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Introduzione
Lo spunto per questo lavoro parte dalla constatazione che il
Terzo settore italiano è in un momento di passaggio. Una
naturale evoluzione infatti potrebbe condurre questa
importante parte della società italiana ad emanciparsi dalla
condizione di subalternità in cui giace, stretta com’è fra Stato e
mercato. Il carattere ibrido, che costringe questo settore a
definirsi, fin dalla denominazione, in maniera residuale, può
infatti, in un periodo di crisi economica come quello attuale,
caratterizzarlo in maniera positiva. Il non profit di fatto nasce e
trova il suo status proprio per offrire risposte innovative a
problemi nuovi. Riesce perciò ad inserirsi negli spazi lasciati
vuoti da uno Stato, in progressivo allontanamento
dall’intervento diretto nella realizzazione delle politiche sociali.
Spazi che, d’altronde, non possono essere colmati dalle
aziende private che raramente hanno quale obiettivo primario
il soddisfacimento di una domanda di servizi sociali, spesso
espressione di settori ai margini della società. Lo sviluppo del
Terzo settore sembra per altro confermato dai dati che vedono
un costante incremento delle sue dimensioni sia dal punto di
vista numerico che da quello economico, anche se appare
sintomatico che le ricerche in merito siano alquanto datate. Se
poi si pensa che la maggior parte delle principali indagini sul
non profit tendano a coglierne i soli aspetti economici, si può
comprendere il complesso di inferiorità che tuttora affligge
questo settore.
Ciononostante una retorica legata alla responsabilità sociale si
sta, ormai da almeno vent’anni, diffondendo anche
nell’universo profit. Questa maggiore attenzione verso alcune
delle principali tematiche sociali, prima fra tutte quella
ambientale, non sembra però determinata, se non in piccola
parte, da una mutata sensibilità da parte della dirigenza delle
più grandi aziende. Il vero cambiamento avvenuto è quello
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relativo alla natura della marca che, distaccandosi dal prodotto,
diventa il luogo di incontro fra le necessità della produzione e
le istanze del consumatore. Per dirla in altri termini, la marca
moderna deve essere in grado di soddisfare bisogni non più e
non solo di carattere funzionale ma soprattutto simbolico-
emozionale, deve riuscire a trasmettere fiducia. Ed è per
questo motivo che assume sempre più importanza l’approccio
relazionale, che mette al centro dei processi di marketing il
fruitore dei beni. È inoltre evidente come le marche abbiano
un ruolo preminente nei processi di produzione delle pratiche
sociali. Per questo motivo le aziende private hanno compreso
come sia per loro necessario costruire delle identità che non
ignorino il mondo che le circonda, anche in considerazione del
fatto che dagli anni ’90 dello scorso secolo, ciclicamente,
l’universo delle marche finisce sotto attacco, soprattutto in
corrispondenza con le crisi economiche.
Questo stato di cose porta, o almeno dovrebbe portare, il
Terzo settore a riflettere sulle opportunità che gli si aprono. A
considerare che nessuno come le organizzazioni non profit
possono avere il polso della realtà sociale, dalla quale questi
enti scaturiscono e con la quale restano sempre in stretto
contatto. Si aprono quindi, e si potrebbero aprire in misura
sempre maggiore, degli spazi per attuare delle partnership con il
mondo profit, che vadano al di là della semplici sponsorizzazioni
sociali e che invece riescano a mettere a frutto il patrimonio
valoriale e soprattutto esperienziale delle organizzazioni di
Terzo settore per cambiare realmente alcune prassi aziendali.
Inoltre gli enti non profit potrebbero finalmente avviare un
proficuo e paritario confronto con le istituzioni pubbliche
riguardante la definizione delle politiche sociali. Eppure
difficilmente il Terzo settore riesce a parlare con una voce unica e
soprattutto ad imporre il proprio punto di vista, le proprie
valutazioni ed analisi all’interno del dibattito che avviene sul
circuito dei media mainstream. Appaiono quindi in controluce
alcune delle difficoltà che il Terzo settore incontra nel suo
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processo evolutivo, che attengono sia ai modelli organizzativi
adottati, sia alla visione prospettica, sia, soprattutto, alle
strategie comunicative messe in atto da queste organizzazioni.
