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Introduzione.
Hans Selye diceva che: “La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a
quanto si pensa di solito, non dobbiamo, e in realtà non possiamo evitare lo stress, ma
possiamo incontrarlo in modo efficace e trarne vantaggio imparando di più suoi
meccanismi, ed adattando la nostra filosofia dell‟esistenza ad esso” (cit. in Favretto,
1994: 11). Lo scopo di questa trattazione sarà proprio quello di confutare e di
assecondare, per alcuni aspetti, quanto detto da Selye.
Lo stress viene, comunemente, definito come la reazione dell‟individuo all‟ambiente, nel
caso specifico, quindi, all‟ambiente di lavoro. Infatti per dimostrare come sia cambiata
nel corso degli ultimi due secoli la concezione, ma soprattutto l‟attenzione verso la qualità
e la salute e la sicurezza sul lavoro, nel primo capitolo verrà presentato un excurs delle
principali teorie organizzative, cercando di metterne in evidenza, per l‟appunto, quelli
aspetti che suggeriscono una maggiore attenzione verso la qualità del lavoro. Quindi
partendo dal fordismo, fino ad arrivare al toyotismo, si mostrerà come sono cambiate le
condizioni di lavoro, o meglio come sarebbero dovute cambiare secondo i teorici.
Sicuramente si potrà notare, però, come sia cambiato il modo di pensare al lavoro sia da
parte delle aziende e sia da parte degli stessi lavoratori. Nel primo caso la situazione si
può “facilmente” riassumere nel passaggio dalla catena di montaggio alle così dette isole
di lavoro, mentre nel caso dei lavoratori il discorso è più complesso, coinvolge molteplici
aspetti, non rilevanti per questi fini, che, però, sempre più spesso, fanno sì che il lavoro
non costituisca più il primo pensiero dell‟uomo moderno.
Successivamente si parlerà più approfonditamente della qualità del lavoro, ricostruendone
il percorso storico e legandolo ad uno dei concetti più importanti per la vita di ciascun
individuo: la democrazia. Si parlerà delle dimensione della qualità: ergonomia,
complessità, autonomia e controllo; soffermandosi, in modo particolare, sulla prima
dimensione. Se si è scelto di sviluppare il concetto di ergonomia più degli altri è a causa
della sua natura multidisciplinare, dal momento che rappresenta l‟unione perfetta tra
discipline più umanistiche e tra discipline scientifiche, come ad esempio l‟ingegneria. Di
conseguenza era il concetto che meglio si prestava ad essere legato ai temi della salute e
del benessere all‟interno dei luoghi di lavoro. Infatti il concetto di ergonomia ha permesso
di introdurre il discorso, prima sul benessere in generale, distinguendo tra quello
soggettivo, quello psicologico e quello sociale, per approdare poi al benessere
10
organizzativo. I temi del benessere e della salute organizzativa, comprese le varie
indicazioni legislative, hanno gettato le basi per il capitolo precedente, quello in cui si
inizia ad affrontare il tema centrale della tesi: lo stress.
Il terzo capitolo ricostruisce il lungo e sfaccettato tema dello stress prima, e dello stress
lavoro correlato poi. Inizialmente, infatti, si parlerà dello stress in generale, o meglio
dello stress soggettivo, ripercorrendone le origini toriche, quindi presentando le teorie di
Selye ed i principali fattori ed implicazioni dal punto di vista fisiologico e medico. Nella
seconda parte, invece, si passerà a parlare specificatamente del tema dello stress lavoro
correlato e delle così dette organizzazioni “malate”, cercando di mettere in evidenza i
potenziali elementi stressogeni all‟interno dei contesti di lavoro (es. funzioni, ruoli,
ambiente, etc.). Nella terza parte verranno presentati i principali modelli su questo tema,
come il modello domanda/controllo di Karasek o quello transazionale di Cox e Mackay.
Infine si parlerà delle strategie di coping, perché anche se, a detta di Selye, bisogna
accettare lo stress come una condizione normale della nostra esistenza, non bisogna
essere drastici e pensare che l‟unica sia la morte, ma bisogna imparare ad utilizzare delle
tecniche, per l‟appunto il coping, che ci permettono di tenerlo a bada, senza dimenticare,
che livelli non elevati di stress possono rivelarsi altamente positivi.
