Parte prima
CHE COS’ È LA DEMOCRAZIA?
I .1. Un primo approccio al significato La parola ‘democrazia’ deriva dal greco (demos =popolo,
kratein =governo) significa letteralmente ‘governo del popolo’.
Tale significato è anche il più immediato e più comune, quello
che per primo viene in mente a un qualsiasi abitante del mondo
occidentale, dotato di un minimo di istruzione. Aprendo dei
dizionari, leggiamo che la democrazia è una «dottrina politico-
sociale» 1
e una «forma di governo in cui la sovranità risiede nel
popolo» 2
. Pur essendo ancora nel campo dei significati
ampiamente diffusi nel senso comune, già ci si accorge che si è
prodotto un leggero spostamento semantico e un aumento della
complessità a partire dalla prima traduzione letterale: la
democrazia è qualcosa che appartiene all’ordine del politico e del
sociale e si configura come dottrina; ovvero un insieme di teorie
organicamente organizzate.
Secondo Hans Kelsen (1881-1973), uno dei massimi teorici
novecenteschi della democrazia:
Il termine sta a designare un governo a cui il popolo partecipa
direttamente o indirettamente, vale a dire un governo esercitato
1
Voce Democrazia nel Dizionario della lingua italiana compatto, a cura di T. De Mauro,
Paravia, Milano 2004, p. 327.
2
Voce Democrazia nel Vocabolario della lingua italiana , a cura di N. Zingarelli Zanichelli,
Bologna 1983, p. 523.
mediante decisioni prese a maggioranza da un’assemblea popolare o
da uno o più gruppi di individui o anche da un solo individuo eletto
dal popolo. Tutti costoro si chiamano rappresentanti del popolo. II
termine indica la relazione, costituita mediante l’elezione, tra
l’elettorato e l’eletto.
3
Norberto Bobbio (1909-2004), l’erede italiano della tradizione
giuspositivista e liberal-democratica iniziata da Kelsen, la
definisce invece, come «un metodo o un insieme di regole
procedurali per la costituzione del governo e per la formazione
delle decisioni politiche»: in poche parole una tecnica politica –
la cosiddetta «democrazia formale» 4
.
Tali definizioni complicano ulteriormente la questione
aggiungendo una costellazione di concetti correlati, quale
partecipazione (che può essere più o meno diretta), elezione,
regole procedurali. La distanza tra le prime definizioni e queste
ultime appare significativa e afferente ad un registro linguistico
specialistico. La distanza è anche frutto della diacronia: il tempo
intercorso tra le diverse formulazioni lascia supporre che le
differenze qualitative con la più recente siano frutto di un
sovrapporsi di diversi elementi lungo il divenire storico dell’idea
stessa.
Tutte queste definizioni, però, non ci hanno ancora detto nulla di
chiaro su quello che la democrazia possa essere all’interno di una
riflessione filosofico-politica, la quale ci riporterebbe in una
dimensione teorica che si ponga a priori di quello che è il puro
agire politico – che peraltro dovrebbe essere il nostro punto di
3
H. Kelsen, Foundation of democracy , in I fondamenti della democrazia , trad. it. il
mulino, Bologna 1998, a cura di M. Barberis, p. 194.
4
Cfr. voce Democrazia in N. Bobbio, Il dizionario di politica , a cura di N. Bobbio, N.
Matteucci, G. Pasquino Utet, Torino 2004, p. 241.
vista privilegiato. Infatti essa si viene a «costituire come la
categoria-base su cui si collocano e a cui si confrontano tutte le
nostre azioni, relazioni e pensieri non puramente privati» 5
, cioè si
configura come un paradigma culturale «che va al di là del
significato specifico di forma di governo […] per indicare un
modo di essere e di pensare» 6
.
Cercando di mettere ordine, si può così schematizzare il
problema: la democrazia è una teoria filosofico-politica originaria
dell’antica Grecia; in quanto filosofia costituisce e presuppone un
paradigma teorico e culturale; come politica si qualifica come
forma di governo o come tecnica formale.
