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INTRODUZIONE
Il calcio è uno sport che attira molte persone, di qualunque età, ma a volte si
trasforma in occasioni di violenza. Il calcio, sport che appassiona milioni d'italiani, è
diventato popolato di tifosi scalmanati che con i loro comportamenti deridono le forze
dell'ordine e le istituzioni. Le cronache delle partite, infatti, riportano episodi di
aggressione, scontri, lanci di petardi e di oggetti, con il rischio, purtroppo non raro, di
uccidere qualcuno. Perché tutto questo? Andare a vedere una partita di calcio vuol dire
andare a divertirsi e sperare che la propria squadra vinca, non andare a provocare risse. E'
giusto che gli spettatori manifestino entusiasmo per la propria squadra di calcio, ma tutto
ciò diventa negativo quando alcuni tifosi danno vita a vere e proprie risse solo perché
hanno ideali diversi rispetto agli altri.
Il tifo è uno scontro di fedi calcistiche, di amori irriducibili per la squadra, di
volontà di vincere, di imporre la propria identità personale e di gruppo. Fare tifo per gli
ultras è qualcosa di più di un gioco, non un semplice divertimento, ma un punto di vista
sulla vita. Gli ultras non si limitano ad assistere allo spettacolo, ma rivendicano il ruolo di
protagonisti. La ragione sociale non è solo quella di fare gruppo per sostenere la squadra,
ma soprattutto competere con i sostenitori avversari, sfidarli a chi prende in giro meglio e
più rumorosamente. I tifosi ultras sono attori di uno spettacolo parallelo a quello che si
sviluppa sul terreno di gioco: spettacolo di suoni, canti, bandiere, colori, folle ondeggianti,
ecc. Tale spettacolo non è sempre pacifico, però, spesso simbolicamente aggressivo,
violento e realmente distruttivo, infatti, vandalismi, risse e scontri tra opposte tifoserie e
forze dell'ordine (accompagnati spesso da feriti ed anche morti) sono diventati normali,
abituali, connaturati ai riti calcistici domenicali. I conflitti sociali e generazionali, i
contrasti di classe, la diversità di appartenenza di razza, di gruppo, di luogo, sembrano
proprio aver trovato negli stadi i luoghi deputati al loro scatenamento e al confronto diretto
(Lava, 2008, 17).
La consacrazione ufficiale dello sport è avvenuta per l'intervento massiccio dei
media, che l’hanno trasformato in fenomeno di massa. L'arena sportiva è interpretata come
campo di battaglia da parte delle frange radicali degli spettatori. Il calcio assume per loro
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significati di tipo simbolico e comunicativo, all'interno del quale l'aggressività diventa una
forma di lotta mimata e simulata. È un'occasione per sfogare emozioni aggressive, in cui
gli spettatori attivi formano un'organizzazione complessa che esprime partecipazione,
competizione, lotta.
Il calcio offre un terreno culturale ottimale alla messa in scena di uno specifico
modello associativo conflittuale e allo scatenamento delle tensioni di giovani e
giovanissimi.
I tifosi spesso sono descritti come psicopatici o criminali, tuttavia si tratta di
comuni individui, caratterizzati da passioni, e da uno spiccato senso dell’onore personale e
di gruppo.
Non si tratta né di barbari, né di pazzi né di alieni (per usare alcune espressioni che
più spesso ricorrono nelle pagine dei giornali) e neanche disperati, senza lavoro o senza
famiglia, come vorrebbe un comune stereotipo. Si tratta di ragazzi che, come ogni giovane,
durante la settimana lavorano e studiano in attesa di scatenarsi la domenica: il calcio è
visto quindi come occasione per evadere dal copione della quotidianità, per affermare
un’irriducibile alterità nei confronti della società rispettabile, dei valori sociali e sportivi
“medi”, dei “buoni” tifosi (Triani, 1994, 8).