Il quarto capitolo rappresenta l‟unione tra quanto detto nei primi tre capitoli di natura più
teorica, con il caso pratico della valutazione dello stress lavoro correlato presso
un‟azienda. In questo capitolo si parlerà, infatti, dei diversi modelli di questionari, più o
meno recenti, che hanno ispirato quello dell‟Ispesl utilizzato per la valutazione dello
stress in azienda. Dal capitolo sei in poi, il quinto presenta una serie di dati sulle
principali patologie lavoro correlate, in Italia e in Emilia Romagna, sul quale non è
necessario dilungarsi nelle spiegazioni; ci si riferirà esclusivamente all‟esperienza della
valutazione dello stress lavoro correlato realizzata durante l‟attività di tirocinio presso la
società di consulenza aziendale Cubo di Bologna.
Il capitolo sei sarà, più che altro, un capitolo di presentazione della società di consulenza,
dell‟azienda committente e del questionario utilizzato, mentre nei capitoli sette ed otto si
entrerà nel dettaglio. Come si leggerà in questi due capitoli si analizzerà la situazione
presente all‟interno di due delle sei unità produttive dell‟azienda, una per il reparto
produttivo ed una per gli uffici. La situazione di ciascuna unità verrà analizzata nel
11
dettaglio, seguendo la divisione per aree del questionario, e facendo, invece, un discorso
più generale ed unitario nelle conclusioni.
Infine si è scelto di realizzare un ultimo breve capitolo, il nono, in cui si passa dal
particolare delle due realtà produttive esaminate, al generale dell‟azienda. Così facendo si
è cercato di dare un‟immagine completa dell‟azienda, presentandone l‟intera situazione, i
principali problemi emersi e le possibili soluzioni suggerite dalla società Cubo.
12
CAP 1. TRASFORMAZIONI DEL LAVORO.
INTRODUZIONE.
Questo capitolo si occuperà delle trasformazioni del lavoro nel corso degli ultimi due
secoli. Verrà ricostruito un excursus storico delle principali teorie organizzative partendo
dal Taylorismo, per arrivare al così detto toyotismo, come modello organizzativo, e alla
flessibilità come caratteristica, ormai preminente, del lavoro dei giorni nostri. L‟intento è
quello di dimostrare come sia cambiata l‟attenzione e il rispetto del “fattore umano” sia
da parte delle varie teorie organizzative, e sia da parte delle stesse aziende.
1.1. Il significato del lavoro.
Nel corso degli anni sono state date varie definizioni del lavoro. La tradizione
fenomenologica, ad esempio, lo vede come un‟azione nel mondo esterno, basata su un
progetto e sull‟intenzione di portarlo a termine attraverso movimenti del corpo (Borghi,
Rizza, 2006: 5). Weber (cit. in Borghi, Rizza, 2006:) riprende il concetto del percorso di
azione sociale, orientato “agli altri” e frutto di sistemi simbolici complessi. Un elemento
fondamentale che emerge da queste prime definizioni è l‟intenzionalità dell‟azione, che
andrebbe però problematizzata. Nel lavoro è, infatti, riscontrabile una massiccia dose di
routinarietà e consuetudini in cui l‟intenzionalità sembra effettivamente venir meno.
L‟azione lavorativa si inserisce all‟interno di specifici sistemi di potere, differenti a
seconda dei contesti, che influenzano le nostre azioni. Si può individuare una sorta di
continuum in cui ad un‟estremità vi è un‟ampia autonomia individuale e, all‟altra, invece,
il lavoro forzato. Il lavoro può essere, pertanto, definito come una pratica che si colloca
tra la tradizionale polarizzazione individuo-società, situata e istituzionalizzata,
rimandando, di conseguenza, ad una serie di presupposti. Ci si riferisce, quindi, piuttosto,
al regime lavorativo: “un insieme coerente e duraturo di regole di vita sociale che
consentono la mobilitazione delle energie lavorative in forme di vita”(Mingione cit. in
Borghi, Rizza, 2006:). Le forme del lavoro vengono storicamente definite, formalizzate
ed erogate all‟interno di specifici contesti organizzativi e dipendono dai processi di
riproduzione della società, che ne determina gli aspetti materiali e sociali. Da quanto detto
finora emerge la natura sociale del processo di istituzionalizzazione, per cui il lavoro e le
13
sue stesse qualità vanno osservati tenendo conto del contesto sociale, il quale ne permette
evoluzioni e trasformazioni. Per qualità del lavoro si intendono tutti gli aspetti materiali
ed immateriali dell‟interazione sociale entro un sistema definito di pratiche di
apprendimento (Borghi, Rizza, 2006: 7). Partendo da questo presupposto l‟analisi
dell‟organizzazione del lavoro potrà essere fatta solo mettendone al centro un insieme
complesso di interconnessioni e relazioni.