Ormai è evidente come la risposta alla domanda che ci siamo
posti in questa prima parte dell’elaborato non sia semplice da
trovare; il significante democrazia rimanda a una pluralità di
significati afferenti a diverse discipline. La ricerca del significato
diventa un processo di sintesi tra diversi piani concettuali: essa si
definisce in rapporto sincretico a teorie di diversa provenienza; è
quasi più facile cercare di definirla per quello che non è, cosa
che fanno quasi tutti gli autori novecenteschi; per esempio,
all’autocrazia in cui i più sono sottoposti a un’autorità che li
domina in senso trascendente, si oppone la democrazia in cui
vige il «governo di tutti su tutti» 7
.
Un’altra difficoltà incontra chi si interroga su questo concetto:
come già anticipato, il nostro essere cittadini di uno stato
5
Cfr. G.Zagrebelsky, Imparare democrazia, cit., p. 3.
6
N. Abbagnano, Dizionario di filosofia , edizione a cura di G.Fornero, De Agostini,
Novara 2006, p. 533.
7
G. Zagrebelsky, Il «Crucifige! » e la democrazia , in G. Zagrebelsky, op. cit., p.131.
democratico e occidentale ci rende quasi “assuefatti” a tale idea,
al punto di impedirci di coglierne principi e meccanismi.
Soprattutto, come ogni parola che si riferisce alla politica,
intrattiene un certo rapporto con il potere come mezzo, o in sé 8
: il
rischio è che il concetto originario sia stato piegato – quindi
snaturato – lasciando spazio ad una concezione più favorevole
alla realpolitik contingente. Essendo la politica fatta di parole,
perché è una pratica eminentemente discorsiva 9
, ciò lascia
ipotizzare che in determinati contesti possano venir usati dei
termini tradendone consapevolmente il senso, pur di legittimare
quel determinato modo di fare politica, altrimenti sgradito 10
.
Queste evidenti difficoltà nel giungere a una comprensione
consapevole di tale concetto sono i motivi che spingono, oggi
come ieri, ad andare oltre il semplice linguaggio politico
contingente, per ricercare nell’ ideologia democratica quei
principi dimenticati o disattesi. Ormai è chiaro come una risposta
al quesito non possa prescindere da una trattazione storica, che ci
permetta di comporre l’oggetto teorico come una somma sintetica
di diversi principi.
Enunciato uno dei metodi per dirimere il problema – cioè quello
storico-genetico – bisogna fare una precisazione su cosa
significhi assumere un punto di vista filosofico-politico e, in base
a questo, giustificare la scelta di rifarsi principalmente alla
8
Cfr. M. Weber, La politica come professione (1919), trad. it. Armando, Roma 1997, p. 33.
9
Per una concezione di politica subordinata e/o connaturata a una pratica ed un’etica
discorsiva J. Habermas , Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e
della democrazia (1992), trad. it. Guerini e Associati, Milano 1996.
1 0
Problematiche che verranno ampiamente dibattute nella seconda parte di questo
elaborato.
trattazione degli autori già citati nell’introduzione. La filosofia-
politica è infatti meta-politica, nel senso di una riflessione
orientativa a priori del puro agire politico; quest’ultimo, preso in
sé, uscirebbe da tale dominio per entrare in quello della scienza
politica. Kelsen (ma anche Bobbio e Zagrebelsky), che si
considera paradossalmente uno scienziato del diritto, quando in
realtà «le sue tesi sono discusse soprattutto da filosofi politici e
storici delle dottrine politiche» 12
, rende evidente la tensione tra
ideologia democratica e democrazia reale:
L’essenza della democrazia non si può comprendere che tenendo
presente l’antitesi ideologia e realtà […]. Molti malintesi vengono
originati dal fatto che c’è chi parla soltanto dell’idea e chi soltanto
della realtà del fenomeno mentre bisognerebbe tener raffrontati questi
due elementi, considerando la realtà alla luce dell’ideologia che la
domina, l’ideologia dal punto di vista della realtà che la sostiene.