La reputazione di un gruppo, cioè la cosa più importante per esso oltre alla fede per
la maglia, è nelle mani di ogni membro e ognuno deve avere estrema fiducia nei suoi
compagni in qualsiasi circostanza. Per guadagnare rispetto all’interno del gruppo ci vuole
costanza e dedizione. E’ un rispetto che è direttamente proporzionale ai meriti di ciascun
membro. Ora, è una cosa avere il rispetto da parte dei propri compagni, mentre un’altra è
averlo a livello nazionale e internazionale. Ogni gruppo vuole farsi conoscere dai gruppi
dei club avversari. E’ la questione del “farsi un nome”, solo dopo subentrerà la
reputazione. Senza il nome non si è nessuno. Uno striscione non conta se dietro non c’è
gente degna di credibilità (Patanè Garsia, 2004, 153).
Nei loro riti da stadio mescolano bisogni di identità e d’appartenenza, insieme a
motivi di sfida, divertimento ed euforia. Spesso è anche un modo per sfuggire alla noia e
per scaricare gli impulsi. Il tifo estremo rispecchia modelli culturali che valorizzano quindi
l’affermazione di sé attraverso l’aggressività competitiva.
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Con questo lavoro intendo approfondire anzitutto gli approcci teorici
dell’aggressività e le variabili che danno luogo al comportamento aggressivo, inoltre, il
mio intento è soprattutto quello di analizzare i modelli teorici, le cause sia a livello
psicologico, sia sociale, che spiegherebbero il fenomeno della violenza negli stadi,
indagare sulle dinamiche di gruppo, e sui rituali dei tifosi del calcio, e infine conoscere la
normativa attuale e quali potrebbero essere le eventuali possibilità per mitigare tali episodi.
La metodologia utilizzata nel presente lavoro, è di tipo descrittivo. La bibliografia,
di lingua italiana e inglese, fa riferimento prevalentemente a volumi di annate recenti e a
qualche articolo di rivista.
Il lavoro si compone in quattro capitoli. Il primo capitolo fa riferimento al
comportamento aggressivo in generale, illustrando i principali approcci teorici quali la
teoria di Freud, le variabili fisiologiche e sociali dell'aggressività, il ruolo della
frustrazione, e la prospettiva socio-interazionista, è spiegato il ruolo dell'attivazione
emozionale e la costruzione sociale dell'aggressività, ed infine vengono presentate le
diverse occasioni in cui tale comportamento avrà luogo: in gruppo, nelle varie situazioni di
vita quotidiana e nello sport.
Nel secondo capitolo, dopo aver delineato un excursus storico del fenomeno della
violenza negli stadi dagli anni Cinquanta del secolo scorso fino ai giorni nostri, trattiamo
alcuni modelli teorici che spiegherebbero tale fenomeno: il modello etologico, il modello
tassonomico, il quale descrive e classifica le manifestazioni aggressive dei tifosi, il
modello catartico, e il modello cognitivo-interattivo, il quale viene trattato con maggiore
ampiezza, illustrando i processi di identificazione dei tifosi, il ruolo della contro-inibizione,
e il rapporto tra schemi cognitivi e attivazione emozionale.
Il terzo capitolo approfondisce le diverse cause sottostanti all'aggressività dei tifosi:
quelle legate al controllo degli impulsi, alla frustrazione, all'insicurezza personale, e al
disagio giovanile, quelle culturali e socio-politiche e spiegherà i significati che il tifo
assume per questi individui. Fa riferimento, inoltre, alla connessione che il tifo aggressivo
e la trasgressione hanno con i problemi dell'identità rilevanti in alcuni strati giovanili, e
sicché si tratta maggiormente di individui maschi, viene visto come un modo per esprimere
la propria maschilità. Viene messo in luce, infine, il ruolo che assume il contesto spazio-
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temporale nel provocare comportamenti violenti, il quale spesso viene considerato dai
tifosi come un referente simbolico dell'identità.