1.2 Taylorismo: l’organizzazione scientifica del lavoro.
Il Taylorismo si afferma in un periodo storico in cui si riteneva necessario che il lavoro
dovesse essere scientificamente organizzato, in modo da rendere trasparenti ed egualitarie
le singole aziende, sfruttando in maniera paritaria la forza lavoro acquistata sul mercato.
Si potrebbe affermare che il taylorismo fu un tentativo di rendere le aziende impermeabili
alle contraddizioni, alle incertezze e ai conflitti provenienti dalla società, nato da una dura
critica al sistema dei closed shop imperante fino ad allora nelle fabbriche.
Fino agli anni venti il modello organizzativo adottato dalle aziende si basava su un
organizzazione che potrebbe essere definita di tipo feudale. L‟intera gestione aziendale
veniva affidata a dei capireparto, operai anziani e di lunga esperienza dotati di un certo
carisma, che sceglievano le squadre con assoluta discrezionalità e le governavano sotto la
minaccia del cottimo e della produttività oraria. Si trattava, pertanto, di un sistema
altamente discriminante, noto come drive system (sistema della spinta), controllo stretto,
abuso, irriverenza e minacce (Jacoby cit. in Bonazzi, 2002: 33). In questo modo si voleva
suscitare riverenza e paura del management negli operai, in modo da sfruttarlo come
vantaggio. Negli Stati Uniti erano molto diffusi anche i contractors, delle figure a metà
strada tra dipendenti e piccoli imprenditori. A fronte di una piccola somma di denaro,
l‟impresa forniva ai contractors tutti i mezzi di cui avevano bisogno, mentre quest‟ultimi
si impegnavano ad eseguire una data quantità di lavoro ad un determinato prezzo. Si
trattava di un altro modo per tenere all‟oscuro l‟azienda degli aspetti tecnici ed economici
della produzione.
Il taylorismo, dal canto suo, intendeva ridurre il lavoratore ad una mera appendice della
macchina, ogni singola mansione venne semplificata e schematizzata in modo da poterla
misurare attraverso il controllo tempi-metodi. Taylor, attraverso l‟organizzazione
14
scientifica del lavoro, intendeva eliminare dalle aziende qualsiasi forma di arbitrio
personale, di comportamento vessatorio, clientelismi e particolarismi; per far sì, non solo
che si aumentasse la produttività, ma che si introducesse anche la trasparenza all‟interno
dei sistemi di governo dell‟azienda. Il metodo era scientifico anche perché, opponendosi
all‟ ”impero dei capireparto”, dipendeva direttamente dalla direzione centrale, a cui
spettava il compito di prendere le decisioni produttive e di definire le gerarchie di
comando. Ogni sistema organizzativo necessita, però, di una legittimazione, Taylor la
individuò nella scienza. Del Taylorismo, però, si sono sottolineati solo gli aspetti alienanti
e non anche lo spirito egualitario che lo muoveva (Bonazzi, 2002:). Inoltre bisogna
ricordare che ci furono varie forme e diversi gradi di applicazione delle teorie tayloriste.
Taylor (cit. in Bonazzi, 2002: 35) definì l‟organizzazione scientifica del lavoro come: “
un certo numero di principi generali di vasta portata, in una ben definita concezione
teorica che può venire applicata in varie maniere.”Egli osservò come fosse possibile una
terza via nello scontro tra operai ed imprenditori circa il salario, che coincide, per
l‟appunto con l‟ OSL. Tale modello dovrà, però, per essere efficace, coinvolgere tutti i
lavoranti della fabbrica, in modo che nessuna delle parti si focalizzi su come spartirsi il
surplus. L‟equazione alla base del taylorismo è:
maggiore rendimento = maggiore benessere per tutti.
Ma non tutti però, secondo Taylor, avrebbero compreso che per raggiungere il benessere
e il progresso deve esserci l‟assenza di conflitti e la collaborazione tra tutte le forze
sociali; in caso contrario si produrrà una volontaria e sistematica riduzione del lavoro.