13
Tale tensione non viene mai sciolta lungo tutta la trattazione:
viene piuttosto esaltata, in quanto i due estremi si presuppongono
a vicenda e, anzi, l’ideologia democratica serve sia come insieme
di principi guida – o «regole del gioco», per dirla con Bobbio 14
–
sia come velo dietro cui nascondere i limiti dell’applicazione
pratica di quegli stessi ideali essenziali nella democrazia reale.
Ebbene, proprio in questa tensione si coglie simbolicamente
l’essenza della filosofia politica: il suo essere in bilico tra
riflessione ideale normativa e gioco politico reale; tra dover
essere ed essere della politica. Tutto ciò si legge proprio nelle
pagine di questi autori, ragione per cui, sono tra i più
12
M. Barberis nell’introduzione a H. Kelsen, La democrazia , il Mulino, Bologna 1998.
13
H. Kelsen, L’essenza della democrazia , in H. Kelsen, La democrazia , cit., p. 57.
14
Bobbio, Matteucci, Pasquino, op. cit., p. 241.
rappresentativi per ricercare il senso filosofico-politico della
democrazia.
I .4 Che cos’è, oggi, la democrazia?
È un processo culturale che ha il suo termine contingente in
quella sintesi novecentesca esemplarmente rappresentata da
Kelsen.
È un metodo per la creazione di un ordine sociale a cui
partecipano coloro che appartengono di fatto a tale ordine;
ovvero un metodo che, nonostante tutte le mediazioni reali
considerate da Kelsen, riconduca le decisioni politiche alla
volontà del cittadino (anche promovendo referendum, leggi di
iniziativa popolare e un consociativismo a partire dalla base
popolare più ampia possibile). Tutto ciò attraverso una procedura
che rispetti quelle che Bobbio chiama le «regole del gioco»:
garanzia dei diritti liberali essenziali, suffragio universale,
elezioni frequenti del massimo organo legislativo attraverso la
possibilità di scelte reali (no a liste bloccate ed uniche),
applicazione del principio di maggioranza-minoranza che tuteli la
minoranza dandole la possibilità di diventare maggioranza,
organi e cariche di garanzia (presidenti, corti costituzionali,
giudiziario indipendente). A partire da queste regole si
sviluppano diversi possibili regimi democratici a seconda di
come esse vengano rispettate – democrazia parlamentare o
presidenziale o consociativista e così via.
Ma l’essenza non cambia, si tratta sempre e solo di regole sul
come decidere: infatti la democrazia garantisce la libertà in
quanto è un metodo di scelta che di per sé non ha alcun contenuto
sostanziale. Come si era scritto prima, permette alla comunità di
avvicinarsi al concetto naturale di libertà, garantendo alla
maggioranza degli individui, pur nell’ambito sociale, di scegliere
come vivere .
È, per riprendere Zagrebelsky, un paradigma che non può
prescindere da un «ethos» e che deve innalzare a sua esigenza
etica – in realtà esigenza intrinsecamente umana – di non
presumere di possedere la verità ma «che nemmeno ne consideri
insensata la ricerca», «un’esigenza che soltanto lo spirito
radicalmente scettico potrebbe negare, in nome di una tentazione
assolutistica rovesciata. Solo per il pensiero della possibilità, la
democrazia, oltre che un mezzo, può anche essere un fine e
perciò, oltre che servire, deve anche essere servita».
2 2
2 2
Ivi , p. 126.
Parte seconda È POSSIBILE ESPORTARE LA DEMOCRAZIA?
II. 1. Democrazia ed esportazione: impostazione del problema Nella prima parte si è venuti definendo il concetto filosofico-
politico di ‘democrazia’. La particolarità di questo paradigma
complesso è di avere una validità anche operativa (o perlomeno
orientativa): ci permette di distinguere tra stati democratici e non;
ma soprattutto tra democrazie “vere” e pseudo-democrazie.
Quest’ultime sono democrazie incompiute e possono essere, o
semplici democrazie elettorali in cui i cittadini al momento del
voto non «siano posti di fronte ad alternative reali e [non] siano
messi in condizione di poter scegliere tra l’una e l’altra » 1
, o
democrazie solo procedurali, prive quindi di un ethos informante
gli attori democratici e dell’orizzonte culturale cui tendere –
quegli ideali, o meglio quei diritti, di cui si è ampiamente trattato.
