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INTRODUZIONE
«Il suicidio ci appare come l'azione più personale che un individuo possa compiere e
che viene a configurarsi come una dura sfida al mondo che lo circonda. Ad un certo
momento della sua storia l'uomo scoprì che oltre a poter uccidere i suoi simili e gli
animali aveva la possibilità di uccidere se stesso: da quel momento l'atteggiamento che
egli ebbe nei confronti della morte e della vita non fu più lo stesso. Non si saprà mai
quale fu tra gli uomini antichi colui che nella notte dei tempi comprese (ed eseguì) di
poter porre fine alla sua vita di propria mano, né le motivazioni che lo spinsero ad un
gesto così definitivo, resta il fatto che il suicidio è presente da sempre nelle società e
nella mitologia antica».
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La parola "suicidio", nonostante derivi dal latino, non era conosciuta nel periodo della
Roma classica, né nei secoli successivi, ma iniziò ad essere utilizzata intorno alla metà
del seicento in Inghilterra, proprio nel momento in cui stava cambiando l’atteggiamento
della società nei confronti di questo atto.
In Francia, in Spagna, in Italia e in Portogallo apparve solo dopo il 1734.
Infatti, la parola suicidio sarebbe stata usata per la prima volta dall’abate Desfontaines
nel 1737, scrivendo un articolo per la Grande Enciclopédie, e fu ripresa in seguito dagli
enciclopedisti.
Prima di allora, nelle diverse lingue europee, si usavano espressioni quali "procurarsi la
morte", "cadere di propria mano", e l’uccisione di se stessi non era differente
dall’uccisione di un altro (uccisione di se medesimo).
1
www.neurolinguistic.com, dalla rivista "ATTUALITA' in PSICOLOGIA", vol 6, n 4,1991, EUR
editore.
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Il termine suicidio viene dal latino sui che significa "di se stesso", e da cida che
significa "uccidere".
La definizione di suicidio contenuta nell'espressione "uccisore di se stesso" delimita
bene l'accadere degli eventi suicidari in rapporto alla persona, eliminandone ogni
riferimento ambiguo relativo sia all'omicidio che all'eventuale accidentalità della morte .
Mentre l’etimologia della parola è univoca, non esiste omogeneità tra gli studiosi per
ciò che concerne i moventi ideali o inconsci (od anche consci) del suicidio poiché ogni
indirizzo di studio ci offre la sua definizione di suicidio.
Il suicidio è un fenomeno - e un problema allo stesso tempo – che necessita di un
approccio assolutamente interdisciplinare e tutti gli studi che sono stati effettuati nel
corso del secolo hanno portato alla formazione, in relazione ad esso, di una vastissima
letteratura sugli aspetti medico-legali, psicologici, psichiatrici, sociologici,
criminologici e giuridici.
«Lo studio del suicidio, infatti, si è avvalso di un duplice paradigma: da una parte il
paradigma personologico, di derivazione psicoanalitica e antropofenomenica, che,
partendo dalla concezione del suicidio come "atto insano", ha contribuito a svelarne
dinamiche e significati, dall'altra il paradigma sociologico, che ha considerato le
manifestazioni umane come parte di un più vasto sistema culturale e socioeconomico».
2
Quindi si dovette attendere il XIX secolo, avido di conoscenze scientifiche, perché il
suo studio venisse realmente affrontato.
Numerose sono le variabili psicologiche e sociali che possono essere considerate fattori
di rischio suicidario.
2
www.salus.it/psichiatria/index, Francesco Giubbolini, psichiatra, Il fenomeno suicidio: fattori
psicopatologici e sociali, Rivista "Psichiatria e Medicina", Anno VI, 1, 1992.
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Ad ogni modo una definizione di suicidio può valere unicamente agli scopi prefissati
dall’indagine che si intende intraprendere e sarà di conseguenza diversa a seconda che il
fenomeno venga affrontato prevalentemente sotto il suo aspetto sociologico, statistico,
religioso, psichiatrico, giuridico, medico.
Nel linguaggio comune per suicidio s’intende l’atto con cui ci si dà la morte di propria
volontà.
Secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), invece, è un atto con un esito
fatale pianificato e realizzato dalla stessa persona deceduta con l’obiettivo di produrre i
cambiamenti desiderati.