Individua tre motivi principali del rallentamento della produzione, ricollegabili al
pensiero umano o a questioni organizzative (ad esempio il cottimo):
errata percezione che l‟ aumento della produzione causi la perdita di posti di
lavoro;
imperfetti sistemi organizzativi che spingerebbero gli operai a lavorare più
lentamente per salvaguardare i loro interessi;
inefficienza dei metodi empirici che causerebbero perdite produttive.
Il lavoro non può essere, per la sua stessa natura, un‟ attività piacevole, ma se gli
individui non tendessero ad essere brutali, pigri, incapaci e li si convincesse che devono
15
approcciarsi al lavoro con serietà, per adempiere, innanzitutto, ad un dovere morale, non
ci sarebbe bisogno dell‟ OSL.
1.3 I quattro punti del taylorismo.
L‟obiettivo dichiarato di Taylor era quello di creare un modello che garantisse un
aumento di produttività, operando una radicale rivoluzione in tutto il sistema
organizzativo. In maniera schematica il taylorismo si può riassumere in (Bonazzi, 2002:
40):
studio scientifico dei metodi del lavoro rapportato alle caratteristiche dei
lavoratori e delle macchine (one best way);
selezione e addestramento della manodopera;
creazione di un clima aziendale collaborativo e cordiale, che nell‟ottica
taylorista aveva anche il compito di ridurre i contatti con i sindacati;
distribuzione uniforme di lavoro e responsabilità tra reparti produttivi e
amministrativi.
Il primo punto rappresentava la base originaria dell‟MTM (Misurazione Tempi e Metodi),
rivista ed ampliata. L‟MTM consisteva nell‟esaminare un gruppo di 10-15 lavoratori
particolarmente abili nello svolgimento dell‟attività lavorativa che si intendeva esaminare.
Successivamente, si analizzavano tutti i movimenti ed i tempi necessari per effettuarla,
così da eliminare i movimenti superflui ed unire, invece, quelli ritenuti più razionali.
Infine si standardizzavano i movimenti e gli strumenti fissando un tempo ideale di lavoro
dato dalla somma dei tempi dei singoli movimenti. Il gruppo selezionato veniva
addestrato a svolgere il compito secondo la nuova procedura, i tempi venivano, poi,
nuovamente osservati e corretti anche per tener conto, ad esempio, delle esigenze
fisiologiche dei lavoratori. Il tempo ottimale di lavoro sarebbe stato quello che, secondo
Taylor, avrebbe fatto sentire al lavoratore, alla fine della giornata, il bisogno di riposarsi.
In questo modo si individuava un ritmo lavorativo che si sarebbe dovuto mantenere per
tutta la vita lavorativa senza che esso causasse, però, logoramento fisico. L‟innovazione
principale introdotta dal taylorismo consiste nella netta separazione tra progettazione ed
esecuzione del lavoro, producendo una gran massa di lavoratori semiqualificati. Taylor
suggerì di eliminare il sistema retributivo del cottimo, sostituendolo con una paga
16
standard più un premio di rendimento da erogare solo a coloro che avranno raggiunto gli
obietti produttivi con la modalità prevista; nel caso contrario vi sarebbe stata una
decurtazione, proporzionale, del salario.
Anche l‟assegnazione del lavoro doveva seguire criteri scientifici, che si concretizzarono
nella teoria degli operai di prima categoria. Nessun uomo può svolgere in maniera
ottimale tutti i tipi di lavoro, ma ognuno di essi saprà essere di prima categoria in almeno
un compito.