Per esemplificare, democrazie del primo tipo sono quella
iraniana, in cui i candidati alle elezioni sono scelti dalle autorità
religiose (così come tutti gli stati in cui il sistema politico sia
monopartitico); ma anche tutte le democrazie non liberali in cui
mancando la libertà di parola – quindi di critica – e di
associazione, la scelta al momento del voto è di fatto pre-
condizionata anche in assenza di pressioni intimidatorie vere e
1
N. Bobbio, Il futuro della democrazia , Einaudi, Torino 1994, p. 6.
proprie. Invece sono del secondo tipo, ad esempio, quella
giapponese e in generale quelle asiatiche, in cui nonostante
l’applicazione di procedure formali non si può dire che la
popolazione aderisca allo spirito della democrazia 2
; essa
concentra infatti il suo voto ai partiti storici, poiché ancora
influenzata da paradigmi culturali che preferiscono la tradizione
al progresso, l’omogeneità all’eterogeneità, la costanza
all’alternanza 3
.
La tesi che qui si vuole dibattere è la compatibilità filosofico-
politica tra la definizione tracciata nella prima parte e
‘l’esportazione’ di tale paradigma.
II .1.2. Esportazione e democratizzazione
Prima di entrare nel vivo del dibattito occorrono ancora delle
premesse: innanzitutto bisogna chiarire l’orizzonte semantico del
problema. Infatti ‘esportare’ è una parola che fa parte del
linguaggio ristretto delle discipline economiche e commerciali e
il suo uso in relazione alla parola ‘democrazia’ è tutt’altro che
scontato. Risulta anche questa volta imprescindibile un’analisi
linguistica dell’espressione in questione.
Il primo e più immediato significato di ‘esportare’ è «mandare
qualcosa all’estero per farne commercio »; ‘ l’esportazione ’ è
quindi «la vendita all’estero di merci». Continuando si legge
anche «in senso figurato diffusione in un paese straniero: e. di
2
Cfr. G. Zagrebelsky, op. cit., p. 39.
3
Esempi che verranno trattati nelle conclusioni.
idee» 4
. Quest’ultima definizione appare però poco utile: non
parla del chi e del come.
La prima e più importante caratteristica dell’esportazione di
merci è il movimento di queste da una nazione ad un’altra; questo
è confermato dall’etimologia latina della parola: «composta della
particella EX- fuori di e PORTARE portare » 5
. Le altre due
caratteristiche sono: che ci sia un soggetto che di fatto agisca e
che ciò sia in ragione della possibile richiesta di tali merci nel
paese straniero. Attraverso l’esportazione dell’oggetto-merce si
delinea la relazione tra due soggetti: il venditore e il compratore.
Anche se la democrazia è un oggetto teorico e non una merce, il
senso è simile: un soggetto vuole portarla in un paese straniero e
ivi trapiantarla.
L’espressione in questi termini, proprio per il suo essere presa in
prestito da un altro linguaggio tecnico, non è stata sempre usata
nell’accezione in cui la si intende ora. Anzi, essendo di utilizzo
piuttosto recente, è giusto tracciare una storia di massima di
questa idea, che ci aiuterà a diradarne alcuni tratti poco chiari.
Tale formula linguistica nasce in ambito accademico all’inizio
degli anni ’90, dopo la caduta del muro di Berlino e con la
dissoluzione del blocco Sovietico che sembrava sfociare in una
rapida democratizzazione di diversi paesi dell’est europeo.
Exporting democracy è il titolo di un libro dello scienziato
politico Joshua Muravchick 6
del 1991, nel quale egli lega la
4
T. De Mauro, op. cit ..
5
O. Pianigiani, Vocabolario Etimologico della Lingua italiana , Polaris, Genova 1993.
6
J. Muravchik, Exporting Democracy: Fulfilling America's Destiny , AEI Press, 1991.
stabilità dell’ordine mondiale non più bipolare e degli Stati Uniti
alla sconfitta della tirannia. In esso affermava che «è quindi il
principio della democrazia che va esportato » perché «la
democrazia ha il potere di influenzare per il meglio il
comportamento degli stati nello scenario internazionale».