Parlando di tale fenomeno non si può non citare Émile Durkheim (Epinal 1858 – Parigi
1917) fondatore della scuola sociologica francese, psicologo sociale ed etnologo, che
considerò il suicidio come un fenomeno sociale. Per la prima volta le cause del suicidio
iniziano ad essere ricercate fuori dall’individuo e nella società. Tra le sue opere
fondamentali, "La divisione del lavoro sociale" (1893), "Le regole del metodo
sociologico" (1895), "Le forme elementari della vita religiosa" (1912), e ovviamente "Il
suicidio" (1897).
É. Durkheim rilevò come la mancanza d’integrazione degli individui nella società fosse
una delle cause fondamentali del suicidio; studiò il problema dal punto di vista sociale e
segnò una svolta non solo per la filosofia, ma anche per la psicoanalisi e la biologia.
Tramite ricerche sociologiche e statistiche ci ha aiutato a capire il fenomeno forse più
misterioso e inesplicabile dell’aggressività umana. Egli definisce il suicidio «ogni caso
di morte direttamente o indirettamente risultante da un atto positivo o negativo
compiuto dalla stessa vittima pienamente consapevole di produrre questo risultato»
(1897, trad. it. 1969, 63). Per il sociologo francese, quindi, «la morte non è solo
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prodotta da un atto di violenza contro se stessi (spararsi), ma anche da una semplice
astensione (rifiutare di nutrirsi)».
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Numerose sono state le critiche mosse a Durkheim ma allo stesso tempo le sue
pioneristiche e fondamentali ricerche hanno aperto vasti ambiti di studi.
Più adeguata appare la definizione proposta da Giuseppe Masi alla voce Suicidio
dell’Enciclopedia Filosofica curata nel 1979: «In senso stretto, è l’atto con cui un
individuo procura a sé volontariamente la morte».
Tuttavia è fondamentale lo studio dei correlati "psicopatologici" e "psicosociali" del
suicidio poiché può consentire l'individuazione di dinamiche comuni alla maggior parte
dei suicidi e, di conseguenza, costituire un valido approccio tendente alla prevenzione
del suicidio stesso.
La mia tesi si sviluppa in cinque capitoli e affronta specificamente il fenomeno del
suicidio tra i giovani nei suoi aspetti epidemiologici e psicosociali. L’attenzione è
centrata maggiormente sul profilo sociale ed educativo, alle funzioni dei servizi sociali e
dell’assistente sociale che cerco di spiegare soprattutto nel capitolo finale. Purtroppo
non vi è una vasta letteratura su quest’ultima questione, è una materia giovane che ha
bisogno di essere ampliata e diffusa non solo tra gli esperti ma anche tra la gente, come
cultura mentale, per cui cerco di chiarire le essenziali funzioni e competenze
dell’assistente sociale come ruolo chiave nella prevenzione e nella gestione del suicidio.
La prima parte è dedicata alla storia, dunque alla considerazione del fenomeno presso i
popoli antichi, nel mondo greco e romano, nelle civiltà orientali, nel cristianesimo e
nelle consuetudini medioevali, nella società moderna ed infine approfondisco il
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M. Barbagli, A. Colombo, E. Savona, "Sociologia della devianza", Bologna, Il Mulino, 2003, p. 45.
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passaggio dalla religione alla morale, per quanto riguarda sempre tale gesto fatale, alla
sociologia e alla psicologia.
Il secondo capitolo è riservato al pensiero sociologico di Émile Durkheim, alla sua
sociologia generale, alla divisione sociale del lavoro, ovviamente alla teoria del suicidio
definito nelle sue tre forme ovvero egoistico, altruistico e anomico. In seguito sviluppo
il riferimento alla violenza e al potere, analizzo il suicidio su tre livelli dalle
interpretazioni che sono state fatte da Durkheim fino ad oggi, ossia il livello
sovrastrutturale (ideologie, religioni, etc.), strutturale (classi, comunità, etc.) e
sottostrutturale (situazioni psichiche individuali e collettive).
In conclusione analizzo le moderne verifiche sulla teoria del sociologo francese e ciò
che è stato prodotto sulla sociologia del suicidio dopo Durkheim.