Taylor aveva in mente un tipo di azienda non troppo grande, ancora di tipo padronale, che
gli permettesse, ancora, di conoscere di persona ogni lavoratore. Egli notò che nelle
fabbriche governate in modo tradizionale vi era scarsità di dirigenti e che ciò comportava
l‟allungamento dei tempi di lavoro e l‟aumento dei costi. I capi tendevano a scaricare la
maggior parte dei compiti sui subalterni, rendendo, così, eterogenei i compiti a tutti i
livelli. Tutto ciò era, inoltre, acuito da una struttura gerarchica di tipo militare. L‟unico
modo per far fronte alla scarsità di dirigenti era rivoluzionare l‟organizzazione aziendale,
in modo da restringere il bacino delle responsabilità ed introducendo più quadri
intermedi. L‟organizzazione gerarchica di tipo militare andava sostituita con una linea
direttiva funzionale che avrebbe portato gli operai ad essere controllati da più capi,
ognuno dei quali si sarebbe dovuto occupare di uno specifico aspetto. Le informazioni
sarebbero dovute essere gestite secondo il “principio dell‟eccezione”, così da eliminare i
tempi morti e superflui. Si individuarono tre livelli organizzativi all‟interno della
fabbrica: al livello più basso vi era il reparto produttivo, che non avrebbe avuto nessun
altra funzione che esulasse dal flusso produttivo. A livello intermedio, invece, venivano
svolti i compiti che riguardavano l‟analisi dettagliata delle procedure lavorative e la
ricerca di possibili miglioramenti tecnici. Il terzo livello, infine, era quello della dirigenza
che si sarebbe dovuta occupare della gestione dell‟azienda in generale, ed intervenire solo
in casi eccezionali.
I motivi che spinsero le aziende, ormai ad un passo dalla produzione di massa, ad
accettare ed adottare il modello taylorista possono essere riassunti in tre punti
fondamentali:
1) accettazione e razionalizzazione delle linee di autorità;
2) aumento della produttività, non solo attraverso la riorganizzazione lavorativa, ma
anche attraverso la totale trasparenza di costi, tempi, metodi e procedure di lavoro;
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3) utilizzo della scienza non solo come criterio di azione, ma anche come principio
legittimante delle nuove proposte.
Si trattava di introdurre una rivoluzione non solo nel modo di lavorare, ma anche nel
modo di comandare. Il taylorismo si collocò all‟interno di un più vasto movimento di
riforma che coinvolse l‟intero settore industriale.
1.4 Il post Taylorismo.
Nella sociologia industriale e del lavoro si possono individuare due filoni principali di
critica al modello taylorista. Il primo, di matrice marxista, guardava all‟OSL come ad
un‟espressione del capitalismo monopolista, che comportava la progressiva degradazione
del lavoro umano ed una crescente separazione del lavoro manuale da quello intellettuale.
Il lavoro manuale sarebbe stato espropriato dei suoi contenuti intellettuali a causa dello
sviluppo tecnologico. Mentre, il secondo filone critico, può essere definito una critica
umanistica (Bonazzi, 2002: 54). La soluzione, per gli studiosi appartenenti a questo
filone, non si troverebbe nella lotta di classe ma nella restituzione dell‟aspetto umano
all‟attività lavorativa. Tutte le forze sociali dovrebbero cooperare affinché il lavoro venga
valorizzato sotto tre aspetti: intellettuale, ripristinandone i contenuti; morale,
riconoscendo diritti e dignità; sociale, creando un clima cooperativo all‟interno
dell‟azienda. Secondo Friedmann (cit. in Bonazzi, 2002: 54), il modello ideale sarebbe
una democrazia industriale in cui il perseguimento del profitto non sottovaluti il rispetto
dei diritti e dei valori umani. Vi sarebbe poi una terza posizione che può essere definita
neo-marxista, che vede nel taylorismo un tentativo di legittimare, con la scienza,
l‟effettiva adesione al sistema di potere costituito. Questo filone utilizza come variabile
l‟aspetto storico, ed in particolare, immette il modello taylorista all‟interno di un più vasto
movimento di crescita e sviluppo del settore industriale moderno. All‟interno di esso si
possono individuare degli studi che si sono focalizzati sugli effetti prodotti dalle nuove
tecnologie sul lavoro degli operai, a cui appartengono, tra gli altri, Touraine e Blauner. Il
secondo gruppo si sviluppa intorno al così detto tema della contingenza, l‟ipotesi
sostenuta è quella del necessario cambiamento dei ruoli e dell‟organizzazione, in risposta
al grado di turbolenza presente all‟interno dell‟azienda.
18
Se il taylorismo si fosse applicato così come era previsto sulla carta, avrebbe di sicuro
offerto agli psicologi del lavoro abbastanza materiale per studiare la relazione esistente tra
sforzo psico-fisico e rendimento. A partire dagli anni ‟20 del secolo scorso, come ricorda
lo stesso Friedmann (cit. in Bonazzi: 2002: 57), al taylorismo furono rivolte molte
critiche, riguardanti soprattutto la mancata attenzione agli aspetti psicologici del lavoro.