Il quarto capitolo si concentra prevalentemente sulle dinamiche di gruppo,
evidenziando come l’essere tifosi va di pari passo con la coesione sociale e con la
solidarietà, e sui rituali che essi attuano, mostrando come il tifo è regolato da diverse
norme ed ha un proprio linguaggio. I gruppi di giovani tifosi, infatti, cercano allo stadio, in
maniera esplicita, le opportunità di sperimentare qualche forma di superiorità sugli altri, di
esperienza ludica e di forte attivazione emotiva. Questo capitolo, inoltre, fa riferimento al
comportamento di dominanza, evidenziando come esso non ha regole inibitorie, piuttosto
ha sempre un valore positivo secondo questi individui, in quanto “chi vince ha sempre
ragione”. Sono presentate, infine, alcune possibilità di gestione del fenomeno
dell'aggressività negli stadi, riferendosi alla normativa attuale e all'educazione al tifo non
aggressivo, in modo da sensibilizzare i tifosi nel rispetto di quelli appartenenti alla squadra
avversaria, affinché la partita possa diventare veramente un’occasione di svago, evitando il
più possibile le risse e gli scontri violenti.
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CAPITOLO I
IL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO
L’aggressività deve essere interpretata come un comportamento istintivo che fa
parte della natura animale o umana oppure è legata a fattori ambientali e motivazionali,
alla frustrazione, all’imitazione e all’apprendimento?
Sulla base delle teorie istintuali il comportamento aggressivo dovrebbe essere
qualcosa di spontaneo e una carica d’aggressività dovrebbe accumularsi lentamente
sull’organismo fino a raggiungere livelli-limite che permettano una scarica attraverso
un’azione aggressiva, quindi, se si trovano dei comportamenti che sostituiscono la
violenza, ad esempio gli sport competitivi, l’individuo può scaricare la sua energia
aggressiva in modo inoffensivo. Ma cosa accade se l’energia interna si accumula e aumenta
senza che un impulso specifico- alimentare, sessuale o aggressivo- possa essere liberato o
soddisfatto perché manca uno stimolo scatenante o perché l’attività specifica è ostacolata?
L’impulso aumenta fino a tali livelli che qualsiasi altro stimolo sostitutivo e non specifico
può determinare la sua scarica oppure, anche in assenza di stimoli dell’ambiente, si verifica
una liberazione dell’impulso (le cosiddette “attività a vuoto”) che porterebbero a delle
esplosioni aggressive (Oliverio Ferraris- Oliverio, 2002, 58).
In termini evoluzionistici, il significato di tale aggressività aspecifica sarebbe
funzionale, in quanto fornirebbe dei vantaggi connessi con il possesso del territorio,
sarebbe utile per la selezione sessuale, l'autoprotezione e la protezione dei figli. Tuttavia vi
sono fattori più importanti nella genesi dell'aggressività, quali l'emotività e quelle
situazioni ambientali che la sollecitano, in quanto un individuo emozionato o stressato è
generalmente più impulsivo o aggressivo. L'attivazione emotiva può suscitare differenti
tipi di risposte secondo l'interpretazione della situazione ambientale: un animale o un uomo
possono provare paura o fuggire, oppure rabbia e attaccare a seconda del modo con cui è
vissuto il tipo di minaccia (per esempio come una frustrazione) e a seconda della loro
possibilità di farvi fronte. Le forze che stimolano, sostengono e canalizzano l'aggressività
sarebbero per conseguenza legate all'interpretazione della situazione ambientale (Oliverio
Ferraris- Oliverio, 2002, 58).
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L'imitazione e l'apprendimento svolgono un ruolo altrettanto importante nel
spiegare il comportamento aggressivo; i figli di madri aggressive saranno a loro volta
caratterizzati da comportamenti aggressivi in quanto imiteranno il comportamento della
madre. In maniera analoga, le punizioni inflitte dai genitori ai figli, specie quelle fisiche,
incentivano il bambino ad adottare a sua volta dei comportamenti aggressivi. Infine, i
successi o gli insuccessi individuali, potranno spingere l'individuo ad una maggiore o
minore aggressività in quanto egli acquisisce man mano coscienza della propria forza o
debolezza. Anche l'osservazione di una scena violenta può spingere il bambino a ripeterla o
lo incentiva verso altre forme di aggressività; i film violenti, perciò, non scaricano
l'aggressività, ma la generano (Oliverio Ferraris- Oliverio, 2002, 58).