Il non profit nazionale infatti si presenta, in questo frangente
così delicato, diviso. E ciò sembra essere, almeno in parte,
causa di una legislazione che consente e quasi invita alla
divisione, tratteggiando ben sedici distinti soggetti giuridici
differenti all’interno di questo ambito. Ma anche cercando di
semplificare l’analisi e raggruppando quindi tutti questi enti in
macrogruppi, le divisioni restano. In particolare si può
osservare come il mondo del volontariato e delle associazioni
prosociali sia sempre più caratterizzato da enti di piccola e
piccolissima dimensione, nati recentemente e contraddistinti
da una buona dose di autoreferenzialità. Al contrario il mondo
della cooperazione, anche in virtù delle specifiche normative
locali, tende sempre di più ad utilizzare un modello
organizzativo quasi-profit, alla ricerca di una
professionalizzazione che dia a questo tipo di strutture una
legittimazione verso i committenti, rappresentati in gran parte
dalle istituzioni pubbliche. D’altra parte questa problematica
può rientrare in una più ampia questione, riguardante la
separazione fra finanziatori e destinatari dell’azione solidale,
che rappresenta uno dei trait d’union dell’intero settore. Chi
invece non ha bisogno di finanziamenti sono le fondazioni,
ulteriore segmento del Terzo settore, che, partendo da un
patrimonio iniziale, lo amministra ed utilizza per un preciso
scopo o per sostenere enti terzi che realizzino progetti di
pubblica utilità. Il modello adottato dalle fondazioni si avvicina
perciò a quello adottato dalle charities di stampo anglosassone.
Tutte queste divisioni si riverberano sulle strategie
comunicative messe in atto dal Terzo settore, che comunica in
maniera non coordinata, a volte estemporanea e che quindi
non riesce a dare il giusto peso alla proprie posizioni.
D’altronde, anche all’interno dei singoli enti, fra centro e
periferia, si registrano differenze nello stile comunicativo
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adottato. Queste discrepanze si notano a cominciare
dall’identità visiva che rappresenta il nucleo primigenio di tutte
le altre attività comunicative. Forse perché la comunicazione
visiva è immediata, diretta ed emozionale. Un’identità visiva,
infatti, deve essere in grado di comunicare l’anima di un ente,
gli aspetti valoriali, la vision ancor prima che la mission.
Osservando come queste immagini (più o meno) coordinate si
dispiegano sulla pluralità di strumenti comunicativi realizzati, si
possono quindi comprendere maggiormente gli aspetti e le
problematiche legate all’identità e all’organizzazione del Terzo
settore.
Ed è per questo motivo che si è resa necessaria una prima
ricerca che analizzasse le identità visive di questo mondo.
Questa indagine, Logo non profit, promossa da Terza.Com -
Osservatorio sulla comunicazione sociale e l’editoria del Terzo settore e
coordinata da Marco Binotto
1
, ha preso in considerazione un
campione di organizzazioni di rilevanza nazionale. L’obiettivo
dichiarato è stato perciò quello di capire se, ed in che modo,
gli enti di Terzo settore mettono in atto delle strategie di
branding.
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Il quadro che si delinea effettivamente riflette la
complessità del Terzo settore, rivelandone gli aspetti di
incoerenza ma anche quelli di vivacità che sicuramente lo
contraddistinguono. Analizzare le identità visive del non profit
significa infatti osservare da vicino le dinamiche organizzative
e le prassi comunicative che si generano all’interno degli enti
che ne fanno parte. Le strategie di branding realizzate infatti
sono le più disparate, essendo caratterizzate da un diverso
grado di consapevolezza: da chi comunica con costanza e
veicola in maniera coerente la propria immagine, a chi
comunica solo saltuariamente e sembra non preoccuparsi per
niente di come viene percepito all’esterno.
1
Vedi www.terzacomunicazione.org
2
I risultati di questa ricerca saranno esposti nell’ultimo capitolo del
presente lavoro.