Nello specifico venne criticato per aver imposto dall‟esterno i ritmi di lavoro, le pause e
le modalità, senza tener conto dei ritmi fisiologici propri di ogni individuo; la pretesa di
imporre delle norme standardizzate senza considerare le peculiarità di ogni lavoratore.; la
ricerca di una legittimazione pseudo-scientifica ed infine l‟aver trascurato gli effetti che
un lavoro monotono può causare sull‟equilibrio psico-fisico di un individuo. Un altro
gruppo di critiche ha riguardato il fatto che si fosse pensato che l‟unico incentivo
possibile, per un corretto svolgimento del lavoro, spesso passivo e senza senso, fosse di
tipo economico.
Taylor e i suoi allievi avevano svolto numerose ricerche nel tentativo di stabilire dei
coefficienti perfetti per il calcolo dei ritmi lavorativi, il cui unico vincolo era la resistenza
ad uno sforzo prolungato. Questo tentativo di stabilire una soglia di fatica valida per tutti
si dimostrò sin da subito poco praticabile, perché la soglia di fatica che un individuo può
sopportare è strettamente legato alla sua soggettività. Si scoprì che ai fini del rendimento
lavorativo fatica e monotonia avevano lo stesso peso, nel senso che entrambe causavano
rallentamento dell‟attività produttiva. Wyatt, Fraser e Stock (cit. in Bonazzi, 2002:58)
proposero cinque rimedi per cercare di ridurre la monotonia lavorativa:
1) job-rotation;
2) retribuzione a cottimo, così da incentivare un‟esecuzione responsabile del
lavoro;
3) far percepire all‟operaio i suoi compiti come un‟attività conclusa;
4) evitare l‟isolamento fisico degli operai e la creazione di gruppi spontanei;
5) introduzione di turni di riposo durante l‟attività lavorativa.
1.4.1. La scuola delle “Relazioni Umane”.
La scuola nasce, a cavallo tra gli anni ‟50 e ‟60, sostanzialmente, intorno all‟esperimento
condotto da Elton Mayo presso gli stabilimenti di Hawthorne, Chicago, della Western
19
Electric. Le ricerche si concentrarono su tre aspetti: fattori che favoriscono il rendimento
degli operai; lamentele e motivi di soddisfazione all‟interno dell‟azienda; fattori di
antagonismo o solidarietà tra gli operai. Nel primo caso si cercò di appurare se gli
incentivi più efficaci fossero di natura economica o psico-sociale. Questa fase coinvolse
cinque operaie addette al montaggio dei relè telefonici, che vennero spostate in un
apposito locale, sotto la sorveglianza di un rappresentante della direzione che aveva la
funzione di annotare tutto ciò che accadeva nella stanza e favorire un‟atmosfera cordiale.
Successivamente si passò a modificare il cottimo, calcolato direttamente sulla produzione
ottenuta nel nuovo locale. L‟esperimento fu articolato su tredici step e durò circa due
anni. Alla fine si registrò un aumento della produttività media pari al 30%. I ricercatori
per dare una spiegazione a questo dato si concentrarono soprattutto sugli incentivi
economici e sul morale del gruppo. Vennero, poi, progettati altre due esperimenti, in uno
si sarebbero annullate le condizioni amichevoli, così da misurare solo gli effetti
dell‟incentivo economico, mentre nel secondo, viceversa, si sarebbe annullato l‟incentivo
economico, misurando solo gli effetti dei rapporti interpersoanali e del clima aziendale. Il
primo esperimento non venne realizzato a causa della crescente ostilità tra le operaie e il
secondo a causa della crisi del ‟29. Si poterono comunque trarre delle conclusioni
generali. Innanzitutto apparve chiaro che l‟aumento del rendimento operaio fosse legato a
rapporti cordiali e amichevoli all‟interno del gruppo di lavoro; un effetto minore ebbe,
invece, l‟introduzione di pause nel tradizionale orario di lavoro. Infine, si osservò che
l‟incentivo economico aveva un effetto molto modesto. Sembrava ormai chiaro che
nessuno potesse considerarsi estraneo alle inferenze sociali, itersoggettive e personali. La
motivazione alla base dell‟operato di Mayo e dei suoi colleghi fu sicuramente quella di
ricordare l‟importanza delle “relazioni umane” all‟interno del sistema organizzativo. Si
perseguiva una progressiva apertura dei confini delle aziende, che da sistema chiuso,
isolato dal contesto sociale, sarebbero dovute diventare sempre più dei sistemi aperti,
influenzabili dall‟ambiente esterno. Si tentò di razionalizzare le influenze esterne
portandole all‟interno dell‟azienda stessa.