L'aggressività è un tema tradizionale della psicologia sociale, come di altre branche
della psicologia, attorno al quale si sono confrontati e tuttora si cimentano diversi approcci
e diversi metodi di indagine. Non è soltanto un tema della psicologia. La biologia, la
sociologia, l'antropologia, hanno molto da dire in proposito e difficilmente le varie
psicologie che si occupano di aggressività, dalla psicologia dello sviluppo a quella clinica,
possono prescindere dalle domande, dai problemi, dalle soluzioni che tali discipline
rispettivamente suscitano, affrontano e prospettano. La multidisciplinarità è quindi un
aspetto essenziale del fenomeno di cui riflette la multidimensionalità (Arcuri, 1999, 335).
Le aggressioni e le violenze interpersonali, i conflitti fra i gruppi, i comportamenti
antisociali e competitivi rappresentano le possibili e diverse espressioni di un fenomeno
che in termini generali definiamo “aggressività”. La manifestazione concreta e quotidiana
dell’aggressività, nella maggior parte dei casi rappresenta uno dei problemi più allarmanti
e coinvolgenti del nostro vivere civile. La psicologia sociale ha iniziato a studiare
direttamente forme di comportamento aggressivo di rilevante portata sociale come la
violenza sportiva, il maltrattamento infantile, lo stupro, il rapporto fra media e violenza,
ecc. (Emiliani- Zani, 1998, 273).
Più è drammatico l’avvenimento, più viene da chiedersi perché: che cosa spinge
una persona a minacciare, colpire, torturare o addirittura uccidere l’altro? Ci si aspetta,
infatti, di controllare e ridurre l’aggressività tramite l’identificazione delle cause
(Hewstone- Stroebe, 2002, 305).
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In questo capitolo si cerca di dare anzitutto una definizione di aggressività, inoltre
di illustrare gli approcci teorici e le variabili mediatrici relative al comportamento
aggressivo, evidenziando come non esiste una sola teoria in grado di spiegare il fenomeno
dell'aggressività. Inoltre ci si sofferma su quegli ambiti di vita quotidiana in cui si esprime
l'aggressività: l'aggressività di gruppo, in famiglia, a scuola, sul posto di lavoro e in ambito
sportivo.
1. Definizione di aggressività
Per aggressività s’intende la tendenza a manifestare un comportamento ostile che
ha per fine un aumento di potere dell’aggredito; si presenta in genere come reazione ad una
reale o apparente minaccia al proprio potere (Zingarelli, 2002, 57).
Secondo Castellazzi (2008, 45), l'aggressività è una condotta che può essere vissuta
in modo positivo (affermazione di sé) o negativo (auto e/o eterodistruttività). L'aggressività
quindi si snoda lungo un continuum che va dalla difesa di sé stessi, ad un sano bisogno di
affermazione, alla creatività, alla competitività, al dominio sugli altri, alla distruzione di sé
(masochismo) o degli altri (sadismo). Secondo l'ottica psicoanalitica, l'aggressività non si
esprime soltanto attraverso una condotta manifesta ed intenzionale, ma anche in modo
mascherato ed inconscio. Ad esempio, un genitore scarica la sua ostilità nei confronti del
figlio attraverso l'iperprotezionismo; oppure un individuo si dedica maniacalmente ad
opere di bene per soddisfare il suo bisogno di dominare sugli altri.
Se cerchiamo il termine “aggressività” nell'enciclopedia della psicoanalisi di
Laplanche e Pontalis la troviamo così definita: Tendenza o insieme di tendenze che si
attuano in condotte reali o fantasmatiche, miranti a danneggiare un altro, demolirlo,
costringerlo, umiliarlo, ecc. L'aggressione assume anche modalità diverse dall'azione
motoria violenta e distruttrice; non vi è nessuna condotta, negativa (rifiuto di assistenza,
per esempio) o positiva, simbolica (ironia, per esempio) o effettivamente eseguita, che non
possa funzionare come aggressione. La psicoanalisi ha dato un’importanza crescente
all'aggressività, mostrandola in azione molto presto nello sviluppo del soggetto e
sottolineando il gioco complesso della sua fusione e defusione con la sessualità. Questo
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sviluppo teorico culmina nel tentativo di cercare un sostrato pulsionale unico e
fondamentale dell'aggressività nel concetto di pulsione di morte (Laplanche- Pontalis,
1981, 8-9).