La parte centrale è rivolta all’indagine del suicidio tra i giovani, in particolare esamino
la nascita della suicidologia, le caratteristiche del suicidio, ancora espongo i dati
epidemiologici inquadrando la situazione italiana per le varie fasce di età, oltre che, in
generale, quella europea ed internazionale. Successivamente tratto i fattori di rischio per
i giovani e gli elementi predisponesti e precipitanti che aggravano ulteriormente la
potenzialità del gesto soppressivo.
Il penultimo capitolo è destinato alla problematica del disagio giovanile. Indirizzo la
mia tesi al tema dell’adolescenza dal punto di vista fisiologico e disadattivo, tento di
spiegare i motivi, ma non in modo definitivo come sostengo nell’evoluzione del mio
elaborato, che spingono un giovane a farsi del male; quindi parlo delle cause familiari,
psicologiche, socioculturali, degli eventi scatenanti, della depressione e dei disturbi
mentali, dell’abuso di sostanze stupefacenti e della comprensione del concetto di morte
fin dalla nascita. Conseguentemente argomento l’effetto Werther, cioè il romanzo che
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fece il giro del mondo, appunto ″I dolori del giovane Werther″ di J. W. Goethe, in cui il
protagonista si toglie la vita e in seguito al quale si verificò un aumento di suicidi in
tutta Europa; altresì parlo del ruolo imitativo e dell’influenza esercitata dai mezzi di
comunicazione di massa sulla popolazione. Inoltre espongo il disagio giovanile e il
ruolo essenziale dei servizi sociali per quanto riguarda la prevenzione e l’assistenza
valida da somministrare in favore dei giovani disagiati. Infatti presento un esempio
concreto in merito alle risposte che può offrire il servizio sociale nella prevenzione del
disagio.
L’ultimo capitolo è diretto all’importante materia della prevenzione, in particolare alle
funzioni e alle competenze dell’assistente sociale, quale agente del cambiamento.
Discuto il ruolo della collettività nella prevenzione in quanto è un’attività che riguarda
tutti, non esclusivamente lo stato, la regione, l’ente locale ma l’intera cittadinanza,
anche se non specializzata. Proseguo con il counseling, dunque con quello che può dare
l’assistente sociale rivestendo la figura di counselor. Descrivo la Giornata Mondiale di
Prevenzione del Suicidio che ormai si tiene da qualche anno e ha una forte rilevanza
sociale e scientifica; dunque analizzo le iniziative per educare la popolazione e
migliorare la prevenzione e i programmi nazionali e locali di prevenzione del suicidio
esposti dalla IASP, l’Associazione Internazionale per la Prevenzione del Suicidio e
dalla OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il mio percorso continua con la
presentazione dei modelli di prevenzione e dei sistemi di aiuto forniti ai giovani che
tentano il suicidio. Chiaramente disamino, nel paragrafo successivo, il significato della
prevenzione primaria, secondaria e terziaria e ciò che accade con precisione nei tre stadi
suddetti. Da ultimo, oltre che illustrare la parte giuridica, introduco alcune pagine del
diario di un giovane suicida, che aprono un’importante riflessione tra i tecnici,
l’ambiente circostante del soggetto e la gente comune.
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CAPITOLO 1:
IL SUICIDIO NELLA STORIA
1.1 Il suicidio presso i popoli antichi
In ogni tempo gli uomini hanno cercato di esercitare su se stessi il diritto di vita e di
morte.
Il suicidio è un fenomeno presente nelle varie epoche e nelle varie culture.
Esso, però, è stato ed è percepito in diversi modi, in riferimento soprattutto al suo
significato, al suo valore positivo o negativo, al suo statuto sociale e alla sua liceità o
non liceità.
Dal punto di vista storico il fenomeno suicidario ha registrato, in luoghi e regioni
diverse, valutazioni ed interpretazioni differenti, con reazioni alternativamente di
riprovazione o accettazione da parte delle società di appartenenza.