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Per comprendere meglio i meccanismi che regolano la
comunicazione di marca, ho inoltre approfondito l’analisi dei
sistemi di identità visiva di due importanti realtà nazionali di
Terzo settore. Anche questa osservazione ha rivelato la
compresenza di strumenti di comunicazione professionali
accanto a materiali comunicativi fai da te. Si è inoltre palesato
come le strutture nazionali generalmente comprendano
l’importanza di un corretto utilizzo della propria identità
visiva. Allo stesso tempo si ravvisa come per questi enti sia
assai arduo realizzare l’ideale di una perfetta immagine coordinata,
che preveda l’uniforme dispiegamento del marchio e di tutti gli
altri elementi distintivi, in un mondo la cui la spinta propulsiva
arriva dal basso ed è su base volontaristica. Ho quindi potuto
verificare come le associazioni siano effettivamente in una fase
evolutiva che le porta a riflettere sulla propria identità e sulle
strategie da adottare per meglio comunicare questo
fondamentale aspetto all’esterno. Ciò che lascia ben sperare è
che ad un’apparente incoerenza comunicativa non corrisponda
quasi mai una susseguente discordanza ad un più profondo
livello valoriale.
Ritorna insomma la suggestione proposta all’inizio che vede il
Terzo settore ad un bivio: in bilico fra essere realmente
protagonista della società contemporanea o limitarsi solo al
ruolo marginale ricoperto fino ad ora. Nella determinazione
dei futuri scenari, una parte importante verrà sicuramente
svolta dalla comunicazione. Se infatti gli enti non profit
saranno in grado di organizzarsi e presentarsi in maniera
unitaria, pur nel rispetto delle differenti peculiarità, potranno
divenire voce critica ma allo stesso tempo attendibile. Se
invece prevarrà il dato dell’autoreferenzialità, del rinchiudersi
entro i propri steccati, del fare in silenzio, continuerà ad
affermarsi presso i principali media un’immagine retorica del
non profit, in cui i volontari e gli operatori di Terzo settore
vengono rappresentati in maniera stereotipata ed in situazioni
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limite, ma ai quali raramente viene data la reale opportunità di
esprimersi in prima persona.
Per far ciò, oltre ad imparare le regole che vigono nell’universo
dei media mainstream, il Terzo settore deve imparare ad
utilizzare le nuove tecnologie, i moderni canali informativi che
ben si adattano alla tipologia di comunicazione che si
concretizza all’interno del non profit. In particolar modo
internet e la sua possibilità di feedback ed interattività può
rappresentare un’opportunità di riprodurre il mondo di
relazioni che caratterizza il Terzo settore. Infatti, il tratto
unitario che lega tutte queste differenti esperienze sembra
proprio essere quello di produrre beni relazionali e in definitiva
capitale sociale. L’epoca della tarda modernità è, d’altra parte,
contraddistinta da una relazionalità diffusa che prevede la
presenza di legami deboli, relazioni transitorie e fluide che
stanno, fra l’altro, determinando il successo delle comunità
virtuali e dei social network. È questo, ad esempio, un campo
congeniale al Terzo settore, che, in effetti, le organizzazioni,
seppur non sempre in maniera consapevole, stanno
cominciando ad utilizzare.
D’altronde, l’importanza che questo settore sta assumendo
pone una sfida anche alle professioni della comunicazione che
sempre di più devono essere in grado di rapportarsi con le
realtà di Terzo settore, offrendo servizi mirati che sappiano
valorizzare i punti di forza di questi enti. Non sono infatti rari
i casi in cui agenzie di comunicazione, anche affermate,
propongano alle organizzazioni non profit, le stesse strategie
comunicative pensate per il mondo profit o per il settore
pubblico, ovviamente depotenziate sia per motivi economici
che, soprattutto, perché incapaci di cogliere l’essenza stessa del
Terzo settore. Questa riflessione trova la sua ragion d’essere
soprattutto per quel che attiene la creazione o il restyling delle
identità visive, queste infatti devono rappresentare in maniera
coerente ed efficace l’anima, i valori e la natura di
un’organizzazione. E operare in questo campo senza riuscire a
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comprendere appieno questi elementi, può determinare una
insanabile separazione fra come un ente viene visto all’esterno
e come è percepito all’interno, dai propri dirigenti e soci. Si
realizza in questi casi quello schizofrenico processo che porta
alla scissione fra brand image e brand identity. Per questo è
sempre necessario determinare con precisione ed efficacia il
carattere di marca, il brand character. E seppure questa
operazione si presenti sempre assai complessa, in fondo non
appare condivisibile l’asserzione dello scrittore Premio Nobel
José Saramago, recentemente scomparso, che afferma che
sapere dove è l'identità, è una domanda senza risposta.
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Vedi José Saramago (intervistato da Bia Sarasini), Saramago, l'identità
è un giallo assurdo ne Il Secolo XIX del 25 febbraio 2003.