Il compito di definire l'aggressività è reso più complicato proprio dall'uso
quotidiano che con una certa approssimazione ne facciamo. Il comportamento aggressivo
riguarda l’intenzione di infliggere male o danno ad un’altra persona o organismo. Inoltre,
una definizione di aggressività deve includere anche l’intenzione dell’attore di procurare
alla vittima conseguenze negative (Hewstone- Stroebe, 2002, 306).
In psicologia sociale si definisce azione aggressiva il comportamento volto a
provocare un dolore fisico o psicologico. Può essere un'azione materiale o verbale, e può
raggiungere o meno il suo obiettivo, ma è pur sempre aggressività: è l'intenzione che conta.
Così, se qualcuno ci scaglia contro una bottiglia e noi la scansiamo, l'azione resta
aggressiva, laddove se un guidatore spericolato ci investe senza volerlo, mentre
attraversiamo la strada, non si tratta di un atto di aggressività, per quanto maggiore sia il
danno provocato in questo caso rispetto al primo (Aronson- Wilson, 1999, 407).
Il fatto di concentrarsi sull'intenzione di una persona di infliggere dei danni fa sì
che anche le non azioni, come quella di omissione di soccorso, vengono qualificate come
aggressive. Un’ulteriore distinzione si riferisce alla volontà di una persona oggetto di un
attacco di evitarlo (Krahè, 2005, 16).
Un'altra utile distinzione è quella tra aggressività ostile e aggressività strumentale.
L'aggressività ostile è il risultato della rabbia, e il suo unico scopo è infliggere dolore o un
danno. Nell'aggressività strumentale, l'intenzione che pure esiste di fare del male ad
un'altra persona è solo un mezzo rivolto ad un altro scopo. E' per esempio aggressività
strumentale il placcaggio o ogni altra tattica violenta a cui, in una partita di football, ricorre
l'avversario, pur di bloccare il portatore di una palla. Se invece ritiene che il suo avversario
abbia giocato sporco, allora può andare su tutte le furie e cercare in ogni modo di fargli del
male, anche se così facendo, non aumenta le sue possibilità di placcare il portatore di palla.
In questo caso si tratta di aggressività ostile (Aronson- Wilson, 1999, 408).
Un altro aspetto da considerare per definire l'aggressività si riferisce alla
valutazione normativa del comportamento in questione. I provvedimenti disciplinari
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adottati dagli insegnanti o gli atti di autodifesa sono esempi di comportamenti che
soddisfano i criteri di intenzionalità, di aspettativa e il desiderio di evitarli da parte della
persona che ne è oggetto e dovrebbero, di conseguenza, essere classificati come aggressivi.
Tuttavia, sono protetti da norme sociali che li rendono forme accettabili di comportamento
sociale. E' stato quindi sostenuto che un comportamento deve essere considerato
aggressivo soltanto se viola delle norme sociali (Krahè, 2005, 17).
Il fatto di definire l'aggressione in termini di violazione di norme o di
comportamenti socialmente disapprovati, porta a trascurare il problema che la valutazione
normativa di un comportamento cambia a seconda del punto di vista delle parti coinvolte.
Alcune persone, per esempio, considerano le punizioni corporali una pratica educativa
accettabile ed efficace ai fini della crescita, mentre altri le considerano una forma di
aggressione del tutto inaccettabile.