«L‟antropologia culturale afferma che il suicidio in molte civiltà era una pratica
istituzionale o addirittura obbligatoria. La motivazione di fondo era quella di seguire
una persona cara o comunque importante, per poter continuare ad amarla e accudirla
ma anche perché la vita non poteva continuare per chi restava solo. Ad esempio in
Giappone il suicidio dei vassalli per seguire il signore defunto era praticato fino al
secolo XVIII. Quando la motivazione principale era rappresentata dall‟odio in alcune
tribù primitive il suicidio era compiuto al fine di ottenere vendetta per un‟offesa subita;
tale gesto era supportato dalla credenza che il fantasma del suicida avrebbe annientato,
perseguitandolo, colui che lo aveva offeso o avrebbe vincolato i congiunti a compiere la
vendetta in vece sua. La ricerca dell‟onore era, invece, una caratteristica delle
popolazioni scandinave o meglio era un concetto condiviso presso questi popoli tanto
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che si poneva alla base dell‟organizzazione delle società guerriere; solo chi subiva una
morte violenta poteva accedere al banchetto degli eroi presieduto dal Dio Odino, il
quale rappresenta la principale divinità del mito scandinavo e dei miti dei popoli del
Nord. Come dio guerriero raduna gli eroi morti in battaglia nel Valhalla, gli einherjar,
presiedendo al loro banchetto. Odino guiderà gli dèi e gli uomini contro le forze del
caos nell'ultima battaglia, quando giungerà il Ragnarök, la fine del mondo, nel quale il
dio sarà ucciso, per essere immediatamente vendicato dal figlio».
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Secondo la leggenda Odino sarebbe stato in realtà un grande guerriero che dopo mille
grandi battaglie e vittorie, vistosi sconfitto, preferì darsi la morte davanti ai suoi fidi,
annunciando che stava per prendere il suo posto al fianco degli dei nel Valhàlla.
Negli anni più recenti e anche in periodi attuali, suicidi abbastanza simili si verificano in
alcune società come quelle islamiche, anch‟esse di tipo guerriero e con l‟idealizzazione
della morte in guerra. Esse praticano il suicidio per attaccare l‟avversario.
1.2 Il suicidio nel mondo greco
La concezione del suicidio come delitto è una concezione relativamente tarda delle
società cristiane. Infatti né il Vecchio né il Nuovo Testamento, che ne citano alcuni
esempi, lo condannano in modo esplicito.
Nella mitologia, nella storia e nella letteratura greca il suicidio non è vissuto come una
colpa.
L‟atteggiamento dei filosofi greci sul problema del suicidio, anche se caratterizzato da
diversi punti di vista, è equilibrato e razionale. I pitagorici lo rifiutavano, Aristotele lo
giudicava un atto di irresponsabilità sociale e di viltà. Egli definiva il suicida come un
4
A. M. Pandolfi, Il suicidio (Voglia di vivere, voglia di morire), Milano, FrancoAngeli, 2000, pp. 12 –
13, [C.f.r…].
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uomo che commette un crimine verso la società, la polis. Il filosofo, elogiando le virtù
del coraggio, sosteneva che un vero uomo non può scegliere di morire per evitare
povertà o situazioni dolorose. Chi sceglie la via più semplice è semplicemente un vile.
Platone, maestro di Aristotele, pur essendo contrario al suicidio, lo riteneva razionale e
giustificabile quando la vita era divenuta insopportabile. Tale posizione fu poi
ampiamente condivisa dagli stoici, i quali tenevano in scarsa considerazione la vita («si
esce dalla vita con tanta soddisfazione quanta da una stanza piena di fumo»
5
).
Gli stoici sostenevano le virtù dell'autocontrollo e del distacco dalle cose terrene come
mezzi per raggiungere l'integrità morale e intellettuale. Essi fecero dell'etica il campo
fondamentale della conoscenza, ma svilupparono anche teorie di logica e di fisica.
Nell'ideale stoico, è il dominio sulle passioni che permette allo spirito il raggiungimento
della saggezza.