Un’idea poi sviluppata da diversi think-tank conservatori
americani – quelli che oggi vengono chiamati neo-con. Nello
Statement of Principles del 1997 della fondazione Project for the
New American Century si legge 7
:
Nostro intento è ricordare agli americani queste lezioni per
evidenziare le cose che necessitano oggi , e sono quattro:
1. dobbiamo incrementare significativamente le spese per la difesa per
adempiere alle responsabilità globali di oggi e modernizzare le nostre forze
armate per il futuro 2. dobbiamo rafforzare i legami con alleati democratici per sfidare i
regimi ostili ai nostri interessi e valori 3. dobbiamo promuovere all’estero la causa della liberta politica ed
economica 4. dobbiamo accettare la responsabilità del ruolo esclusivo
dell’America di preservare e portare avanti un ordine internazionale
favorevole alla nostra sicurezza, alla nostra prosperità e ai nostri principi.
Tale politica reganiana della forza militare e della chiarezza morale
può non essere attrattiva oggi, ma è necessaria se gli USA vogliono
costruire sui successi del secolo scorso e assicurare la sicurezza e la
loro grandezza in quello prossimo.
In una loro lettera aperta alla Nato e alla CE si legge ancora più
chiaramente che «l’Occidente sta spingendo per un cambiamento
democratico in giro per il mondo ».
7
I passi riportati sono liberamente tradotti da www.newamericancentury.org su cui si
possono trovare tutti gli altri documenti redatti dalla fondazione. In essa sono presenti
politologi tra cui F. Fukuyama di cui si parlerà diffusamente più avanti, e anche lo stesso
J. Muravchick. Presenti anche molti politici che poi hanno fatto parte
dell’amministrazione Bush, tra cui D. Cheney e D. Rumsfeld.
Il tema dell’esportazione della democrazia, in queste elaborazioni
politiche, si collega paradossalmente alla politica di potenza.
Ma o ggi l’espressione si è guadagnata gli onori della cronaca,
uscendo dal puro ambito del dibattito politologico, dopo che
G.W.Bush l’ha fatta sua in diversi discorsi pubblici e ha attuato
una politica molto simile a quella proposta nei quattro punti di
cui sopra nello scenario mediorientale, in particolare in
Afghanistan e Iraq. Ad esempio nel suo discorso sulla sicurezza
nazionale nel settembre 2002, afferma che «lavoreremo per
portare la speranza della democrazia, lo sviluppo, e il mercato
libero in ogni angolo del globo». Una politica poi ribadita nel
discorso al National Endowment for Democracy nel 6 novembre
2003
8
a riguardo appunto del progetto di esportare la democrazia
nell’Iraq, ormai libero da Saddam Hussein.
Nell’ambito della scienza politica, questo tipo di azione rientra
tra i fenomeni di democratizzazione, studiati lungo tutto il XX
sec.. Si deve perciò fare un passo indietro ed evidenziare le
peculiarità specifiche dell’idea odierna di e. della democrazia,
all’interno della classe macroscopica della democratizzazione.
Quest’ultima «è un processo politico complesso, articolato in fasi
distinte, che ha inizio con la crisi di un sistema autoritario […]
che può sfociare nella comparsa di una nuova democrazia» 9
. Uno
dei massimi studiosi di questo processo nelle sue
8
Il discorso si può leggere su http://www.ned.org/events/anniversary/20thAniv-Bush.html
9
Voce Democratizzazione, D. Grassi in Il dizionario di politica, cit. , a cura di N. Bobbio,