Negli anni ‟60 questo “modello” venne riesaminato e fortemente criticato, soprattutto
dallo schieramento progressista e filo-operaio, che vi vedeva un intento manipolatorio. Si
criticò, in particolare, la sottovalutazione della sostituzione di due operaie all‟interno
dell‟originario gruppo di lavoro, accusate di chiacchierare troppo e di rallentare la
produzione. L‟arrivo di altre due operaie portò, non solo ad un aumento della produzione,
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ma anche ad un effetto imitativo da parte delle “veterane” del gruppo. Secondo i critici
vennero adottati differenti parametri di misurazione, in particolar modo nel caso della
produzione totale e per quella oraria. Non si tenne conto dell‟influenza dei fattori esterni
(crisi del ‟29), ne dei preconcetti delle analisi, poiché si sarebbero accettate solo
determinate ipotesi. Le variazioni della produttività sarebbero, pertanto, scaturite da:
interventi disciplinari del management, effetti della crisi economica e dall‟introduzione di
pause di riposo.
Le difficoltà incontrate dal taylorismo convinsero gli studiosi della scuola delle Relazioni
Umane a concentrarsi sul dinamismo dei piccoli gruppi omogenei, cercando di
individuare in essi i fattori limitanti della crescita della produzione. Concentrandosi sulle
dinamiche informali del gruppo emersero una serie di regole non scritte come, ad
esempio, che non bisognava produrre troppo perché altrimenti si era un “guastacottimo”
(Bonazzi, 2002: 68); non bisognava produrre troppo poco altrimenti si era degli
imbroglioni; bisognava tenere un forte spirito di corpo ed, infine, non mantenere le
distanze sociali e non essere troppo invadenti. In realtà il gruppo preso in esame,
costituito da quattordici persone, era diviso al suo interno in due sottogruppi, in base
all‟origine etnica e al grado di qualificazione professionale. Per i motivi suddetti sarebbe
meglio considerare i soggetti di un gruppo come appartenenti ad un sistema sociale dotato
di norme create dal gruppo stesso; distinguere tra aspetti formali ed informali per
comprendere le dinamiche di gruppo, ed in particolare le pressioni all‟omogeneità;
considerare che il gruppo attiva dei sistemi di autodifesa contro pressioni ed inferenze
esterne.
Riassumendo, i punti fondamentali su cui poggia l‟approccio della scuola delle Relazioni
Umane sono:
importanza del “fattore umano”;
anomia della società industriale e dell‟azienda come istituzioni reintegratrici;
importanza degli aspetti informali nell‟organizzazione produttiva.
Nel rapporto uomo-azienda è fondamentale, secondo Mayo, il fattore umano, cioè
l‟insieme dei fattori psicologici latenti che condizionano l‟agire dei soggetti. Insiste sulla
necessità di creare un ambiente di lavoro armonico e socialmente gradevole. Quindi, in
polemica con l‟OSL, ribadisce l‟importanza del background psicologico e micro-sociale
21
dell‟individuo, di cui dovrebbero tener conto anche la direzione aziendale. È il
management che deve sviluppare delle politiche che siano in grado di soddisfare le
esigenze emozionali degli individui.
1.3.2. L’azienda come sistema cooperativo.
A seguito dell‟aumento della complessità economica e sociale del secolo scorso, le
tradizionali teorie organizzative si dimostrarono sempre meno adatte a legittimare lo
scenario delle aziende. Barnard fu il principale esponente di questa nuova corrente di
pensiero orientata ad una visione cooperativistica dell‟azienda. Egli riteneva che
occorresse modificare la composizione interna delle classi dirigenti, partendo,
innanzitutto, da una distinzione tra management e proprietà. Bisognerebbe passare da un
rapporto padrone-dipendenti, ad uno proprietà-management-dipendenti, in cui il
management ha una funzione autonoma e che non coincida con la proprietà. Barnard partì
dal presupposto che ogni individuo nella vita di tutti i giorni, così come nell‟attività
lavorativa, incontrasse dei limiti che potessero essere superati solo unendo le forze
individuali. Pur riconoscendo il contributo della scuola delle Relazioni Umane, ne
circoscrisse l‟operato all‟interno del riconoscimento di un più vasto percorso di
premiazione della formalità dell‟organizzazione. I punti fondamentali dell‟approccio
cooperativista sono:
rapporto tra aspetti formali ed informali della cooperazione umana;
distinzione tra fini organizzativi e moventi personali.
