (fatta eccezione per l’islam
sciita), in cui le leggi che regolano le relazioni sociali (“mu’amalat”) possono essere adattate alla
realtà di ogni società e generazione.
«L’idea di un doppio piano, globale e locale, è in un certo senso intrinseca all’islam antropologico,
che ha sempre adattato il messaggio religioso alle condizioni socioculturali dello spazio in cui si
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Già nel 1900 si documentano rapporti stretti dell’Italia con l’islam, a causa delle pretese di conquista coloniale che
porta l’Italia in Etiopia e Libia; in quest’ultima i capi indigeni consegnano a Mussolini la “spada dell’islam” in segno di
amicizia e rispetto e da parte sua il duce si impegnò a mantenere questi popoli in pace e benessere. «Già nel 1928 del
resto Mussolini aveva addirittura dichiarato che l’Italia è “amica del mondo islamico e conscia delle sue funzioni di
grande Potenza musulmana”» (Allievi, Dassetto 1993, p.22).
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Macioti M. I. (a cura di) 2000, pp.229-230.
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Né il Corano né il Profeta hanno dettato regole capaci di legittimare le varie e diverse forme di organizzazione
dell’islam: i musulmani non trovano in essi le definizioni del potere legittimo o le sue procedure di riproduzione. I testi
fanno di più: mettono in luce un aspetto privato ed estremamente personale del rapporto tra il credente e Dio. «Per
questo, in definitiva, il potere legittimo è il potere di fatto (..) che evidentemente per essere esercitato dovrà avere gli
attributi della fede. Ma non è mai acquisito, e spesso deve consolidarsi e rilegittimarsi» (Allievi, Dassetto 1993, p.128).