Un punto collegato a ciò riguarda la distinzione tra aggressività legittima e
illegittima. Nella pena di morte, per esempio, le azioni vengono portate avanti con
l'intenzione e l'aspettativa di fare del male al condannato, che è motivato ad evitare tale
trattamento. Tuttavia, queste azioni sono legittimate dalle leggi di molti paesi. E' quindi
appropriato considerarle aggressive, a condizione che i procedimenti legali vengano
condotti in modo giusto? Anche se molti ne rifiutano l'idea, altri possono avere un punto di
vista diverso. In assenza di regolamenti legali espliciti, la questione di legittimità diventa
ancora più complicata. Gli atti di violenza condotti da minoranze emarginate sono forme di
aggressività legittima o illegittima? E' ovvio che la risposta a questa domanda sarà molto
influenzata dalle convinzioni dell'individuo riguardo a quella particolare questione. Se, di
conseguenza, le questioni di violazione delle norme e di legittimità sono molto rilevanti,
nel caso in cui, per esempio, si analizzano le dinamiche degli scontri fra gruppi o si
giustificano dei comportamenti aggressivi, restano elementi critici difficili da adattare
all'interno di una definizione di base dell'aggressività (Krahè, 2005, 18).
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2. Teorie dell'aggressività
Il configurarsi dell'aggressività come fenomeno multidimensionale prospetta
numerose direzioni di ricerca che spesso, a motivo della diversità dei temi indagati e dei
metodi impiegati, si sviluppano lungo percorsi indipendenti. Tra i principali interrogativi
della ricerca psicologica, alcuni riguardano le determinanti fisiologiche e sociali
dell'aggressività, altri le espressioni e le componenti delle diverse manifestazioni (Arcuri,
1999, 346).
Due posizioni fondamentali hanno condizionato fortemente la ricerca psicologica
sull’aggressività. Una di esse concepisce l’aggressività come una forma di comportamento
che è guidata da istinti o pulsioni innate. In base alla seconda concezione, invece,
l’aggressività, come qualsiasi altro comportamento, sarebbe acquisita attraverso
l’esperienza individuale. C’è inoltre una terza versione a metà strada fra le prime due, che
unisce i concetti di pulsione e apprendimento, l’ipotesi della frustrazione-aggressività
(Hewstone- Stoebe, 2002, 307).
Nel presente paragrafo illustreremo i diversi approcci teorici che hanno indagato le
cause del comportamento aggressivo, distinguendo fra le spiegazioni fisiologiche e le
spiegazioni di tipo psicologico.
2.1. Fisiologia dell'aggressività
Lo studio psicologico del comportamento aggressivo lascia senza risposta diverse
domande, con particolare riguardo alle basi fisiologiche dei sentimenti e delle emozioni
che sono associate con la lotta, la frustrazione e la fuga (Scott, 1974, 55).
Circa la fisiologia dell'aggressività, un importante contributo ci arriva dal campo
dell'etologia, che si occupa dello studio comparato del comportamento animale e di quello
umano. Lorenz (2008, 19) ha elaborato un modello di aggressività che si occupa
specificatamente di stabilire il modo in cui l'energia aggressiva si sviluppa e si esprime sia
negli animali che negli esseri umani. La sua convinzione fondamentale era che l'organismo
produce continuamente un'energia aggressiva. Il fatto che questa energia conduca o no alla
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manifestazione di un comportamento aggressivo dipende anzitutto dalla quantità di energia
aggressiva accumulata dall'organismo in un dato momento e in secondo luogo dalla forza
degli stimoli esterni (per esempio la vista o l'odore di un predatore) in grado di provocare
una reazione aggressiva. Questi due fattori sono tra di loro inversamente proporzionali: più
è basso il livello di energia, più deve essere forte lo stimolo necessario per provocare la
risposta aggressiva e viceversa. Il livello di energia che aumenta senza la possibilità di
sfogarsi su uno stimolo esterno finisce per traboccare, provocando un'aggressività
spontanea.
Lorenz (2008, 21) paragona questo processo all'attività di una pentola a pressione,
in cui la pressione continua a crescere fino a essere liberata, e ciò può avvenire in modo
controllato o attraverso un'esplosione spontanea.