N. Matteucci, G. Pasquino, p. 232.
caratterizzazioni più recenti è S. Huntington 10
: egli individua,
infatti, un lungo processo di democratizzazione su scala
planetaria partito nel 1974 con la deposizione del dittatore
portoghese Caetano e ancora in corso nell’anno in cui scriveva, il
1993. Considera i fenomeni di democratizzazione operanti per
«ondate», ovvero «una serie di passaggi da regimi autoritari [e/o
totalitari, che preferisce differenziare dalle autocrazie più
tradizionali] a regimi democratici, concentrati in un periodo di
tempo in cui il numero dei passaggi nella direzione opposta […]
è significativamente inferiore» 11
. Nel mondo moderno ne
identifica tre, di cui le prime due seguite da una ondata di
«riflusso» 12
. La prima ondata lunga abbraccia quasi un secolo, dal
1828 al 1926 e «trova le sue radici nelle rivoluzioni francese e
americana» 13
. Proprio quando la fede nel progresso sociale viene
a coincidere con il diffondersi spontaneo e universale della
democrazia 14
, per la quale si era combattuto durante la I Guerra
Mondiale, si manifesta la prima ondata di riflusso (1922-1942):
caratterizzata soprattutto dal diffondersi di un nuovo tipo di
regime autocratico, i totalitarismi 15
. Una diffusione su larga scala
1 0
da qui in avanti ci si baserà e si citerà da S. Huntington, La terza ondata. I processi di
democratizzazione alla fine del XX secolo , Il Mulino, Bologna 1995.
11
S. Huntington, op. cit ., p. 36.
12
Ivi , p. 38 (in particolare vedasi schema).
13
Cfr. ibidem .
1 4
Huntington considera J. Bryce in Modern Democracies , New Yoirk, Macmillan 1921,
p.24 il primo propugnatore di questa teoria sulla legittimità naturale della democrazia.
1 5
Per una definizione che evidenzi le differenze tra i due regimi, si ripropone qui quella di
Huntington in op. cit., pp. 34-35: «i primi [i totalitarismi] sono contraddistinti dai
seguenti elementi: presenza di un unico partito guidato solitamente da un solo uomo; una
polizia segreta potente e capillare; un’ideologia forte e tesa a disegnare una società ideale
[…]; penetrazione e controllo governativo sui mezzi di comunicazione e su gran parte
delle organizzazioni sociali ed economiche. Un sistema autoritario tradizionale invece si
basa sulla presenza di un unico leader o di una ristretta oligarchia, sull’assenza di partiti o
su partiti deboli, sulla mancanza di mobilitazione di massa, opta per una mentalità
di regimi autocratici e movimenti anti-democratici causata
soprattutto «dall’alienazione degli anni venti e dalla depressione
economica della decade seguente» 16
.
La seconda ondata, corta, (1943-1962) si fa strada in seguito alla
vittoria alleata della II Guerra mondiale, con cui l’America
vincitrice pone tra le condizioni l’instaurarsi di democrazie sul
suolo europeo in chiave anti-comunista; ma si fa strada anche
grazie alla «fine del colonialismo occidentale» 17
che ha portato
allo sviluppo spontaneo della democrazia nelle ex.colonie,
dovuto soprattutto all’influenza culturale della passata
dominazione. L’ondata di riflusso successiva (1958-1975)
investe principalmente l’America Latina e il sud-est asiatico e si
caratterizza per un ritorno dei regimi autocratici tradizionali, per
lo più in seguito a colpi di stato dei militari. La terza ondata,
quella iniziata nel 1974, sembra arrestarsi, secondo Panebianco 18
,
nel 1993. Anzi afferma che «in coerenza con la teoria di
Huntington, secondo la quale ad ogni ondata di
democratizzazione segue [con molta probabilità] un riflusso» a
metà degli anni ’90 la situazione si è invertita e «le fragili
istituzioni democratiche crollano sotto i colpi della violenza
interetnica […] e lasciano il passo a nuovi regimi autoritari». In
realtà anche lo stesso Huntington considera chiusa la terza ondata
piuttosto che per una vera e propria ideologia, si affida […] ad un pluralismo limitato e
non effettua alcun tentativo per riformare la società […]. » 16
S. Huntington, op. cit ., p. 40.
17
Ivi , p. 41.
1 8
A. Panebianco, Guerrieri Democratici. Le democrazie e la politica di potenza , Il
Mulino, Bologna 1997, 266 e ssg.