Lo stoicismo, movimento filosofico fondato ad Atene nel 308 a.C., da Zenone di Cizio,
è forse uno degli esempi più noti di filosofia che accetta il suicidio e, anzi, in
determinate condizioni, lo descrive come un atto naturale. Seneca, una delle personalità
più importanti della scuola stoica, che ha chiuso la sua vita con un atto volontario
bevendo la celebre coppa di cicuta (sebbene dettato da Nerone, ma ricordiamo che uno
stoico non fa nulla contro il proprio volere), spiega in più punti della sua opera che lo
stoico, quando ritenga di aver compiuto la parte che il fato gli ha destinato, può decidere
di uscire dalla vita. Il suicidio, però, è ammesso non come fuga, ma solo quando il
proprio dovere è compiuto, e anche in questo caso è solo una libera scelta.
Nel III sec. d.C. Plotino, uno dei filosofi più influenti dell‟antichità, scrisse un trattato
riguardante il suicidio e criticò aspramente le posizioni dello stoicismo; riteneva infatti
5
P. Moron, Il suicidio, Milano, Garzanti, 1976, p. 8.
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necessario seguire il corso naturale della vita. Nella sua opera si legge: «Non ti toglierai
la vita, affinché l'anima non se ne vada». Il suicidio provoca un deterioramento
all'anima che viene cacciata di forza e in maniera innaturale.
Tuttavia lo stoicismo non era propriamente fautore del suicidio come lo era invece il
cinismo.
I cinici erano un gruppo di pensatori che seguivano l'insegnamento di Antistene di
Atene (IV° secolo a.C.) e si ispiravano alla filosofia di Socrate.
Anche per i cinici, come per tutti i socratici, l'obiettivo della vita era il raggiungimento
della virtù che si poteva raggiungere eliminando tutto il superfluo, che allontanava gli
uomini dalla vita vissuta in modo naturale. Quindi il saggio cinico cercava di vivere
seguendo l'esempio degli animali, e in special modo dei cani. L'incivilimento era
considerato dai cinici un allontanamento dalla vita naturale, motivo di corruzione
morale, fonte di male. Il cinico era prima di tutto un autarchico, cioè bastava a se stesso,
poneva al centro l'uomo (e se stesso) prima ancora della società.
Il filosofo greco Egesia di Cirene, soprannominato peisithanatos (colui che spinge alla
morte), faceva una così eloquente apologia del suicidio ai suoi discepoli che essi si
uccidevano dopo averlo ascoltato. Per Egesia, difatti, i piaceri della vita sono pochi,
molti i dolori, incerta è la conoscenza, e tutti gli eventi sono dominati dal caso. Non solo
dunque il fine supremo dell'uomo sarebbe l'indifferenza anche tra la vita e la morte, ma
la morte stessa sarebbe da considerare piacevole.
Gli scettici, che basavano le loro teorie sull‟analisi critica di quella conoscenza e di
quelle percezioni che in un certo momento vengono ritenute vere, e sulla questione della
possibilità di ottenere una conoscenza assolutamente vera, furono anch‟essi apostoli del
suicidio.
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Tale posizione della cultura greca trovava il suo riscontro giuridico nel fatto che i
magistrati tenevano un‟apposita scorta di veleno da consegnare a coloro che dopo aver
espresso pubblicamente le ragioni della loro scelta e aver ottenuto licenza dall‟autorità,
avevano il permesso di darsi la morte.
Nella realtà odierna una simile situazione si può ritrovare in quei gruppi che
propugnano il diritto all‟eutanasia o ″suicidio assistito″.
1.3 Il suicidio nel mondo romano
I romani, invece, avevano una posizione priva di paura e di avversione nei confronti del
suicidio visto come una libera scelta da attuarsi con ponderazione. La legge, infatti, non
prevedeva alcuna vendetta o sanzione per il suicidio o tentato suicidio, tranne per quegli
individui che non erano considerati liberi di decidere della propria vita come lo schiavo
o il soldato. Il primo in quanto apparteneva al padrone, il secondo in quanto apparteneva
allo stato. Il suicidio degli schiavi era frequente ma proibito e quanti scampavano
venivano severamente puniti, e analogamente avveniva per i soldati.
Tuttavia ognuno aveva il diritto di togliersi la vita in caso di sofferenze intollerabili.
I suicidi diventarono numerosi a Roma soprattutto nel periodo della decadenza
dell‟impero. «Ciò è dovuto all‟influenza dei filosofi (per Seneca, pensare alla morte è
pensare alla libertà) e di letterati come Lucano, nipote di Seneca, chiamato il ″poeta del
suicidio″, ma anche a ragioni politiche. I personaggi in vista caduti in disgrazia presso
l‟imperatore si suicidavano per sottrarre i propri beni alla cupidigia del tiranno.».