Circa l'analisi della fisiologia dell'ira, ha una particolare importanza, l’adrenalina,
che è secreta dalla zona midollare della ghiandola surrenale durante la paura o l'ira e che
duplica gli effetti della stimolazione nervosa. La corteccia, secerne a sua volta un ormone,
il cortisone, che fa seguito a reazioni emotive violente o lesioni. Il cortisone agisce
normalmente nel seguente modo. Sia per effetto di stimolazioni nervose che chimiche la
ghiandola ipofisaria anteriore, situata vicino al cervello, produce una sostanza chimica
chiamata ATCTH, che è immessa nel sangue e portata alle ghiandole surrenali, dove
provoca la liberazione di cortisone, che, una volta in circolo influenza il metabolismo, il
sistema circolatorio, i reni e il tono muscolare in modo da contribuire all'efficienza
generale (Scott, 1974, 70).
L'emozione dell'ira è composta di due specie di stimoli: infatti, il “sentimento”
dell'ira, che sorge nell'ipotalamo, stimola a sua volta i visceri nei quali si produce una
“sensazione” successiva. Entrambi possono influenzare il comportamento attraverso
l'apprendimento ed entrambi possono associarsi secondariamente con ogni altro stimolo
per mezzo dell'apprendimento, come pure mediante una stimolazione nervosa diretta.
Esiste quindi una complessa rete di stimoli causali, nessuno dei quali spiega interamente il
comportamento aggressivo (Scott, 1974, 73).
Per quanto riguarda la lotta, essa può avere origine da una sensazione dolorosa,
quando si è aggrediti. L'individuo che risponde con la lotta può essere stato
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preliminarmente eccitato dalla vista dell'aggressore e il suo comportamento può essere
modificato da questa esperienza esterna. Gli stimoli arrivano al cervello quando ne risulta
un sentimento di ira. Tale sentimento può essere una delle circostanze che provoca la
reazione esterna della lotta, ma in molti casi la reazione volontaria può intervenire così
rapidamente che lo stesso sentimento può sorgere successivamente e servire soltanto a
prolungare la reazione. Nello stesso tempo l'ipotalamo trasmette le proprie stimolazioni
lungo il sistema simpatico agli organi viscerali. In seguito può prodursi una piccola
quantità di cortisone, che induce altre sensazioni in tutto il corpo. Queste sensazioni hanno
probabilmente una minore importanza nella produzione dell'aggressività, ma possono
anche influenzare tale comportamento mediante il processo dell'apprendimento. Il fatto
importante è che la sequenza causale proviene in definitiva dall'esterno. Non esistono
prove fisiologiche di stimolazione spontanea verso la lotta proveniente dall'interno del
corpo. Ciò significa che non esistono bisogni di lottare, sia per aggredire che per
difendersi, tranne quelli provenienti da ciò che accade nell'ambiente esterno (Scott, 1974,
74).
Possiamo concludere che non c'è qualcosa come un “semplice istinto a lottare”, nel
senso di una spinta interna che deve essere soddisfatta. Esiste, tuttavia, un meccanismo
fisiologico che deve essere solo stimolato per produrre un comportamento aggressivo. Il
meccanismo fisiologico interno può essere pericoloso, ma può essere mantenuto sotto
controllo mediante mezzi esterni (Scott, 1974, 76).
Alcune cause dell'aggressività, quindi, derivano dai fattori interni al nostro corpo.
Ad esempio, una struttura particolare del cervello, l'amigdala, sembra in grado di
controllare l'aggressività sia negli esseri umani che negli animali. Quando l'amigdala riceve
degli stimoli, gli organismi docili potrebbero diventare violenti; il risultato opposto si
ottiene quando se ne blocca l'attività neuronale. Anche qui, però non esiste una certa
flessibilità: l'attività neuronale può essere modificata dai fattori sociali, persino nei
subumani. Se ad esempio, un maschio di scimmia si trova in presenza di altre scimmie
meno dominanti, di fatto, le attaccherà allorché viene stimolata quell’area del suo cervello.
Se la stimolazione avviene invece in presenza di scimmie più dominanti, il maschio eviterà
di attaccare e si metterà a fuggire (Aronson- Wilson, 1999, 412).