I rapporti informali sono la base per la creazione di un‟organizzazione di tipo formale, ma
essi sono atteggiamenti, opinioni ed usanze condivise prive di qualsiasi struttura, pertanto
fino a quando si resterà nell‟ambito informale è impossibile pensare di istaurare la
cooperazione. Contrariamente a quanto sosteneva Mayo, si riconobbe solo
all‟organizzazione formale il compito di far nascere la cooperazione, dal momento che è
dotata di uno scopo consapevole. Per l‟individuo non conta il fine dell‟organizzazione,
ma solo il suo rapporto personale con quest‟ultima, i sacrifici che dovrà fare ed i benefici
che potrà ricevere. Non si può, però, pensare di portare a termine solo gli scopi
dell‟organizzazione, ma bisogna tener presenti anche quelli dei singoli individui. Si
potrebbe pensare che ogni membro di un‟organizzazione possa avere due personalità, una
22
organizzativa ed una individuale. La prima riguarda l‟analisi delle prestazioni svolte
dall‟individuo e che vanno legate alla sua personalità astratta nell‟organizzazione e al suo
ruolo insostituibile. La seconda serve, invece, a capire i moventi del soggetto,
nell‟equilibrio generale tra sacrifici e benefici. Ne consegue che le due personalità
possono differire tra loro. Dalla distinzione tra fini organizzativi e moventi individuali
Barnard ricavò i concetti chiave dell‟azione organizzativa: efficacia ed efficienza.
Intendendo, nel primo caso, il modo in cui l‟organizzazione raggiunge i proprio obiettivi
ed il modo con cui coordina le risorse che ha a disposizione. Efficacia ed efficienza
costituiscono due parti del sistema cooperativista non per forza legate tra loro, che
rendendo possibili diverse combinazioni, fanno sì che sia difficile arrivare ad un modello
ideale. La mediazione tra queste due dimensioni rappresenta per Barnard il problema di
fondo delle funzioni direttive. Proprio in risposta a questo problema viene elaborata
l‟economia dei costi e degli incentivi, la quale stabilisce che le soddisfazioni nette che
spingono un individuo a collaborare con un‟organizzazione dipendono dal confronto tra i
vantaggi e gli svantaggi. Tutti gli incentivi offerti dal sistema cooperativo possono essere
distinti in materiali (gratificazioni monetarie, fisiche, benefici di posizione,etc.) ed
immateriali (gratificazioni morali, , stima, prestigio,etc.). Si sottolinea l‟importanza delle
gratificazioni fondate sulla dimensione morale. Grande spazio viene riservato a tutte
quelle iniziative messe in atto dalle organizzazioni per cercare di ampliare i loro confini ai
nuovi membri.
La critica che più frequentemente viene fatta a Barnard riguarda il mancato
riconoscimento teorico delle peculiarità organizzative. Il suo metodo non fornisce, infatti,
degli strumenti per analizzare la varietà organizzativa. Alcuni autori, successivamente,
cercheranno di far fronte a queste critiche concentrandosi su alcuni aspetti strategici. Ma
l‟economia degli incentivi non garantirebbe solo vantaggi di tipo economico, i membri di
un‟organizzazione di tipo cooperativistico, infatti, trovano gli incentivi per continuare a
farne parte all‟interno di un surplus immateriale. La cooperazione può portare a
moltiplicare il valore dei singoli contributi, ma per ottenere un miglioramento che sia
diverso dalla semplice somma delle parti occorre che la direzione generale del sistema
cooperativo supervisioni al coordinamento degli sforzi.
Il modello cooperativista si fonda su due caratteristiche formali: 1) l‟autorità non si basa
su un imposizione formale di chi dirige, ma sull‟accettazione dei sottoposti. La
coercizione è la forza di legittimazione più debole che possa esistere poiché si basa solo