6
Lucano prese parte alla congiura di Pisone che mirava a uccidere l‟imperatore Nerone.
Il complotto fu scoperto e l‟imperatore eliminò tutti i suoi oppositori. Tra i congiurati fu
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Ibidem.
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costretto al suicidio anche lo stesso Lucano, nonostante gli fosse stata promessa
l‟immunità in cambio della denuncia della madre; da qui appunto ″poeta del suicidio″.
Seneca era favorevole al suicidio, infatti lui stesso si tolse la vita quando fu incolpato da
Nerone di aver partecipato alla congiura contro di lui.
Nel diritto romano la liceità o non del suicidio era basata su criteri essenzialmente
economici e non era considerata un‟offesa né alla morale né alla religione. Essi, difatti,
utilizzano il termine ″mors libera″, segnalando in tal modo l‟assoluta libertà è liceità
dell‟individuo a decidere della propria vita e quindi anche del momento in cui porvi
deliberatamente termine.
In Gallia e in Germania avvenivano moltissimi suicidi religiosi. I vecchi e le donne, per
vedere spalancarsi le porte del Walhalla (residenza dei morti gloriosamente in
battaglia), si suicidavano frequentemente; ci si uccideva tra amici alla fine dei banchetti.
Le vedove si sacrificavano sul corpo dello sposo defunto. I Galli spesso preferivano la
morte alla schiavitù degli invasori romani. I Visigoti quando invecchiavano si
precipitavano da una rupe, la Rupe degli antenati, per assicurarsi con tale atto di
coraggio l‟accesso al paradiso.
In Egitto si ricercava nella morte la liberazione. I fautori si riunivano persino in
associazioni, i cui membri cercavano i mezzi più piacevoli per morire.
1.4 Il suicidio nelle civiltà orientali
Nelle civiltà orientali il suicidio, fin dall‟antichità, ha spesso assunto aspetti di
religiosità e di ritualità che si sono mantenuti col passare del tempo fino ai secoli più
recenti e, in piccole aree geografiche, fino ai giorni nostri (si pensi ad esempio
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all‟annegamento nelle acque del Gange nella regione indiana o ai complessi cerimoniali
preparatori alla precipitazione in vulcani attivi).
In India, sotto l‟influenza del brahmanesimo, i saggi alla ricerca del nirvana (liberazione
da tutti i mali nel ″niente assoluto″) si toglievano la vita spesso nel corso di grandi feste
religiose. Nel Tibet e in Cina questa stessa dottrina si estese sotto l‟influsso del bhudda
Siddharta Gotama (563 a.C.).
Si distinguevano all‟epoca due tipi di suicidi (Moron, 1976): quello di chi cercava la
perfezione, e quello di chi fuggiva davanti al nemico.
Altro tipo di suicidio, condizionato da fattori culturali e sociali e inserito nelle tradizioni
del luogo era quello indotto da motivazioni economiche o di sopravvivenza.
In Giappone esisteva una forma di “erosione suicidaria” tragica e semileggendaria
secondo cui i vecchi venivano portati o si facevano condurre sui monti quando non
fossero stati più in grado di lavorare o di produrre nella nicchia di sopravvivenza del
villaggio. Altri popoli, quali gli eschimesi, gli antichi scandinavi, gli indiani Crow e gli
abitanti samoani non condannavano ma addirittura incoraggiavano la morte dei soggetti
più anziani o malati della comunità. Tali culture davano assenso al suicidio per
risparmiare le risorse di cibo della comunità, o per permettere alle società nomadi di
spostarsi senza essere intralciate dai membri anziani o malati.
Un‟altra importante motivazione al suicidio sembra essere stata nella cultura
dell‟estremo oriente la salvaguardia dell‟onore.
Mentre nelle culture occidentali il suicidio è considerato peccato o crimine contro la
società, nelle culture asiatiche esso sembra avere una connotazione diversa, legata
all‟onore di salvare la faccia e la propria famiglia dalla vergogna.